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il paradiso delle signore

di operai accompagnato dal rumore di picconi e martelli. Ma, su tutto il resto, piú assordiva la gente il fremito delle macchine: tutto andava a vapore, dei fischi acuti pareva strappassero l’aria; e al piú piccolo soffio del vento un nuvolo di polvere si levava e ricadeva come neve sui tetti circostanti. I Baudu, disperati, vedevano quel pulviscolo implacabile entrar dappertutto, attraverso gli affissi meglio chiusi, e guastare le stoffe della bottega, insinuarsi perfino nel loro letto. Il pensiero che dovevano a ogni costo respirarlo, che ne sarebbero morti, avvelenava loro la vita.

Del resto, le cose andavano sempre di male in peggio. Nel settembre l’ingegnere, per paura di non esser pronto, cominciò a far lavorare anche la notte. Furono messe in ordine potenti lampade elettriche, e il fracasso non ebbe tregua un momento: gli operai si alternavano, i martelli non si fermavano mai, le macchine non facevano che fischiare; il gridio sempre altissimo sembrava facesse alzare la polvere e la disperdesse. Allora i Baudu doverono rassegnarsi a non chiuder piú occhio la notte; nella loro alcova giungevano quei rumori, e quando la stanchezza li assopiva sognavano male. Se si levavano scalzi per calmarsi la febbre, e andavano ad alzare un po’ la tenda, restavano spaventati dinanzi all’apparizione del Paradiso delle signore che fiammeggiava nelle tenebre come una sterminata officina, dove si fabbricasse la rovina loro. In mezzo ai muri, costrutti per metà, pieni di strappi, le lampade elettriche gettavano larghi raggi azzurrognoli, d’una intensità che accecava; sonavano le due, poi le tre, poi le quattro. E nel sonno penoso del quartiere, il palazzo in-


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