Vite dei filosofi/Libro Secondo/Vita di Aristippo
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CAPO VIII.
Aristippo.
I. Aristippo era di nazione cirenaico, venuto in Atene, al dire di Eschine, per la celebrità di Socrate.
II. Tra i Socratici, siccome afferma il peripatetico Fania da Ereso, egli fu il primo che per insegnare filosofia esigesse una mercede; e i danari mandava al maestro. E una volta che gli spedì venti mine, le ricevette indietro colla risposta, ciò a lui non concedere il dèmone di Socrate; chè il soffriva con dispiacere. E Senofonte ebbe nimicizia per liti; e quindi il libro Contro la voluttà, in opposizione ad Aristippo, attribuì a Socrate. Nè altrimenti lo biasimano e Teodoro nel suo libro Delle Sette, e Platone in quello Dell’anima, come altrove si è detto.
III. Era facile ad accomodarsi al luogo, al tempo, alla persona; e sapeva fingere opportunamente in ogni circostanza. Per la qual cosa Dionisio sopra gli altri avea stima di chi era sempre ben parato all’evento. Perocchè e’ fruiva il piacere delle cose presenti, nè cercava a fatica il godimento delle non presenti. Ond’è che lo stesso Diogene il chiamò cane regio, e Timone lo morse come dedito alle morbidezze, così dicendo:
E quale è la natura dilicata
D’Aristippo, che sa palpare il falso.
Femminea stola io non potrei vestire,
Uomo nascendo, e razza d’uomo. —
Aristippo la prese, e accintosi a ballare disse con disinvoltura:
— Fra l’orgie ancora
Non ti corrompe il temperante. —
Un giorno pregando Dionisio per un amico e nulla ottenendo, cadde a’ piedi di lui. Un tale lo rimproverò, ed egli: Io non ho colpa, ma Dionisio, il quale ha le orecchie ne’ piedi — Mentre soggiornava in Asia, fu preso dal satrapo Artaferne. A chi gli chiese: e qui pure ti confidi? rispose: Quasi una volta, o pazzo, avessi potuto aver più fidanza che ora che sono in procinto di parlare con Artaferne? — Coloro che coltivando le discipline liberali trascurano la filosofia, diceva essere simili ai pretendenti di Penelope: possedere cioè la Melanto, la Polidora e le altre ancelle, e ogni cosa piuttosto che poter isposare la padrona stessa. — Una cosa somigliante si rapporta anche di Aristone: poichè e’ disse, che sceso Ulisse a l’inferno, vide quasi tutti i morti e ragionò con essi, ma la regina stessa non ebbe a contemplare. E però interrogato quali cose si dovessero insegnare agli onesti fanciulli, rispose: Quelle, che fatti uomini, dovranno usare. — A chi gli fece una colpa, ch’e’ andato fosse da Socrate a Dionisio, ma io, rispose, sono ito da Socrate per bisogno d’imparare, da Dionisio per giuoco. — Avendo coll’insegnare guadagnato molto, Socrate gli disse: Dove avesti cotanto? ed egli, donde tu il poco — Una cortigiana gli disse: Sono gravida di te. Non meglio sai questo, rispose, che se aggirandoti fra giunchi, dicessi da questo sono stata punta. — Rimprocciavalo alcuno perchè rigettasse un figlio come non nato da lui; ed egli, anche la pituita, disse, ed i pidocchi sappiamo nascere da noi, ma come disutili li gettiam lontanissimi — Avendo ricevuto da Dionisio del danaro, e Platone preferito un libro, ad un tale che ne lo biasimava disse: Io di danari, e Platone ha mestieri di libri — Chiestogli per qual cagione fosse ripreso da Dionisio? per quella, rispose, che sono ripresi gli altri — Chiedeva danaro a Dionisio; e questi, ma dicevi pure non abbisognarne il sapiente! e l’altro riprendendo: Dà, disse, e circa questo vedremo poi. Datogliene, vedi, soggiunse, se non ne avea di bisogno? — Dicendogli Dionisio:
Chi t’accosta ad un re schiavo è di quello
Pur se libero venga.
rispose:
Schiavo non è se libero egli venga.
Questo rapporta Diocle nelle Vite dei filosofi. Altri lo attribuiscono a Platone. — Sdeguatosi con Eschine, gli disse dopo non molto tempo: Non ci riconcilieremo? Non cesseremo di delirare? Ma aspetterai che qualche chiacchierone ci riconcilii fra le tazze? E quegli, del miglior grado, rispose. Arricordati del resto, soggiunse Aristippo, che, sebbene più vecchio, venni primo a trovarti. Ed Eschine: in verità per Giunone, hai parlato ragionevolmente, e tu sei molto migliore di me; poichè io della nimicizia, tu dell’amicizia sei cagione. — E queste cose di lui si raccontano.
V. Vi furono poi quattro Aristippi. Quello di cui si è discorso — Secondo, quello che scrisse le storie degli Arcadi — Terzo, quello che fu educato dalla madre, figlio della figlia del primo — Quarto, quello ch’è uscito della nuova Accademia.
VI. Al filosofo cirenaico si attribuiscono questi libri: tre della istoria libica, mandati a Dionisio. — Uno contenente venticinque dialoghi, alcuni in attico, altri scritti in dialetto ionico, cioè: Artabazo — Ai naufraghi — Ai fuggitivi — Ad un mendico — A Laide — A Poro — A Laide, sullo specchio — Ermia — Il sogno — Ad un coppiere — Filomelo — A’ famigliari — A coloro che lo biasimavano perchè si procacciava vino vecchio e cortigiane — A coloro che lo biasimavano pel suo splendido banchettare — una lettera a sua figlia Arete — Ad uno che si esercitava nelle pugne olimpiche — Un’interrogazione — un’altra interrogazione — Cria, a Dionisio — Un’altra, su di un’immagine — un’altra, sulla figlia di Dionisio — Ad uno che si credeva disonorato — Ad uno che si affaccendava a consigliare — Alcuni affermano ch’egli abbia scritto anche sei libri di esercitazioni, altri che e’ non ne scrivesse affatto; e di questo numero è Sosicrate rodio. — Al dire di Suzione, nel secondo, e di Panezio, le opere di lui sono queste: Dell’educazione — Della virtù — Esortatorio — Artabazo — I naufraghi — I fuggitivi — sei libri di '' esercitazioni — Tre di Crie — A Laide — A Poro — A Socrate — Della fortuna — Il fine definì, un movimento soave che si comunica a’ sensi.
VII. Cirenaici. — Da poi che noi abbiamo descritto la vita di Aristippo, su via, percorriamo di presente i Cirenaici che da lui provennero, i quali da sè stessi alcuni Egesiaci, alcuni Annicerii, alcuni Teodorei sì soprannomarono. Non altrimenti che i seguaci di Fedone, di cui i più principali sono Eretrici. Discepoli di Aristippo furono: Arete sua figlia; Etiope da Tolemaide e Antipatro cireneo; di Arete, Aristippo il Metrodidatte (discepolo della madre); di costui, Teodoro, Ateo prima, quindi appellato Teo; di Antipatro, Epitimede cireneo; di costui Parebate, di Parebate Egesia il Pisitanato (persuasore di morte), e Aniceride, quegli che riscattò Platone.
VIII. Coloro impertanto che si attennero alle istituzioni di Aristippo, e furono detti Cirenaici, fanno uso di queste opinioni: suppongono due affezioni, dolore e piacere; soave movimento il piacere, il dolore aspro movimento; non differire piacer da piacere, nè alcuno essere più dolce, e quello da tutti gli animali apprezzato, questo rejetto. Tuttavia il piacere del corpo, ch’e’ dicono esser fine, secondo afferma Panezio nel libro Delle sette, non è quel piacere tranquillo che deriva dalla privazione del dolore e sola indolenza; cui ammette e chiama fine Epicuro. Sembra però il costoro fine dalla felicità differire. Fine cioè essere il particolar piacere, e la felicità l’unione di particolari piaceri, fra’ quali connumerano e i passati e gli avvenire, e il particolar piacere doversi per sè stesso eleggere, la felicità non per sè stessa, ma pei singoli piaceri. E venire a prova dell’essere fine il piacere, lo accostarci a quello inavvertitamente da fanciulli, e possedutolo, niente altro cercare, e niente altro tanto fuggire, quanto il suo contrario, il dolore. Ed essere il piacere un bene, anche derivando da cose turpissime, come dice Ippoboto nel libro Delle sette; poichè quand’anche l’azione sia sconvenevole, il piacere è per sè stesso da desiderarsi ed un bene. L’allontanamento poi del dolore, come lo chiama Epicuro, sembra ad essi non esser piacere, nè la mancanza del piacere, dolore. Poichè ambedue consistono nel movimento, nè sono movimento la mancanza del dolore e la mancanza del piacere; essendo la mancanza del dolore uno stato come di chi dorme. Potervi bensì essere, dicono, chi per depravazione non appetisca il piacere. Nè certamente tutti i piaceri e i dolori psichici nascere da piaceri e dolori corporei, che anche per ogni lieve prosperità della patria, ovvero privata, si genera l’allegrezza. Ma neppure per la memoria o per l’aspettazione dei beni dicono prodursi il piacere, siccome pensa Epicuro; imperocchè il movimento dell’anima svanisce col tempo. E dicono non pel semplice vedere od udire nascere il piacere; dappoichè noi ascoltiamo con diletto le lamentazioni da coloro che le imitano, senza diletto le vere. E appellavano stato di mezzo la mancanza del piacere e del dolore. Certo migliori d’assai essere degli psischici i piaceri corporei, e peggiori i tormenti corporei: ond’è che con questi di preferenza si puniscono i malfattori. Perocchè stimavano piu grave il soffrire, il godere più conforme a natura; quindi si davano anco maggior pensiero a governarlo dell’altro; e sebbene il piacere fosse per sè stesso desiderabile, le cose efficienti alcuni piaceri, spesso moleste, avversavano; come che paresse ad essi difficilissima l’unione dei piaceri formanti la felicità. — È opinione di costoro che il savio non sempre viva piacevolmente, nè sempre l’uomo spregevole in travaglio, ma per lo più e che anche un solo avvenimento piacevole basti a taluno per sollievo. — La prudenza, dicono, essere certamente un bene, non da eleggersi per sè stessa, ma per quelle cose che da essa provengono. L’amico a cagione dell’utile, è come le parti del corpo, che si apprezzano finchè sono ammannite. — Alcune virtù starsi anche cogli stolti. — L’esercizio del corpo contribuire all’acquisto della virtù. — Non essere il sapiente nè invidioso, nè inchinato all’amore, nè superstizioso, ciò accadendo per vane opinioni; sentire per altro dolore e timore, che sono cose naturali. — E le ricchezze essere produttrici del piacere, nè da amarsi per sè stesse. — E le passioni, comprensibili; ciò affermando, per vero dire, di esse sole, non delle cose da cui provengono. — Lasciavano poi andare le fisiche per la manifesta incomprensibilità; ma della logica si occupavano per l’uso. Però Meleagro nel secondo delle Opinioni e Clitomaco nel primo delle Sette affermano, creder essi inutile del pari la fisica e la dialettica. Perocchè può parlar bene ed esser lungi dalla superstizione e fuggire il timor della morte eziandio chi dei beni e dei mali apprese a fondo a ragionare. — E non essere in natura il giusto o l’onesto od il turpe, ma per legge ed usanza. Quindi l’uom dabbene nulla opera di sconvenevole per le pene stabilite e le opinioni. Essere perciò il sapiente. — E in filosofia e nel resto lasciano un progresso. — E dicono anche sentir più dolore uno che un altro, e i sensi non sempre esser veraci.
IX. Egesiaci. — Quelli che si chiamano Egesiaci avevano lo stesso scopo di questi, il piacere e il dolore, nè la gratitudine, nè l’amicizia, nè la beneficenza tenevano essere alcun che, a motivo di cui noi le amiamo, nè per sè stesse, ma pel solo utile, tolto il quale ne desse sussistere. — La felicità essere, per intiero, impossibile: poichè quando il corpo è afflitto da molti mali, l’anima soffre col corpo e si turba e la fortuna molte cose che si sperano impedisce. Ond’è che per questo non può esistere felicità. E la vita e la morte desiderabili. — Credevano che per natura nessuna cosa fosse gradevole o sgradevole; e che per la rarità, o la novità, o la sazietà questi godesse, quegli non godesse. — Povertà e ricchezza, parlaudo di piacere, nulla essere perchè i ricchi o i poveri non differiscono nel godere. — Parimente serivitù da libertà indifferente, riguardo alla misura del piacere, e nobiltà da ignobiltà, e rinomanza da non rinomanza. — E il vivere certo esser utile allo stolto, ma indifferente al prudente. — E il savio essere per fare ogni cosa a suo pro, non istimando del pari degno di lui nulla che sia di altri. Poichè sebbene grandissimo gli paia ciò ch’altri ha conseguito, non è paragonabile però a quello ch’e’ possede. — Toglievano poi di mezzo anco i sensi, non recando esatte nozioni, e tutto che appariva ragionevole, facevano. — Dicevano doversi perdonare; perchè non si pecca volontariamente, ma spinti da qualche passione; e non odiare, ma piuttosto altrimenti educare. — Il savio non dover poi così sovrabbondare nella elezione dei beni, come nella fuga dei mali; ponendo per fine il vivere nè faticosamente, nè dolorosamente: il che certo accade a coloro che sono indifferenti per le cose produttrici dei piaceri.
X. Annicerii. — Gli Annicerii, nel resto a uno stesso modo con questi. Ma lasciano nella vita l’amicizia e la gratitudine e il rispetto verso i genitori e l’oprare qualche cosa per la patria. Ond’è che sebbene per questo il sapiente riceve molestie e poco diletto ei ne ritrae, tuttavolta vive felice. — La felicità dell’amico, affermano, non essere per sè stessa desiderabile; poichè il senso non la dimostra agli altri, e la ragione non basta perchè ci fidiamo e ci facciamo superiori dell’opinione di molti. — Essere mestieri assuefarci all’ottimo per la prava disposizione cresciuta da tempo con noi. E l’amico non pe’ vantaggi doversi solo accogliere, mancando i quali si abbia a trascurare; ma eziandio per l’innata benevolenza, in grazia della quale perfino si sostengono gli affanni. E sebbene pongano il piacere per fine; e si affliggano se sono privi di esso, nonostante, spontaneamente, per amor dell’amico, ciò comportano.
XI. Teodorei. — Que’ che si chiamano Teodorei presero il nome dal prefato Teodoro, e si valsero delle sue dottrine.
XII. Ed era quel Teodoro che distrusse qualunque opinione intorno gli dei. E ci venne alle mani un suo libro, intitolato Degli dei, non ispregevole, dal quale è fama avere preso Epicuro molte cose ch’ei disse. — Udì Teodoro anche Anniceride e Dionisio il dialettico, secondo racconta Antistene nelle Successioni dei filosofi.
XIII. Teneva per fine la gioia e la tristezza; l’una da prudenza, l’altra da stoltezza. Beni esssere la prudenza e la giustizia, mali gli abiti contrarii; mezzo il piacere e il dolore. — E tolse via l’amicizia, non esistendo essa nè tra gli stolti, nè tra’ sapienti; poichè ne’ primi col levar l’utile anche l’amicizia si dilegua; e i sapienti, bastando a sè stessi, non abbisognano di amici. — Diceva pure, e diceva bene, non dover l’uomo accorto farsi avanti per vantaggio della patria, perocchè non hassi a perdere la prudenza in pro degli stolti; e patria essere il mondo. — E il sapiente potere all’uopo commetter furto e adulterio e sacrilegio, perchè nessuna di queste cose è turpe in natura, tolta da esse l’opinione che si è stabilita per contenere gli stolti; e senza vergogna di sorta usar pubblicamente mignoni. Quindi proponeva questi argomenti: Una donna letterata può ella esser utile in quanto è letterata? — Sì. — E un fanciullo o un giovinetto può esser utile in quanto è letterato? — Si. — Dunque anche una bella donna può essere utile in quanto è bella, e un bel fanciullo e un bel giovinetto può esser utile in quanto è bello? — Sì. — Anche un bel fanciullo, dunque, e un bel giovinetto per questo può esser utile che è bello? — Sì. — Ma è utile perchè ci avviciniamo ad esso. — Ciò concesso, aggiugneva: Dunque se alcuno usa di quell’avvicinamento, in quanto è utile, non pecca, nè se userà della bellezza, in quanto è utile, peccherà. — Con alcune di siffatte interrogazioni afforzava il discorso.
XIV. Sembra che lo si chiamasse Dio (Θεός) da questo che Stilpone lo interrogò in tal modo: Or su, Teodoro, ciò che dici di essere, sei tu realmente? E accennando di sì — e dici di essere un Dio? E questo confessando, dunque, disse, sei un Dio — E preso ciò in buona parte, soggiunse ridendo, ma tu, o sciaurato, con sì fatto discorso potresti concedere anco di essere una cornacchia e cento altre cose. — Teodoro, stando una volta a vedere presso l’ierofaute Euriclide: Dimmi, o Euriclide, lo interrogò, chi sono i profanatori dei misteri? E rispondendo costui, coloro che li rivelano ai non iniziati: Empio dunque anche tu che li racconti ai non iniziati!
XV. Quindi fu presso a correr rischio di essere condotto innanzi l’Areopago se Demetrio Falereo no’l proteggeva; e Amficrate nel libro Degli uomini illustri, dice ch’ei fu condannato a ber la cicuta.
XVI. Soggiornando presso Tolomeo figlio di Lago, fu da esso mandato ambasciatore a Lisimaco; e fu allora che parlando con libertà Lisimaco lo interrogò: Dimmi, Teodoro, non sei tu quello che fu bandito d’Atene? Ed egli: Hai bene udito, poichè la città degli Ateniesi non potendo, come Semele Bacco, portarmi, mi espulse. — E nuovamente dicendogli Lisimaco: guardati dal comparirmi dinanzi ancora: No, gli rispose, fuorchè Tolomeo non mi mandasse. Mitro, il tesoriere di Lisimaco, era presente e disse: Parmi che tu disconosca gli dei non solo, ma anche i re? Come, rispose, disconosco, s’io te pure reputo nemico agli dei?
XVII. Raccontasi come venendo un giorno a Corinto, condottovi da una turba di scolari, Metrocle il cinico, che lavava cerfogli, gli dicesse, tu, o sofista, non abbisogneresti di cotanti scolari se lavassi camangiari! Ed egli, ripigliando, dicesse: E tu se sapessi conversare cogli uomini, non useresti di questi camangiari. La cosa medesima si riferisce, come dianzi è narrato, di Diogene e di Aristippo.
XVIII. Tale fu Teodoro anche in queste cose. — Da ultimo ito in Cirene, vivendo con Maga, gli riuscì di passarsela in gran riputazione; dove, quando la prima volta lo discacciarono, è fama aver detto una cosa graziosa; perocchè disse: Fate male, signori Cirenei, ad esiliarmi di Libia in Grecia.
XIX. V’ebbero venti Teodori. — Il primo da Samo, figlio di Reco. Fu di costui il consiglio di sottoporre carboni alle fondamenta del tempio di Efeso; poichè sendo umido il sito, i carboni, asseriva, deposta la sostanza legnosa, non avrebbero per propria saldezza sofferto nell’acqua. — Il secondo, cireneo, geometra, del quale fu discepolo Platone. — Il terzo, di cui è scritto sopra, filosofo. — Il quarto, del quale si riferisce il bel libretto di Esercitazioni per la voce. — Il quinto, che scrisse dei componitori di Nomi (canzoni), incominciando da Terpandro. — Il sesto stoico. — Il settimo colui che scrisse intorno le cose dei Romani. — L’ottavo, siracusano, scrittore di tattica. — Il nono, da Bizanzio, versato nelle cause civili. — Il decimo, similmente, del quale fa menzione Aristotele nel Compendio degli oratori. — L’undecimo, tebano, statuario. — Il duodecimo, pittore, ricordato da Polemone. — Il terzodecimo, pittore, ateniese, sul quale scrisse Menodoto. — Il decimoquarto, da Efeso; pittore, di cui fa memoria Teofane nel Trattato della pittura. — Il decimoquinto, poeta epigrammatico. — Il decimosesto, quello che scrisse dei poeti. — Il diciassettesimo, medico, discepolo di Ateneo. — Il decimottavo, da Chio, filosofo stoico. — Il diciannovesimo, da Mileto, pur esso filosofo stoico. — Il ventesimo, poeta tragico.