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ban, dietro un banco, quasi si addormentava. La serata passò triste e lentissima, animata soltanto dai passi dello zio, che andava su e giú per il negozio vuoto. Non avevano acceso che un becco del gas, e l’ombra del soffitto cadeva pesante come la terra nera d’una fossa.

Passò qualche mese, Dionisia dava una capatina tutti i giorni dai Baudu, per rallegrare un po’ Genoveffa. Ma la tristezza, in quella casa, si faceva sempre peggiore. I lavori di faccia erano un tormento continuo, piú crudele in quella loro rovina. Anche quando avevano un’ora di speranza, una gioia inaspettata, bastava il rumore d’un carro di mattoni, o il mazzuolo d’uno scalpellino, o un bercio d’un muratore, per guastargliela. Tutto il quartiere, del resto, n’era commosso. Dagli assiti che costeggiavano e ingombravano le strade, usciva un moto febbrile. Per quanto l’ingegnere si servisse dei fabbricati che già c’erano, li rompeva da tutte le parti per ridurli a suo modo; e nel mezzo, dov’erano i cortili, costruiva una galleria centrale, vasta come una chiesa, che doveva sboccare nel centro della facciata in Via Nuova di Sant’Agostino, con un grand’atrio. Da principio avevan dovuto vincere grandi difficoltà, nei sotterranei, per via di certi infiltramenti delle fogne in cui si erano imbattuti e per terre d’alluvione, piene di ossa umane. Poi il nuovo pozzo aveva dato molto da dire e da temere alle case vicine; un pozzo fondo cento metri che doveva dare cinquecento litri al minuto. I muri si alzavano ora al primo piano; i palchi giravano, torno torno, tutto l’isolato: si sentiva di continuo lo scricchiolio delle macchine che tiravan su le pietre, il colpo improvviso delle stanghe di ferro, il frastuono d’un popolo


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