Voci della notte/Il merciaiolo ambulante
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Il merciaiolo ambulante
L’unico rimedio — aveva pensato colle spalle al muro, rovesciando le tasche rotte — è di prender moglie, maledetta vita!
La vita che egli malediceva non era stata infatti molto bella per lui, come per una quantità d’altri, dopo tutto; ma degli altri non gliene importava nulla. Poichè erano le sue ossa proprie che avevano dovuto piegarsi fin da piccino ai più duri lavori, il suo stomaco che aveva patita la fame, la sua schiena che era stata coperta più di busse che di camicie e infine, se altri e altri avevano fatto come lui il soldato nelle province meridionali, giusto quando infieriva il brigantaggio, i reumi cronici che vi aveva buscato e che lo obbligavano a camminare di traverso erano suoi, niente altro che suoi — e nessuno se ne curava — dunque anch’egli non si curava di nessuno.
Poco doveva mancare ai cinquant’anni, ma come si fa a saperlo precisamente quando non s’è conosciuto nè babbo nè mamma, e non si ebbe mai nè casa nè tetto e gli anni passarono a guisa di gragnuola sul capo? Infine, se si fosse deciso al gran passo, era un’occasione per venire in chiaro anche di ciò.
Certo il difficile stava nella scelta della sposa. Egli non aveva molta pratica di donne, anzi era questo il punto debole per cui aveva subìte tante canzonature dalle ragazze del paese, prima, dai compagni di caserma poi.
Anche adesso che, incapace di qualsiasi altro mestiere in causa di quegli sciagurati reumi, girava di villa in villa colla scatola delle mercanzie, le donne non lo accoglievano volentieri. Con lui non avevano mai bisogno di nulla, s’erano già provviste altrove.
Invano egli recava fazzoletti stampati a ghirlande che parevano vere; pettini d’osso, di legno, d’ottone; specchietti con cornice di latta che simulava l’argento tal quale; elastici e giarrettiere di cotone verde, forti, resistenti a qualsiasi tenzone; spilli colla capocchia dai cento colori; ferri da calza; ditali; agorai dalle forme strane e svariate dall’ombrello allo stivale, fino al cilindro con un forellino nel mezzo, in cui si vedeva la madonna dei sette dolori. Da ultimo aveva ricorso ai pianeti colla sorte che doveva toccare ad ognuna, maritata, vedova o zitella; ed alle noci dorate, coi numeri del lotto per quelle che non si aspettavano più altro.
Invano. Le donne gli restavano nemiche, il suo commercio languiva, la sua mercanzia prendeva la muffa, per niente altro se non perchè egli era antipatico alle donne. Perchè poi? Mah!
Tutto sta a nascere fortunati — pensava egli ancora.
Una donna però gli ci voleva a qualunque costo. I suoi poveri stracci non stavano più insieme ed era stanco alla fine di dormire sempre sui fienili o nelle stalle, mentre ogni cristiano ha il suo letto, per male che gli avvenga.
Una buona donna — tornava a pensare — non bella e non giovane... ci mancherebbe altro! Così, una compagna per la vecchiaia, qualcuno a cui dire, quando l’istante fosse giunto: Sto per morire. E sentirsi chiudere gli occhi in pace.
Continuando a pensare, colle tasche in mano, attraverso i buchi delle quali le dita giocavano a rimpiatterello, egli si ricordò della vedova di un suo camerata, onesta femmina per l’appunto, che stentava la vita con cinque figliuoli, lavorando allegramente da mattina a sera, forte come un uomo.
Questo era stato il preludio, come sarebbe a dire la sinfonia preparatoria dei quindici giorni che erano trascorsi prima di decidersi a parlare colla vedova.
Finalmente il gran passo era fatto; aveva parlato. La vedova, senza dire nè sì nè no, s’era presa il tempo di consultare i suoi figli. Ed ora, intanto che egli si recava alla fiera di buon mattino colla sua mercanzia, passerebbe a sentire la risposta.
Forse si era alzato anche troppo presto; l’oscurità era fitta. Appena appena la strada maestra biancheggiava tra i due filari di salici che egli intuiva più che non vedesse: così come camminava, a fiuto, per la grande abitudine dei luoghi, sicuro di non cadere nel fosso di destra e neppure in quello di sinistra, stringendo la cicca in bocca a guisa di compagnia.
Qualche carro veniva avanti lentamente, coperto dal cappuccio di tela bianca, coll’uomo che dormiva e di cui non si scorgevano che le gambe penzoloni, intanto che il cavallo camminava lemme lemme, cogli occhi socchiusi, il garretto floscio, nella completa apatia dell’abitudine.
Nessun movimento ancora della prossima fiera; non bestie per il mercato, non sensali, non donne coi polli e colle uova. Decisamente era troppo presto. Chi sa mai se la vedova lo aspettava a quell’ora!
Rallentò il passo, accomodandosi meglio sulle spalle la cinghia che sorreggeva la sua cassetta. Introdusse poi le quattro dita sotto il coperchio per assicurarsi che fosse a suo posto un certo involtino; trattavasi di una pezzuola a fondo blù cogli orli arancione, di cui intendeva far dono alla vedova come promessa di nozze.
Confetti bacati! senza dubbio. Tuttavia meglio così che niente; meglio tutto che l’andare girelloni a mo’ di cane randagio, d’estate sotto il sole, d’inverno sotto la neve, senza contare la pioggia, la nebbia e il vento.
E un bel vento si apparecchiava anche per quella giornata; proprio un vento di marzo freddo e pungente che gli penetrava fin sotto il gabbano. L’alba non ispuntava ancora, ma già nel cielo e nell’aria si sentiva che la notte stava per finire. Era l’ora dolce per i felici che hanno un letto e che vi si rannicchiano assaporando la voluttà delle ultime ore di sonno, tirandosi sul collo la trapunta, allungando le gambe fin dove arrivano, nel tepore eguale e continuato che fa distendere la pelle.
Passava giusto davanti a un cascinale, e alzando gli occhi alle finestre tutte chiuse, gli parve di vedere il marito e la moglie fianco a fianco nel talamo, calmi, sicuri. Che cosa manca a quelli lì? — pensò.
Guardando per aria si soffiava sulle dita che gli volevano gelar via, tutte tagliuzzate com’erano dalle ragadi, senza un cencio di paia di guanti, chè non se li poteva mantenere perchè appena messi lasciavano scappare i punti che era una disperazione.
Finirà! finirà! — disse poi a voce alta, dandosi una fregatina di palme e facendo passare la cicca da destra a sinistra — con un ordine di pensieri fatti improvvisamente lieti; tanto lieti che si trovò avanti alla casa della vedova quasi senza accorgersene.
Ohè! — esclamò, tentando una piroetta che gli riuscì a mezzo in causa dei reumi — la colomba mi aspetta.
Egli lo argomentava da un fioco lumicino, trasparente per le imposte della finestrucola a pian terreno, dove la vedova teneva la cucina.
Difatti, al risonare dei passi sulla via, si dischiuse pian piano la porta e una testa di donna, passando per la fessura, accennò di entrare.
— Chi sa che cosa penserebbe la gente nel vedervi a qui quest’ora! Ma non ho cuore di lasciarvi fuori al freddo, venite....
— Tanto, un po’ prima un po’ dopo.... balbettò egli confuso, varcando la soglia.
— No, no, non è questo. Che volete? I progetti non riescono sempre.
Egli ebbe da tali parole un cattivo pronostico; ma per ritardare almeno la spiegazione, se questa doveva essere sfavorevole, osservò che la donna aveva una mano fasciata.
— È un patereccio. Accostatevi al fuoco, povero cristiano, non vi aspettavo così presto; ma tanto non potevo dormire in causa delle fitte ed ho acceso il fuoco per far riscaldare la pappina.
— Che ci mettete la pappina? Non val nulla, io direi meglio delle lumache schiacciate che levano l’infiammazione.
— Se sapeste quante ne ho provate di già! È uno spasimo.
Egli si arrestò a guardarla con compassione, perchè di paterecci ne aveva avuti qualcuno anche lui e sapeva che inferno mettono addosso.
— Tre notti che non dormo! Sembra lo faccia apposta. Quando credo di potermi riposare un momento, eccolo che incomincia: tac, tac, tac. E dentro un fuoco, un rimescolìo....
— E bisogna cacciarsi fuori dalle coltri, oh! lo so, lo so. Io una volta, disperato, lo tagliai col falcetto, che m’è rimasto il segno e rimarrà vita natural durante. Guardate.
— Oh! santa Vergine! — mormorò la donna accostandosi al petto la mano ammalata, con un istinto di protezione.
E tacquero per un po’; ella accarezzando e raggiustandosi le bende; egli, intimidito, cogli occhi sulla fiammolina misera misera del focolare.
— Ne ho parlato, sapete, co’ miei figli? — disse finalmente la vedova.
Il pretendente non osò fiatare, aspettando.
— Essi non sono di parere — aggiunse con semplicità.
— Il motivo? — chiese lui colla voce rôca, gli occhi bassi, tutto umile nella sua continua disdetta colle donne.
— Il motivo — spiegò la vedova esitando, cercando le parole meno dure — è che voi non potete lavorare; e il mio maggiore, che è stato esonerato dalla leva perchè unico sostegno di madre vedova, dice che di bocche inutili non ce ne occorre; che se voi guadagnaste tanto da poter aiutare la famiglia pazienza, così.....
E poichè il merciaiuolo restava immobile e muto proprio come una statua, la donna ne ebbe pietà.
— Sentite, non dovete prendere la cosa in mala parte. Io, per me, vi sarei favorevole.... Non per il ghiribizzo dell’uomo, ve lo giuro.... ma un compagno fa sempre piacere.
La consolazione parve al rifiutato mezzo dolce e mezzo amara; tuttavia, appoggiandosi al dolce, si sentì il coraggio di insistere.
— Se l’idea l’aveste davvero con me, che cosa c’entra vostro figlio?
Avendo avvalorate le sue parole con un gesto vivace, la vedova si ritrasse spaurita, mettendo al sicuro il suo patereccio.
— Ah!... vi ho fatto male?
— No, ma mi duole tanto! batte come un martello.
Dalle sue reminiscenze di gioventù egli pescò fuori questa frase che gli parve felice:
— Molti mali dolgono e martellano, voi dovreste pur saperne qualche cosa poichè avete confessato che un compagno fa sempre piacere. Dite piuttosto che non sono io il prescelto.... dite.
Ma la vedova non intendeva di lasciar sdrucciolare il discorso per quella china.
— Mio figlio è il capo di casa — interruppe — le sue ragioni sono per il bene di tutti. Buon cristiano come voi troverete di meglio.
Sii.... ma intanto lo rifiutava:
Il focherello che la vedova aveva attizzato per far riscaldare la pappina, si andava spegnendo. La stanzetta diventava buia.
— Oh! come batte, come batte! — andava ella ripetendo, premendosi il patereccio.
— Dunque non si conchiude niente?
— Che volete? Non siamo destinati.
Un’altra frase, rimembranza anch’essa di gioventù, passò sulle labbra del merciaiolo; ma dopo il cattivo esito della prima non ebbe fiato di pronunciarla.
— Sicchè, addio.
— Addio. E che il Signore vi guidi!
Ella alzò per salutarlo, oltre che la mano sana anche quella bendata.
— A buon conto — diss’egli — provate le lumache schiacciate.
— Proverò.
Il merciaiolo era già sulla soglia dell’uscio. Si rivolse tutto d’un pezzo:
— E dite a vostro figlio che forse si sbaglia!
La vedova, per tutta risposta, sollevò gli occhi al cielo con una attitudine rassegnata.
L’orizzonte biancheggiava appena nella freddezza pura dell’alba di marzo. Il vento andava crescendo, acuto, tagliente. La via liscia e asciutta, fra i salici denudati, sembrava non avesse confini. I rami, i radi ciuffi d’erba, la superficie dei sassi, l’orlo dei fossi, tutto era coperto dalla brina che cadeva in quel punto, crescendo il freddo dell’aria e dell’ora, con un triste richiamo di lenzuolo funebre.
La porta della vedova si rinchiuse su di lui.
— Sempre la disdetta! — bestemmiò, sputando la cicca in mezzo alla via, piegandosi dietro a quella per un improvviso assalto de’ suoi reumi. — Maledetta vita!
E sulla terra indurita dal vento, ghiacciata, va, freddo, il merciaiolo colla sua cassetta va... va....