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utto il quartiere non faceva che discorrere della grande strada, la quale doveva essere aperta tra la Borsa e il nuovo teatro dell’Opéra, col nome di Via Dieci Dicembre. I decreti d’espropriazione eran già pubblicati, e due schiere di demolitori buttavan giú dall’un capo e dall’altro, l’una i vecchi palazzi di Via Luigi il Grande, l’altra i muri leggieri del vecchio Vaudeville: si sentiva il rumor dei picconi sempre piú vicino; la Via Choiseul e quella della Michodière si appassionavano per le loro case condannate. Dentro quindici giorni, sventrate, dovevano lasciar libero il passo alla vita e al sole.

Ma piú ancora il quartiere era commosso dai lavori che si facevano nel Paradiso delle signore. Correva la voce di altri ingrandimenti, di giganteschi magazzini che avrebbero preso le tre facciate di Via della Michodière, Via Nuova di Sant’Agostino e Via Monsigny. Il Mouret, dicevano, aveva trattato col barone Hartmann, presidente del Credito Fondiario, e avrebbe occupato tutto l’insieme delle case, salvo la futura facciata in Via Dieci Dicembre dove il barone voleva costruire un albergo che facesse concorrenza al Grand-Hôtel. Dappertutto il Paradiso ri[p. 295 modifica]scattava gli affitti vecchi; le botteghe si chiudevano; gl’inquilini sgombravano. E nelle case vuote un esercito di operai cominciava già i lavori tra nuvoli di polvere. Soltanto la casuccia del Bourras resisteva tra quello scombussolamento, immobile e intatta, ostinatamente confitta tra gli alti muri, pieni di muratori.

Quando, il giorno dopo, Dionisia con Beppino andò dallo zio, la strada era quasi sbarrata da una fila di carri che scaricavano mattoni davanti al palazzo Duvillard. Il Baudu stava a guardare cupamente, ritto sulla soglia della bottega. Piú il Paradiso cresceva, piú pareva che il Vecchio Elbeuf scemasse. La giovinetta trovò le vetrine anche piú nere, piú soffocate dal mezzanino, con finestrine da prigione: l’umido aveva stinto anche peggio il vecchio cartello verde; la facciata intera, quasi dimagrita e color piombo, metteva freddo a vederla.

— Eccovi alla fine, — disse il Baudu. — State attenta! sarebbero capaci di schiacciarvi.

Nella bottega Dionisia sentí lo stesso stringimento di cuore: le pareva anche più buia, anche piú oppressa dalla sonnolenza della rovina; i palchetti vuoti parevano buchi oscuri; la polvere invadeva banchi e scaffali, dai mucchi di stoffa non piú smossi saliva un sito di cantina ammuffita. Alla cassa stavano immobili la Baudu e Genoveffa, come in un angolo solitario, dove nessuno veniva a disturbarle. La mamma orlava canovacci; la figliuola, con le mani cadutele sui ginocchi, guardava nel vuoto innanzi a sé.

— Buona sera, zia! — disse Dionisia. — Come son contenta di rivedervi! e, se mai v’ho dato qualche dispiacere, vi prego di perdonarmi. [p. 296 modifica]

La Baudu, commossa fino alle lacrime, l’abbracciò.

— Povera figliuola, — rispose — se dei dispiaceri non ne avessi altri, mi vedresti più allegra!

— Buona sera, cugina, — riprese Dionisia, baciando, per la prima, Genoveffa sulle gote.

Genoveffa parve si svegliasse a un tratto. Le rese i baci senza trovare una parola. Lei e sua madre baciarono poi Beppino, che tendeva i braccini. E la riconciliazione fu intera.

— Dunque! sono le sei; andiamo a tavola! — disse il Baudu. — Perché non hai portato anche Gianni?

— Doveva venire — mormorò Dionisia un po’ imbrogliata. — L’ho visto per l’appunto stamattina e me l’ha proprio promesso... Oh! non bisogna aspettarlo; lo avrà trattenuto il padrone.

Aveva paura di qualche storia delle solite, e lo voleva scusare fin d’allora.

— Su via! mettiamoci a tavola! — ripeté lo zio.

Poi, voltosi verso il fondo buio della bottega:

— Colomban, potete mangiare con noi. Tanto, non verrà nessuno.

Dionisia non s’era accorta del commesso. La zia le raccontò che avevano dovuto dar licenza a quell’altro uomo e alla ragazza. Gli affari andavano tanto male, che il Colomban bastava; n’avanzava anzi, perché doveva passare ore e ore senza far nulla, insonnolito, con gli occhi aperti.

Nel salotto da pranzo, il gas ardeva benché si fosse allora nelle lunghe giornate estive. Dionisia ebbe, nell’entrare, un leggiero brivido, sen[p. 297 modifica]tendosi scivolare giú per le spalle il fresco che cadeva dai muri. Rivide la solita tavola tonda, le posate messe sull’incerato, la finestra che prendeva aria e luce dal fondo del pozzo fetido della corticella. E tutto le pareva, al pari della bottega, divenuto piú cupo, ogni cosa le sembrava che desse lacrime.

— Babbo, — disse Genoveffa — per riguardo a Dionisia, devo chiudere la finestra? C’è un certo odore...

Il Baudu non sentiva nulla, e si meravigliò.

— Chiudila se ti pare!... — rispose finalmente — ma si soffocherà tutti.

E veramente c’era da soffocare. Il pranzo era alla buona, semplicissimo. Dopo la minestra, lo zio, quando la serva ebbe portato il lesso, ricascò fatalmente nel discorso su quelli di faccia. Da principio si mostrava tollerantissimo e permetteva alla nipote di pensarla diversamente:

— Dio mio! padrona, padronissima, di sostenere quei grandi arsenali di magazzini... Ognuno ha le sue idee, ragazza mia: se non t’ha fatto arrabbiare nemmeno l’esser cacciata a quel modo fuor dalla porta, devi avere proprio delle ragioni forti. Per me, non me n’offenderei punto... Non è vero? qui nessuno se n’offenderebbe.

— Oh no! — mormorò la Baudu.

Dionisia disse pacatamente le sue ragioni, come usava dirle col Robineau: lo svolgimento logico del commercio, i bisogni dei tempi nuovi, la grandezza di tutto ciò che veniva su ora, finalmente il continuo migliorare delle condizioni pubbliche. Il Baudu, a occhi fissi e bocca socchiusa, l’ascoltava con una visibile tensione della sua intelligenza. Quando ebbe finito, scosse il capo. [p. 298 modifica]

— Sogni, sogni! Il commercio è il commercio; di qui non se n’esce. Oh! quanto a riuscire glie l’ammetto, ma non vo piú in là. Per un pezzo m’aspettavo che facessero tutti un tuffo; già me l’aspettavo e avevo pazienza, te ne rammenti? oggi pare invece che bisogni esser ladri per far fortuna, e la gente onesta muore sulla paglia... Ecco a che siamo ridotti; son costretto a inchinarmi davanti ai fatti. E m’inchino, Dio mio! m’inchino...

A poco a poco una collera repressa lo accendeva. D’un tratto afferrò la forchetta e la brandí:

— Ma io resterò ritto sino all’ultimo respiro! Il Vecchio Elbeuf non si piegherà mai! Capisci? io gliel’avevo detto al Bourras: «Amico, tu scendi a patti, con i ciarlatani; tutti questi vostri rimpasticciamenti sono una vergogna!».

— Mangia, mangia! — interruppe la moglie, inquieta di vederlo riscaldarsi cosí.

— Aspetta: voglio che la mia nipote sappia bene di che panni vesto io... Sta’ a sentire, figliuola mia: io sono come questa boccia: di qui non mi muovo. Riescono? peggio per loro! io, protesto!

La serva portò l’arrosto. Il Baudu lo tagliò con mani che tremavano; ma non aveva piú l’occhiata sapiente, la maestria di prima, a ben pesare le parti. La coscienza della sconfitta gli toglieva la sicurezza, che aveva prima, di padrone rispettato. Com’egli diceva da sé, non gli restava che una forza sola, quella dell’ostinazione nelle sue idee, la forza d’aspettare che la sua casa rovinasse, senza fare un passo né a destra né a sinistra per schivare di averla sul capo. Beppino s’era figurato che lo zio s’infuriasse, e bisognò rassicurarlo, dandogli subito i biscotti, che sta[p. 299 modifica]vano dinanzi al suo piatto. Allora lo zio, abbassando la voce, cercò di mutar discorso. Per un poco chiacchierò sulle demolizioni, e approvò la Via Dieci Dicembre che doveva certamente accrescere il commercio del quartiere. Ma di lí tornò da capo sul Paradiso; l’idea fissa, non poteva fare a meno di riparlarne. Non se ne poteva piú della polvere, non si vendeva piú nulla, dacché c’erano per la strada tanti carri di materiali che la sbarravano. E poi, il Paradiso, a forza d’ingrandire, sarebbe diventato ridicolo; i clienti ci si sarebbero spersi; o perché non mettevano su tutto un mercato? E, nonostante le occhiate supplichevoli della moglie, e lo sforzo ch’egli stesso faceva, dai lavori passò a discorrere di quanto guadagnava il magazzino. Non poteva, nessuno, farsene una ragione! In meno di quattro anni avevan quintuplicato la somma degli affari; l’incasso annuale che prima era d’otto milioni, ora era arrivato a quaranta, secondo l’ultimo inventario. In fin dei conti era una pazzia, un’enormità, che non si poteva combattere piú. Ingrossavano sempre, ora erano mille impiegati; vantavano ventotto sezioni. Queste ventotto sezioni eran la cosa che più lo stizziva. Certo, ne dovevano avere sdoppiata qualcuna, ma altre eran proprio nuove: per esempio, una sezione di mobili, e un’altra di oggetti parigini. Ma come? oggetti parigini! Oh, quella gente non avevano tanti scrupoli! o prima o poi si sarebbero messi a vendere anche il pesce. Lo zio, pur fingendo di rispettare le idee di Dionisia, era giunto a farle la lezioncina:

— Sul serio, tu non li puoi difendere. Lo capiresti tu, se io mettessi una sezione di casseruole accanto a questo negozio di stoffe? Mi da[p. 300 modifica]resti del pazzo!... Confessa almeno che non ne hai stima.

E vedendo come la ragazza si contentasse di sorridere imbarazzata perché capiva l’inutilità delle buone ragioni, continuò:

— Insomma tu stai dalla parte loro. Non ne parliamo piú, è inutile che ci arrabbiamo del l’altro. Mancherebbe anche questa, che si ficcassero tra me e la mia famiglia! Tornaci pure, se ti piace, ma ti proibisco di rompermi piú le orecchie con questi discorsi.

Per un po’ stettero zitti. La sua violenza di prima cadeva in quella rassegnazione febbrile. Nello stretto salotto ci si soffocava, riscaldato com’era dal gas, e la serva dové riaprire la finestra: allora l’umido fetore della corte spirò sulla tavola.

Era stato portato un piatto di patate; si servirono lentamente senza aprir bocca.

— Guarda un po’ quei due lí — ricominciò il Baudu accennando col coltello Genoveffa e il Colomban. — Domandalo a loro, se vogliono bene al tuo Paradiso!

Accanto accanto, al posto solito dove da dodici anni si trovavano due volte al giorno, il Colomban e Genoveffa mangiavano svogliatamente. Non si erano detta ancora una parola.

Lui, con l’esagerare la grossa placidità del suo viso, pareva nascondesse dietro le palpebre socchiuse la fiamma interna che lo bruciava; lei, pallida, curvando sempre piú la testa sotto i capelli troppo pesanti, si lasciava andare quasi consunta da un gran dolore.

— L’anno scorso era stato una rovina — credé dover dire lo zio. — È bisognato rimetterlo, il matrimonio... Domandaglielo, fammi il piace[p. 301 modifica]re, domandaglielo, ciò che pensano loro dei tuoi amici.

Dionisia per contentarlo li interrogò.

— Io non posso amarli molto, cugina mia rispose Genoveffa. — Ma, state tranquilla, non tutti li detestano.

E guardava il Colomban, che faceva una pallina di pane, tutt’assorto. Quando si sentí addosso lo sguardo di lei, diede la stura alle maledizioni.

— Un sudiciume! Uno piú birbante dell’altro!...

— Sentite, sentite! — esclamava il Baudu contentissimo. — Eccone almeno uno che non riusciranno ad avere... Ma tu sei l’ultimo... Della tua pasta non se ne fanno piú.

Genoveffa, severa nel viso e dolente, non levava gli occhi di dosso al Colomban: gli penetrava nel cuore, ed egli si turbava e raddoppiava le ingiurie. La mamma, dinanzi a loro, li guardava inquieta, come se avesse indovinata un’altra disgrazia vicina. Da qualche tempo la pallidezza della figliuola la spaventava; se la sentiva morire.

— La bottega è sola... — disse alla fine, movendosi, per finire quella scena. — Colomban, guardate un po’; mi pare d’aver sentito gente.

Avevano finito e si alzarono. Il Baudu e il Colomban andarono a discorrere con un mezzano che veniva a sentire se volessero qualche cosa, la Baudu prese con sé Beppino per fargli veder le figure. La serva in un batter d’occhio ebbe sparecchiato, e Dionisia stava alla finestra senza pensare piú a nulla, guardando la corte, quando nel voltarsi vide Genoveffa, sempre al suo posto, con gli occhi fissi sull’incerato ancora [p. 302 modifica]umido delle spugnate che gli aveva date la donna.

— Vi sentite male, cugina mia? — le chiese.

La giovinetta non rispose, fissando ostinatamente uno strappo dell’incerato come se fosse interamente assorta nelle riflessioni che la dominavano. Poi alzò la testa con pena, e guardò il viso pieno di compassione che si chinava verso il suo. Erano dunque andati via gli altri? che faceva lí su quella seggiola? E a un tratto diede in uno scoppio di pianto e ricadde col capo sull’orlo della tavola. Piangeva e si bagnava la manica di lacrime.

— Dio mio! che avete? — esclamò Dionisia, tutta sossopra. — Volete che chiami qualcuno?

Genoveffa l’afferrò nervosamente per un braccio, e la trattenne, dicendole a parole rotte:

— No, no, state qui... Oh! la mamma non lo deve sapere!... Con voi è lo stesso: ma gli altri, gli altri, no... Non ho potuto fare a meno, ve lo giuro. È stato nel vedermi cosí sola sola... Aspettate, sto meglio, non piango piú.

E i singhiozzi la scotevano tutta; le gracili membra sussultavano convulsamente. Pareva che il monte dei capelli neri le schiacciasse il capo: e nel muoverlo sulle braccia, una forcina venne via, e i capelli le caddero sul collo ravvolgendola. Dionisia intanto piano piano, perché gli altri non sentissero, cercava di confortarla. Le sbottonò la veste, e le fece pena di vedere com’era magra! la povera Genoveffa aveva il petto vuoto come una bambina, anzi come una vergine consunta dall’anemia. A piena mano le prese i capelli, quegli splendidi capelli che parevan succhiarle tutta la vita; poi li annodò forte[p. 303 modifica]mente, e glieli appuntò, per sbarazzarla e farla un po’ respirare.

— Grazie! come siete buona! — diceva Genoveffa. — Ah! non son grassa, non è vero? Ero più forte prima, e mi son ridotta cosí... Riabbottonatemi il vestito; la mamma mi vedrebbe le spalle. Le nascondo piú che posso... Dio mio! sto male, sto male...

Rispondeva «sto male» con una voce rassegnata nell’agonia della sua debolezza. La crisi intanto si calmava, i singhiozzi non la soffocavano piú, Restava accasciata sulla seggiola, e guardava fisso la cugina. Dopo un poco, le domandò:

— Ditemi la verità, le vuol bene?

Dionisia sentí il rossore che le saliva al viso; aveva capito che alludeva al Colomban e a Clara. Ma finse meraviglia:

— Chi?

Genoveffa scoteva il capo come dicesse che non ci credeva:

— Non dite bugie: fatemi il piacere di dirmelo sul serio... Voi lo sapete, ne sono sicura. Siete stata compagna di lei, ed ho visto il Colomban tenervi dietro, parlarvi sommesso. Vi dava delle commissioni per lei, non è vero?... Fatemi il piacere, ditemi la verità; vi giuro che starò meglio, quando lo saprò.

Dionisia non s’era mai trovata in un tale imbroglio: dinanzi a quella povera figliuola che non apriva mai bocca e aveva indovinato tutto, non sapeva che cosa dire, e abbassava la testa. Eppure trovò la forza di dire un’altra bugia:

— Ma vuol bene a voi!

Allora Genoveffa fece un gesto disperato:

— Sta bene, non mi volete dir nulla. Tanto [p. 304 modifica]è lo stesso; li ho visti io! Lui va ogni momento sul marciapiede per guardarla; lei, lassú, ride... Son certa che fuori si discorrono.

— Oh, questo poi no, ve lo giuro! — escamò Dionisia, senza pensarci, spinta dal desiderio di darle almeno qualche consolazione.

La giovane riprese fiato: sorrise anche d’un debole sorriso. Poi con voce stanca da convalescente:

— Vorrei un bicchier d’acqua... Scusate se vi do noia. Guardate lí, sulla credenza.

E quando ebbe in mano la boccia, tracannò di un fiato un gran bicchiere d’acqua, tenendo con una mano lontana Dionisia, che temeva le facesse male tutta quell’acqua bevuta d’un fiato:

— No, no, lasciate fare; ho sempre sete... La notte, m’alzo per bere.

Si chetarono. Poi riprese dolcemente:

— Se sapeste! Son dieci anni che ho in testa questo pensiero del nostro matrimonio. Avevo ancora le sottane corte, e già il Colomban era per me... Ma non mi rammento nemmeno piú come le cose siano andate. A forza di star sempre insieme, di trovarci chiusi qui accanto, senza mai una distrazione, dovei finire col crederlo mio marito, prima del tempo. Non capivo se l’amavo o no; ero la sua moglie, e bastava. E ora vuol andar con un’altra. Oh! mi sento spezzare il cuore. Voi, vedete, voi non li avete provati mai dolori cosí; nel petto, nel capo, dappertutto; e sento che muoio.

Aveva le lacrime agli occhi. Dionisia, che era commossa anche lei, le chiese:

— E la zia sa niente?

— La mamma di qualche cosa si deve essere accorta, credo... Il babbo ha troppi dispiaceri; [p. 305 modifica]non sa quel che mi fa soffrire rimettendo sempre il nostro matrimonio... La mamma me l’ha domandato piú volte: mi vede andare a male, e ci sta male anche lei; non è mai stata un colosso nemmeno lei, e me lo dice spesso: «Figliuola mia, non t’ho fatta forte abbastanza». E poi come si può venir su bene in queste botteghe? Ma alla fine si deve accorgere che dimagro un po’ troppo!... Guardate che braccia! vi par possibile?

Riprese la boccia con la mano tremante. La cugina volle impedirle di bere.

— No, lasciatemi fare; ho troppa sete!

Si sentiva la voce del Baudu. Allora, cedendo a un impeto del cuore, Dionisia s’inginocchiò e strinse Genoveffa tra le sue braccia fraterne. Le dette baci, le giurò che tutto sarebbe andato a finir bene, che avrebbe sposato il Colomban, e sarebbe stata felice. A un tratto si alzò; lo zio la chiamava.

— C’è Gianni: vieni.

Era proprio Gianni, che tutto spaurito arrivava allora per desinare. Quando gli dissero che mancava poco alle otto, restò a bocca aperta. Non era possibile! usciva allora di bottega! Si misero tutti a ridere: doveva aver preso dal bosco di Vincennes! Ma subito che poté avvicinarsi alla sorella, le disse di nascosto:

— Ci ho una lavandaia, un amore... riportava la biancheria... Ho lí all’uscio un legno; l’ho preso a ore. Dammi cinque franchi.

Uscí, e tornò subito a desinare, perché la Baudu non volle in nessun modo che se n’andasse senza mangiare almeno una zuppettina.

— Genoveffa era venuta anche lei, col suo silenzio solito, e al solito se ne stava a sé. Il Colom[p. 306 modifica] ban, dietro un banco, quasi si addormentava. La serata passò triste e lentissima, animata soltanto dai passi dello zio, che andava su e giú per il negozio vuoto. Non avevano acceso che un becco del gas, e l’ombra del soffitto cadeva pesante come la terra nera d’una fossa.

Passò qualche mese, Dionisia dava una capatina tutti i giorni dai Baudu, per rallegrare un po’ Genoveffa. Ma la tristezza, in quella casa, si faceva sempre peggiore. I lavori di faccia erano un tormento continuo, piú crudele in quella loro rovina. Anche quando avevano un’ora di speranza, una gioia inaspettata, bastava il rumore d’un carro di mattoni, o il mazzuolo d’uno scalpellino, o un bercio d’un muratore, per guastargliela. Tutto il quartiere, del resto, n’era commosso. Dagli assiti che costeggiavano e ingombravano le strade, usciva un moto febbrile. Per quanto l’ingegnere si servisse dei fabbricati che già c’erano, li rompeva da tutte le parti per ridurli a suo modo; e nel mezzo, dov’erano i cortili, costruiva una galleria centrale, vasta come una chiesa, che doveva sboccare nel centro della facciata in Via Nuova di Sant’Agostino, con un grand’atrio. Da principio avevan dovuto vincere grandi difficoltà, nei sotterranei, per via di certi infiltramenti delle fogne in cui si erano imbattuti e per terre d’alluvione, piene di ossa umane. Poi il nuovo pozzo aveva dato molto da dire e da temere alle case vicine; un pozzo fondo cento metri che doveva dare cinquecento litri al minuto. I muri si alzavano ora al primo piano; i palchi giravano, torno torno, tutto l’isolato: si sentiva di continuo lo scricchiolio delle macchine che tiravan su le pietre, il colpo improvviso delle stanghe di ferro, il frastuono d’un popolo [p. 307 modifica]di operai accompagnato dal rumore di picconi e martelli. Ma, su tutto il resto, piú assordiva la gente il fremito delle macchine: tutto andava a vapore, dei fischi acuti pareva strappassero l’aria; e al piú piccolo soffio del vento un nuvolo di polvere si levava e ricadeva come neve sui tetti circostanti. I Baudu, disperati, vedevano quel pulviscolo implacabile entrar dappertutto, attraverso gli affissi meglio chiusi, e guastare le stoffe della bottega, insinuarsi perfino nel loro letto. Il pensiero che dovevano a ogni costo respirarlo, che ne sarebbero morti, avvelenava loro la vita.

Del resto, le cose andavano sempre di male in peggio. Nel settembre l’ingegnere, per paura di non esser pronto, cominciò a far lavorare anche la notte. Furono messe in ordine potenti lampade elettriche, e il fracasso non ebbe tregua un momento: gli operai si alternavano, i martelli non si fermavano mai, le macchine non facevano che fischiare; il gridio sempre altissimo sembrava facesse alzare la polvere e la disperdesse. Allora i Baudu doverono rassegnarsi a non chiuder piú occhio la notte; nella loro alcova giungevano quei rumori, e quando la stanchezza li assopiva sognavano male. Se si levavano scalzi per calmarsi la febbre, e andavano ad alzare un po’ la tenda, restavano spaventati dinanzi all’apparizione del Paradiso delle signore che fiammeggiava nelle tenebre come una sterminata officina, dove si fabbricasse la rovina loro. In mezzo ai muri, costrutti per metà, pieni di strappi, le lampade elettriche gettavano larghi raggi azzurrognoli, d’una intensità che accecava; sonavano le due, poi le tre, poi le quattro. E nel sonno penoso del quartiere, il palazzo in[p. 308 modifica]grandito da quella luce lunare, divenuto sterminato e fantastico, formicolava di ombre nere, di operai che gridavano e si agitavano, e gittavano le ombre loro sul candore dell’intonaco nuovo.

Lo zio Baudu l’aveva detto: il piccolo commercio, delle strade accanto, era bell’e finito. Ogni nuova sezione messa su dal Paradiso faceva andare a capitomboli qualche negoziante giú di lí. La ruina cresceva; si sentivano già scricchiolare le case piú antiche. La Tatin, che vendeva biancheria nella galleria Choiseul, aveva dovuto fallire; il Quinette, guantaio, poteva durare, al piú, per altri sei mesi; il Bédoré e la sua sorella, che vendevano ogni sorta di maglie, stavano sempre ritti in Via Gaillon, soltanto perché davano fondo ai risparmi. E nuove rovine avrebbero tra poco seguito quelle già previste da un pezzo: la sezione degli oggetti parigini minacciava un chincagliere di Via San Rocco, il Deslisgnières, omaccione sanguigno; quella della mobilia danneggiava la ditta Piot e Rivoire, il cui magazzino dormiva nell’ombra della galleria Sant’Anna. Non mancava perfino chi temesse un colpo apoplettico per il chincagliere che dalla mattina alla sera era fuor di sé dalla rabbia, vedendo il Paradiso vendere i portamonete col trenta per cento di ribasso. Quei della mobilia, piú calmi, fingevano di canzonare i merciai che si mettevano a dar via tavole e armadi; ma gli avventori cominciavano già ad andarsene, e la nuova sezione era predestinata a un ottimo successo. Volere o no, bisognava piegare il capo: dopo quelli lí, degli altri dovevano buscarne; e non c’era piú nessuna ragione perché i commerci non ne toccassero, a uno per volta, [p. 309 modifica]tutti. Un giorno o l’altro, il Paradiso solo avrebbe coperto con la sua tettoia tutto il quartiere.

Mattina e sera, quando i mille impiegati entravano e uscivano, facevano ora una fila cosí lunga in Piazza Gaillon, che la gente si fermava a guardare come quando passano i soldati. Per dieci minuti i marciapiedi n’erano affollati; e i negozianti, sulle loro porte, pensavano al loro unico commesso, cui non sapevano piú come dar da mangiare. L’ultimo bilancio del gran magazzino, quei famosi quaranta milioni d’incasso, aveva messo sossopra il vicinato: tra gridi di sorpresa e d’ira, se lo ridicevano di casa in casa. Quaranta milioni! si fa presto a dirlo! Certo, il guadagno netto, con tutte quelle spese e la vendita a prezzi bassissimi, non poteva esser piú del quattro per cento; ma un milione e seicentomila franchi era pur sempre una bella sommetta; del quattro per cento tutti si sarebbero contentati, avendo quel capitale! Correva voce che l’antico capitale del Mouret, i suoi primi cinquecentomila franchi accresciuti anno per anno di tutto il guadagno, un capitale che ora doveva essere circa di quattro milioni, fosse cosí passato dieci volte per le sezioni, trasformato in mercanzia. Quando il Robineau faceva questo conto davanti a Dionisia, dopo pranzo, restava per un po’ accasciato, con gli occhi fissi sul piatto vuoto. Aveva ragione lei; quel continuo rinvestire il capitale faceva la forza invincibile del nuovo commercio. Soltanto il Bourras negava i fatti, e non voleva intendere ragione, superbo e stupido come una pietra di confine. Un mucchio di ladri! Gente ipocrita, gente bugiarda! Ciarlatani che, una mattina o l’altra, sarebbero ruzzolati nel fango! [p. 310 modifica]

I Baudu, frattanto, sebbene non volessero cambiare nulla nel Vecchio Elbeuf, facevan di tutto per mantenersi i clienti; e poiché questi non venivano piú, si sforzavano di cercarli coi mezzani. C’era allora un mezzano, che, quando ci si metteva di buzzo buono, salvava non soltanto tutti i grandi sarti, ma anche le piú piccole botteghe di stoffe e flanelle. Naturalmente se lo leticavano, ed era quasi divenuto una persona importante. Il Baudu entrò in trattative con lui, ma ebbe il cruccio di vederselo accaparrare dal Matignon di Via della Croce. Due altri mezzani, uno dopo l’altro, lo derubarono; un terzo, ch’era onesto, non riusciva a far nulla. Era la morte lenta, senza scosse, un tallentarsi continuo degli affari, gli avventori perduti a uno a uno. Venne il giorno che le scadenze gli dettero gravi pensieri. Fin allora avevano tirato innanzi con ciò che avevano messo da parte; ora cominciavano i debiti. Nel dicembre, il Baudu, atterrito dalle cambiali che aveva firmate, si rassegnò al piú crudele dei sacrifizi che potesse fare: vendé la villa di Rambouillet. Non ne aveva mai tratto un soldo, quando l’aveva affittata; ma questa vendita ruppe il solo sogno della sua vita; il cuore gli sanguinava, come per la perdita d’una persona cara. Dové dare per sessantamila franchi ciò che a lui ne costava piú di duecentomila; ed ebbe anzi abbastanza fortuna nel trovare i Lhomme, che, avendo accanto i loro possessi, per il desiderio d’accrescerli, comprarono. Quei sessantamila franchi dovevano reggere il negozio un altro po’. Anche sotto quelle batoste, il pensiero della battaglia rinasceva; chi sa che ora, con un po’ piú d’ordine, non si potesse anche spuntarla! [p. 311 modifica]

La domenica che i Lhomme pagarono la somma, vollero pranzare coi loro amici del Vecchio Elbeuf. Venne prima la signora Aurelia; bisognò aspettare il cassiere che giunse in ritardo, sbalordito da una mezza giornata di musica; Alberto aveva accettato l’invito, ma non si fece vedere. Fu una serata penosissima.

I Baudu, avvezzi a vivere senz’aria in fondo al loro salottino, rimasero male del trambusto che i Lhomme vi portarono con quel loro modo d’intendere la famiglia e il loro gusto per la vita libera. Genoveffa, offesa dai modi imperiali della signora Aurelia, non aperse bocca; il Colomban ammirava invece, rabbrividendo, la signora che regnava sulla sua Clara.

Prima d’andare a letto, la sera, il Baudu passeggiò un pezzo su e giú per la stanza. Non era freddo; faceva un umidiccio come quando si struggon le nevi. Fuori, sebbene le finestre fossero chiuse e le tende tirate, si sentivano mugghiare le macchine di faccia.

— Sai a che penso, Elisabetta? — disse alla fine alla moglie, ch’era già fra le lenzuola. — Penso che i Lhomme hanno un bel mettere da parte. Io non farei a baratto nemmeno... Hanno quattrini, lo so. La moglie ha raccontato, non è vero?, come quest’anno ha preso quasi ventimila franchi, e per questo ha potuto comprare la casa. Che m’importa? La casa non l’ho piú, ma almeno non vado a sonare il corno da una parte, mentre tu da quell’altra... No, no, non possono esser contenti!

Il dolore del sacrificio fatto era troppo vivo ancora, e non gli era passato il rancore contro quelli che gli avevan portato via il sogno di tutta la vita. Quando, nell’andar su e giú, arri[p. 312 modifica]vava al letto, faceva un gran gesticolare, chinato sulla moglie; poi, giunto davanti alla finestra, si chetava un po’ per ascoltare il rumore dei lavori. E ricominciava le accuse di prima, i lamenti disperati sui tempi nuovi: una cosa simile non s’era mai vista; i commessi guadagnavano ora piú dei negozianti; i cassieri si compravano i possessi dei padroni. Veniva giú tutto; la famiglia non esisteva piú che di nome; se la godevano alla trattoria, in cambio di mangiare onestamente un po’ di zuppa in casa propria. Final mente concluse col profetare che Alberto, un giorno, si sarebbe divorato i beni di Rambouillet con delle ballerine.

La moglie stava a sentire, alzando il capo dal guanciale, tanto pallida, che il viso e la tela avevano lo stesso colore.

— Però hanno pagato! — disse alla fine con dolcezza.

Il Baudu non seppe che rispondere: passeggiò un po’, con gli occhi bassi. Poi ripigliò:

— È vero, m’hanno pagato, e, in fin dei conti, il danaro è sempre danaro... Sarebbe un bel fatto, sai, di ritirar su il negozio con questi quattrini qui. Oh! se non fossi tanto vecchio e tanto stanco!

Stettero zitti qualche minuto: il negoziante mulinava sa Dio che disegni! A un tratto la moglie gli parlò, con gli occhi levati al soffitto, senza muovere il capo:

— Te ne sei accorto di Genoveffa?

— Di che?

— Da un po’ di tempo mi dà da pensare... È sempre piú pallida, e pare che abbia qualche dispiacere. [p. 313 modifica]

Il Baudu, ritto innanzi al letto, cascò dalle nuvole:

— Ma perché?... Se si sente male, lo dovrebbe dire. Bisognerà far venire il medico, domani.

La moglie, sempre immobile, stette un po’ zitta, poi disse, quasi ci riflettesse:

— Questo benedetto matrimonio col Colomban... sarebbe meglio uscirne.

La guardò, e poi ricominciò a passeggiare.

Gli tornavano in mente certi fatti. Com’era possibile che la figliuola si ammalasse per via del commesso? gli voleva dunque tanto bene da non poter nemmeno aspettare? Un’altra disgrazia; e a questa poi non ci aveva pensato. Tanto piú gli dava noia la cosa, in quanto già aveva preso il suo partito: quel matrimonio non si poteva fare finché durava in tale stato il negozio. Ma il timore lo commoveva, e disse:

— Sta bene; ne parlerò io al Colomban.

E continuò a passeggiare, senza aggiungere altro. Gli occhi della signora si chiusero: dormiva, pallida come una morta. Lui seguitava ad andare su e giú. Prima d’entrare a letto, aprí le tende e diede un’occhiata; dall’altra parte della strada le finestre spalancate del vecchio palazzo Duvillard facevano intravedere i lavori con gli operai che si movevano nel chiarore della luce elettrica.

La mattina dopo, il Baudu si tirò dietro il Colomban nella stanzuccia del mezzanino. Aveva già pensato ciò che gli doveva dire:

— Come tu sai, figliuolo mio, ho venduto il possesso di Rambouillet. È un bel rincalzo... Ma prima di tutto vorrei un po’ far due chiacchiere con te.

Il giovanotto, che pareva avesse paura di quel [p. 314 modifica]colloquio, aspettava con un viso che non voleva dir nulla. I suoi occhietti si aprivano e chiudevano in quel suo faccione, che restava a bocca aperta; ciò che in lui era segno di profonda perturbazione.

— Sta’ bene a sentire. Quando il babbo Hauchecorne mi cedé il Vecchio Elbeuf, il negozio andava a vele gonfie: anche lui l’aveva avuto ai suoi tempi dal vecchio Finet, in buono stato... Tu mi conosci; mi parrebbe di fare una frode se lasciassi ai miei figliuoli scemato questo deposito di famiglia; ed è per ciò che ho sempre rimandato d’anno in anno il tuo matrimonio con Genoveffa... Già, mi c’incaponivo; speravo di trovare la fortuna, e ti volevo mettere i libri sotto il naso dicendoti: «Ecco qui: quando entrai io nel negozio si vendé tanto: quest’anno in cui me ne vo, si è venduto per dieci o ventimila franchi di piú...». Insomma, tu capisci, è una specie di giuramento che mi son fatto, il desiderio naturale di provare a me stesso che il negozio con me non è andato male. Se no, mi parrebbe di rubare.

La commozione gli serrava la gola. Si soffiò il naso, e riprese:

— Non dici nulla?

Ma il Colomban non poteva dir nulla, scoteva il capo; aspettava, sempre piú turbato, credendo d’indovinare dove il padrone sarebbe andato a cascare: il matrimonio fra pochi giorni.

Come fare a dirgli di no? Non ne avrebbe mai avuto il coraggio. Bisognava rinunziare a quell’altra che egli si sognava tutte le notti con la carne ardente di tal fiamma, che, per non motirne, si gettava, nudo com’era, per terra.

— Ecco ora, — proseguí il Baudu — ecco [p. 315 modifica]ora il danaro che ci può salvare. Le cose peggiorano di giorno in giorno, ma chi sa che con uno sforzo supremo!... Insomma, te lo volevo dire. Si gioca tutto su una carta; se va bene, bene; se no, peggio per noi!... Ma il vostro matrimonio, povero figliuolo, bisogna rimetterlo un’altra volta. Con che cuore vi lascerei soli nelle peste? Sarebbe una vigliaccheria, non è vero?

Il Colomban, ripreso fiato, s’era messo a sedere su dei pacchi di stoffe. Gli tremavano ancora le gambe, aveva paura di lasciar trapelare la sua contentezza, e abbassava la testa, torcendosi i diti sui ginocchi.

— Non dici nulla? — ripeté il Baudu.

No, non diceva nulla, non sapeva dir nulla. Allora il vecchio riprese lentamente:

— N’ero sicuro io, che ti farebbe dispiacere... Ci vuol coraggio, lo so. Via, fatti animo, non restare cosí sbalordito... E soprattutto intendi bene come stanno le cose. Vi posso legare questo pietrone al collo? Invece d’un buon affare, io forse vi darei un fallimento. No, no, ci vogliono i birbanti per giocare questi tiri... Io voglio, lo sapete, la vostra felicità; ma non mi farete mai far nulla contro coscienza!

E seguitò su questo tono, dibattendosi tra frasi contraddittorie, come uno che voleva essere inteso a volo ed essere costretto dagli altri. Aveva promesso la figlia e il negozio, e la rigida probità lo spingeva a dare l’una e l’altro in buono stato, senza né macchie né debiti. Ma era stanco, il peso era ormai troppo grave per lui: nella sua voce tremante si sentiva una preghiera. Le parole gli s’imbrogliavano sempre piú sulle labbra; seguitava ad aspettare nel Colomban uno slancio, un grido del cuore che non veniva. [p. 316 modifica]

— Lo so, — mormorava — i vecchi non hanno piú fiamma... Ci vogliono i giovani a riaccendere le cose. I giovani hanno il fuoco addosso, è naturale... Ma no, no, non posso, non posso proprio! Se cedessi, poi me lo verreste a rinfacciare.

Si chetò fremendo. E siccome il giovinotto stava sempre a capo basso, gli domandò per la terza volta, dopo qualche secondo di silenzio penoso:

— Non dici nulla?

Finalmente il Colomban, senza alzar gli occhi, rispose:

— Non c’è nulla da dire... Siete voi il padrone; voi la sapete piú lunga di noialtri. Se proprio volete, aspetteremo e cercheremo di farcene una ragione.

Era bell’e finita. Il Baudu sperava ancora che gli si buttasse tra le braccia gridando: «Riposatevi, babbo; tocca ora a noi; dateci il negozio com’è, e lo salveremo noi!». Poi lo guardò e si vergognò di se stesso; si accusò nell’anima sua d’aver teso un tranello ai suoi figliuoli. Si risvegliava in lui la vecchia onestà maniaca del negoziante: aveva ragione quel giovinotto con la sua prudenza, perché nel commercio non si può andare avanti col sentimento, ma con i numeri.

— Abbracciami, figliuolo mio, — disse per conchiudere. — È bell’e fissato; si riparlerà di matrimonio tra un anno. Prima di tutto, gli affari!

Quando la sera, nella loro camera, la Baudu domandò al marito come fosse andata, questi era ostinato piú di prima a voler combattere in persona sino alla fine. Fece grandi elogi del Colomban; un bravo ragazzo, saldo nelle sue idee, ti[p. 317 modifica]rato su secondo i buoni principi, incapace, per esempio, di mettersi a scherzare con gli avventori, come quei bellimbusti del Paradiso. Era una persona onesta, era uno di casa; lui non giocava sulla vendita come se fosse un valore di borsa.

— E a quando il matrimonio? — chiese la Baudu.

— C’è tempo! — rispose. — Voglio mantenere le mie promesse.

Lei non si mosse; disse soltanto dopo un po’:

— Genoveffa ci muore!

Il Baudu si trattenne, ma si sentiva portar via dalla rabbia. Lui, lui sarebbe morto se seguitavano a scombussolarlo cosí! Era colpa sua? Le voleva bene alla figliuola, avrebbe dato per lei il sangue; ma non poteva fare che il negozio andasse bene quando non voleva andare. Genoveffa doveva avere un po’ di giudizio e aspettare con pazienza un bilancio migliore. Che diavolo! Il Colomban era lí; nessuno glielo rubava!

— Pare impossibile! — ripeteva — una ragazza educata tanto per bene!

La moglie non aggiunse sillaba. Aveva indovinato ormai, i tormenti che a Genoveffa dava la gelosia, ma non stimò di doverli dire al marito. Una curiosa timidità le impediva sempre d’entrare con lui in discorsi di delicatezza e d’amore. Quando il Baudu si accorse che restava zitta zitta, si sfogò con quelli di faccia, tendendo i pugni contro i lavoranti. Quella notte mettevano su delle traverse di ferro, con grandi martellate.

Dionisia stava per rientrare nel Paradiso delle signore. S’era accorta che i Robineau, costret[p. 318 modifica]ti a fare economia, non osavano darle licenza. Per poter reggere dell’altro, bisognava che facessero tutto da sé: il Gaujean, ostinato nei suoi rancori, faceva loro credito, prometteva perfino di trovare dei capitali; ma erano impauriti e volevano tentare il risparmio e l’ordine. Per quindici giorni Dionisia sentí ch’erano imbarazzati con lei; e dové parlare lei per la prima dicendo loro che s’era trovata un altro posto. Respirarono: la signora l’abbracciò commossa, dicendole che l’avrebbe sempre rimpianta. Poi, quando la giovanetta dové aggiungere che tornava dal Mouret, il Robineau impallidí:

— Fate bene! — esclamò cupamente.

Era meno facile dir la cosa al vecchio Bourras. Eppure Dionisia non poteva far a meno di sgombrare; e tremava, sentendo per lui una viva riconoscenza. Il Bourras, per l’appunto, con quel frastuono attorno, era furibondo dalla mattina alla sera. I carri gli sbarravan la strada; i picconi si ficcavano nei suoi muri; al rumor dei martelli tutta la bottega, gli ombrelli e le mazze, ballavano. Pareva che la casuccia tra tutta quella furia di demolizioni si dovesse spezzare. Ma il peggio era che l’ingegnere, per mettere in comunicazione le sezioni del magazzino con quelle del vecchio palazzo Duvillard, aveva pensato di scavare un corridoio sotto la casetta che le separava. La casa era del Mouret; il contratto diceva che i restauri toccavano al proprietario; e una bella mattina i muratori si presentarono dall’ombrellaio. Se non gli venne un accidente, fu un miracolo. Non bastava d’averlo stretto da tutte le parti, da destra, da sinistra, di dietro? anche sotto, ora! Cacciò via i muratori, e ricorse al tribunale. Restauri, sta bene; [p. 319 modifica]ma questi erano abbellimenti. Pel quartiere dicevano che avrebbe vinto lui, ma che bisognava vedere, per altro. In ogni modo, il processo era un affar lungo; e tutti ci si appassionavano, per quel duello che non finiva mai.

Il giorno che Dionisia si risolse, alla fine, di dargli la disdetta, il Bourras tornava appunto dal suo avvocato.

— Ci credereste? — le gridò infuriato — ora, dicendo che la casa non è solida, pretendono dimostrare che bisogna rafforzare i fondamenti. Lo credo io! a forza di scuoterla con quegli accidenti di macchine, deve cascare, sí, un giorno o l’altro!

Quando poi la giovanetta gli ebbe detto che se n’andava e che tornava al Paradiso con mille franchi di stipendio, ne fu cosí sbalordito che non fece altro che alzare al cielo le vecchie mani tremanti. Dalla commozione era cascato su di una seggiola:

— Voi! — balbettò. — Io solo resto, io solo!

E, dopo un po’, chiese:

— E Beppino?

— Tornerà dalla Gras, — rispose Dionisia. — Gli voleva tanto bene!

Si chetarono di nuovo. Dionisia avrebbe preferito che andasse sulle furie, bestemmiasse, desse dei pugni sul banco; quel vecchio cosí commosso, soffocato, le faceva male. Ma a poco a poco si riaveva, e ricominciava a gridare:

— Mille franchi, già, non si rifiutano... Ve n’andrete tutti. Andate, andate, lasciatemi solo... sí, solo, solo! Uno almeno ce ne sarà, che non piegherà mai il capo!... E diteglielo, che la [p. 320 modifica]causa la vincerò io, quando dovessi restare senza camicia!

Dionisia non doveva andar via dal Robineau che alla fine del mese. Aveva parlato col Mouret, e s’erano intesi su tutto. Una sera rientrava in casa, quando il Deloche, che stava ad aspettarla sotto un portone, la fermò. Era tutto contento; aveva saputo la grande notizia; tutti nel magazzino ne discorrevano, diceva lui. E le raccontò, gongolando, le chiacchiere delle sezioni.

— Che grinte che hanno quelle ragazze delle confezioni!

Poi interrompendosi:

— A proposito, vi ricordate di Clara? Pare che il padrone se la sia... Mi capite?...

Era divenuto rosso; lei, pallida, esclamò:

— Il signor Mouret!

— Bel gusto, non è vero? Pare un cavallo...

Almeno quell’altra della biancheria, che si prese l’anno innanzi, era carina. Ma già... contento lui, contenti tutti!

Dionisia salí in fretta le scale; quando fu nella sua cameretta, si sentí quasi svenire. Forse le aveva salite troppo lesta. Con i gomiti sulla finestra ebbe un’improvvisa visione di Valognes, della via deserta, del lastrico tutt’erba che vedeva dalla sua cameretta di bambina; e sentiva un gran bisogno di tornar laggiú, rifugiarsi nell’oblio e nella pace della provincia. Parigi la irritava; odiava il Paradiso delle signore; non riusciva a capire com’avesse potuto consentire a tornarvi. Certo l’aspettavano altri dolori: da quando aveva sentito le chiacchiere del Deloche, soffriva già d’un ignoto malessere. Allora, senza sapere il perché, uno scoppio di pianto l’obbligò a levarsi di lí. Pianse a lungo; sfoga[p. 321 modifica]tasi, ritrovò un po’ di coraggio per affrontare ancora la vita.

Il giorno dopo, sull’ora di colazione, essendo stata mandata dal Robineau a fare certe commissioni, nel passare davanti al Vecchio Elbeuf vide il Colomban solo nel negozio, e si affacció all’uscio. I Baudu erano a tavola; si sentiva il rumore delle forchette, di fondo al salottino.

— Potete entrare, — disse il commesso — sono a tavola.

Ma lei gli fece cenno di stare zitto, e lo tirò in un canto, parlandogli sommessamente:

— Con voi voglio parlare... Ma non avete punto cuore? non vedete che Genoveffa vi vuol bene e che la fate morire?

Fremeva tutta; la febbre del giorno innanzi la riprendeva. Lui, sbalordito da quell’assalto improvviso, la guardava senza saper che si dire.

— Capite? — continuò Dionisia. Genoveffa sa che volete bene a un’altra. Me l’ha detto lei, e singhiozzava da far pietà ai sassi. Ah! povera disgraziata! in un bello stato l’avete ridotta! se aveste visto che braccia! una cosa da far piangere! Voi non la potete far morire cosí. Alla fine egli rispose tutto sossopra:

— Ma non è mica malata; voi esagerate... A me non mi pare... E poi è il suo babbo che rimanda sempre il nostro matrimonio.

Lei, senza tanti riguardi, gli disse ch’era una bugia. S’era accorta che una parola del giovane avrebbe fatto risolvere lo zio. Ma la sorpresa del Colomban non era finta; non se n’era mai accorto davvero del lento agonizzare di Genoveffa. E per lui fu sgradevole piú che doloroso l’esserne fatto accorto; finché non lo sapeva, non aveva rimorsi troppo grossi. [p. 322 modifica]

— E per chi? — ripigliava Dionisia — per una poco di buono!... Non lo sapete, dunque, a chi volete bene? Non ve l’ho voluto dire fin ad ora per non darvi questo dispiacere; ho schivato di rispondere alle vostre continue domande... Ebbene! sí, lei va con tutti, si burla di voi, non l’avrete mai, o se l’avrete, l’avrete come l’hanno avuta gli altri, per una volta, alla sfuggita!

Pallido, pallido, il Colomban ascoltava; e ad ogni frase che Dionisia gli gettava sul viso, gli tremavano le labbra e stringeva i denti.

La giovane donna, divenuta crudele, si lasciava ora trascinare da un impeto, di cui non si accorgeva:

— Insomma, — disse in un ultimo grido — ora se la volete saper tutta, è mantenuta dal Mouret!

La voce le restava in gola; era divenuta piú pallida di lui. Si guardarono.

Poi, egli mormorò:

— Le voglio bene!

Allora Dionisia fu colta da vergogna. Perché mai parlava a quel giovinotto, e perché se la pigliava cosí calda? Non sapeva piú che dire: quell’unica frase ch’egli le aveva risposto le rintoccava nel cuore come una campana lontana che l’assordisse. «Le voglio bene!» Aveva ragione lui: amava, non ne poteva sposare un’altra.

Nel voltarsi, vide Genoveffa sulla soglia del salottino.

— Zitto! — disse subito al Colomban.

Ma era troppo tardi: Genoveffa doveva aver sentito; non aveva piú una goccia di sangue nelle labbra. Proprio in quel momento, una signora entrò; era la Bourdelais, una delle poche ri[p. 323 modifica]maste fedeli al Vecchio Elbeuf dove trovava roba piú forte. Da un pezzo la De Boves era andata, seguendo la moda, al Paradiso; la Marty non veniva piú nemmeno lei, vinta dalla seduzione delle vetrine di faccia. E Genoveffa fu costretta a farsi innanzi per domandare cortesemente:

— Che desidera la signora?

La Bourdelais voleva vedere flanelle. Il Colomban tirò giú una pezza da uno scaffale, Genoveffa mostrò la stoffa; e si trovaron tutt’e due con le mani gelide, accosto, dietro il banco. Usciva intanto dal salottino il Baudu, dietro alla moglie che s’era messa allo sgabello della cassa. Ma da principio non si occupò della vendita; sorrise a Dionisia, e rimase ritto a guardare la Bourdelais.

— Non è tanto bella — diceva questa. — Fatemene vedere della piú forte.

Il Colomban tirò giú un’altra pezza. La signora guardò e riguardò la stoffa, nessuno aprendo bocca.

— Quanto?

— Sei franchi — rispose Genoveffa.

La Bourdelais fece un moto improvviso.

— Sei franchi! ma di faccia la danno, questa medesima, a cinque!

Il viso del Baudu si contrasse leggermente.

Non poté trattenersi dal dire lui, con tutta la garbatezza possibile, che la signora si doveva ingannare: quella stoffa valeva franchi sei e cinquanta, era impossibile che la dessero per cinque! Doveva essere un’altra flanella.

— No no, — ripeteva la Bourdelais con l’ostinazione d’una borghese che vuole intender[p. 324 modifica]sene. — La flanella è la stessa; anzi, forse quella là è un po’ più forte.

E la discussione si accese. Il Baudu, col sangue alla testa, doveva fare un grande sforzo per continuare a sorridere. La sua ira contro il Paradiso gli restava in gola.

— Insomma, — disse alla fine la signora — bisogna che mi trattiate meglio; se no, andrò anch’io di faccia.

A queste parole il negoziante perse la testa e gridò, scosso da uno scoppio di collera:

— E lei vada di faccia!

Ella si alzò offesa, e se n’andò, senza nemmeno voltarsi, rispondendo:

— Guardi, la servo subito.

Rimasero tutti atterriti dalla violenza del Baudu; egli stesso tremava, sbalordito da ciò che aveva detto. Quelle parole gli erano scappate di bocca, senza ch’egli volesse, nella esplosione di un rancore lungamente nutrito. Ed ora i suoi, immobili, spaventati, seguivano con lo sguardo la Bourdelais che attraversava la strada. Pareva loro che si portasse via con sé la fortuna. Allorché col suo passo tranquillo ella entrò nel portone del Paradiso, quando la videro là perdersi tra la gente, sentirono quasi uno strappo nell’anima.

— Un’altra che ci portano via! — mormorò il vecchio.

Poi, volgendosi a Dionisia della quale sapeva già i nuovi impegni:

— Anche te, t’hanno riacchiappata... Non per questo me la piglierò. Hanno i quattrini; sono piú forti.

Dionisia, sperando che Genoveffa non avesse [p. 325 modifica]sentito il Colomban, le stava dicendo in un orecchio:

— Vi vuol bene; state allegra.

Ma la giovine le rispose con un fil di voce, in cui si sentiva lo strazio:

— Perché dite una bugia?... Guardate! non è mica piú padrone di sé; ha gli occhi lassú. Me l’hanno rubato, come ci rubano tutto.

Ed andò a mettersi a sedere alla cassa, accanto alla mamma.

Questa aveva certo indovinato la nuova ferita di lei, perché i suoi occhi pieni di lacrime si fissarono prima sulla figlia, poi sul Colomban, per ultimo sul Paradiso. Era vero: il Paradiso rubava loro ogni cosa: al padre la ricchezza, alla madre la figlia morente, alla figlia uno sposo aspettato dieci anni. Davanti a quella famiglia, che le pareva già condannata a rovina, Dionisia, col cuore che le si struggeva dalla pietà, ebbe per un momento timore d’esser cattiva. Perché andava ad aiutare la macchina che schiacciava cosí la gente? Ma s’accorgeva d’essere come sospinta da una forza, sentiva di non fare del male.

— Insomma, — riprese il Baudu per rincorarsi — non moriremo mica per questo. Una cliente perduta, dieci ritrovate... Capisci, Dionisia? ho di là sessantamila franchi che faranno perdere parecchi sonni al tuo Mouret... Su su, voialtre: non siamo a un mortorio, da far codesti visi!

Non gli riuscí rallegrarle; ricadeva egli stesso in una cupa costernazione; e restavano lí tutti con gli occhi sul mostro, senza poterne torcere via gli occhi né pensare ad altro che alle loro sciagure. I lavori eran vicini al termine; avevano già tolti dalla facciata i palchi; un’ala del gigan[p. 326 modifica]tesco edifizio appariva con i muri bianchi è le larghe vetrine lucide. Lungo il marciapiede, reso alfine all’uso della gente, stavano in fila otto carrozzini che i garzoni caricavano un dopo l’altro davanti all’ufficio di spedizione. Sotto il sole, di cui un raggio dava sulla via, il verde, il giallo, il rosso, di quei legni, mandavano, come specchi, riflessi accecanti sino in fondo al Vecchio Elbeuf. I cocchieri vestiti di nero, severamente impettiti, tenevano in freno i cavalli, bellissimi cavalli, che scotevano le sonagliere inargentate. E ogni volta che un carrozzino era pieno si sentiva sul lastrico il rumore assordante delle ruote che facevan tremare le bottegucce vicine.

Allora, davanti a quel corteo trionfale che per forza avevano sotto gli occhi due volte al giorno, il cuore dei Baudu si spezzò. Il padre si chiedeva spaurito dove mai potesse andare a sboccare quel torrente di mercanzie; la madre, addolorata dal tormento della figliuola, continuava a guardare senza veder nulla, con gli occhi pieni di lacrime grosse.