Vita in compendio di Giovanni Boccaccio
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la vita
di
Venne all’Autore imposto il limite di un solo foglio di stampa in forma di quarto, il quale dovesse comprendere la compendiosa Vita di Boccaccio, da inserirsi nell’Opera intitolata: Vite e Ritratti di illustri Italiani. Padova, Bettoni, 1820, vol. 2 in 4.
Originario di Certaldo, castello del territorio fiorentino nella Valdelsa, ebbe suoi natali in Parigi l’anno 1313, e sortì culla circondata da tenebre, siccome figliuol naturale di mercadante fiorentino e di una giovane parigina. Aveva il padre deliberato di serbare il figliuolo all’abaco, non alle lettere; ma delle lettere si mostrò egli acceso essendo tuttavia fanciullo, e lasciò presto scorgere que’ rari indizi di primaticcio ingegno che doveano un giorno sollevarlo alla sede immortale d’uno fra i tre primi grandi ristoratori dell’italiana letteratura. Trasportato da Parigi a Firenze, ottenne quivi a maestro di grammatica Giovanni da Strada, e lo iniziò poi nelle matematiche e nell’astrologia Andalone del Nero, astronomo genovese. Gli fu pure di grande presidio l’amicizia di valenti uomini, ed in ispezieltà la dottrina di Paolo da Perugia, bibliotecario del celebre re Roberto in Napoli, dove (dopo avere per i paterni disegni vagato qua e là) si ridusse all’età di 23 anni. In Napoli visitando un giorno la tomba del Cantore di Enea si sentì insolitamente infiammato di ogni poetica e scientifica dottrina, e ne divenne ricco in modo da potere presto risplendere in quella corte, ch’era allora la più dotta e magnifica dell’Italia, e che aveva già fatto tal memorabile accoglienza al Petrarca da incender il Boccaccio di generosa emulazione.
Ma vagheggiando le lettere, non era egli men inchinevole alle passioni che allacciano il cuore. Filippo Villani ce lo dipinse di statura alquanto grande, con faccia rotonda, con labbri alquanto grossi, nientedimeno belli e bene lineati; con mento formato che nel ridere mostrava bellezza, di giocondo e allegro aspetto, e m tutto il suo ragionare piacevole e umano: ora non è a maravigliarsi se Maria, leggiadrissima figliuola naturale dello stesso re Roberto, che sotto il nome di Fiammetta poi resesi celebre, gli sia stata oltre il dovere prodiga di que’ favori che trovansi descritti nel libro intitolalo appunto la Fiammetta. Aveva messer Giovanni piegato il collo al giogo di amore per Maria nell’anno 1341, e spese poi gran parte del suo tempo nel commendarla in prosa ed in rima. La vivacità del temperamento di lui, i licenziosi costumi del secolo, il predominio dello passioni più allettatrici lo ingolfarono per parecchi anni in una vita epicurea, sicché scaturì poi quell’inverecondo scrivere, che videsi prodigalizzato soprattutto nel suo Decameron; opera a cui hanno prestato i colori il furbesco ammiccare e le men che oneste cortesie delle amadrici insidiose.
Contava il Boccaccio 35 anni di età quando rimase privo del genitore, e pare che poco dopo, sazio de’ compiacimenti che nulla giovano alla costante serenità della vita, cominciasse a battere tutt’altra carriera, cercando lieta e riposata pace in seno della sua Firenze, in cui venne a pigliare stanza verso l’anno 1350. Quivi ben presto conobbesi il suo rarissimo ingegno, e se ne fece sperimento con una missione di cui fu incaricalo all’illustre esule Francesco Petrarca, che allora soggiornava in Padova, ed a cui venne ad offerire la immediata restituzione di tutt’i beni del paterno retaggio. Bello sarà stato il vedere questi due peregrini, di candida amistà congiunti, intendersi in quest’occasione di alti propositi e di studi geniali, mentre solinghi al tramontare del giorno passeggiando in un orticello posto lungo le sponde del Brenta, si svelavano a vicenda le affezioni verso il nativo cielo le più magnanime. Vedi, dicea il Petrarca al Boccaccio, come inestricabile fato guastò la venustà di questa nostra Italia! come ne distrusse il pudore, le passate onorificenze, il potere e lo splendore della sua maestà! Di altre anche più importanti commissioni fu il Boccaccio in progresso di tempo incaricalo, e sostenne orrevole ambasceria ad Ostasio da Polenta, signor di Ravenna, altra a Lodovico March, di Brandeborgo, figliuolo di Lodovico il Bavaro, ed altre, alla sua lama dicevolissime, a papa Innocenzo VI in Avignone, e a papa Urbano V in Avignone e in Roma. Scipione Ammirato ci serbò una lettera di quest’ultimo pontefice, nella quale significa di avere veduto et ascoltato volentieri il Boccaccio in riguardo delle sue virtù.
Del conquisto delle virtù egli era in fatti allora pervenuto a sinceramente infiammarsi. Gli esami più scrupolosi delle antiche dottrine, l’applicazione indefessa alla greca e alla latina lingua, il frequente esercizio del comporre e del copiare i componimenti altrui, il consorzio di pochi ma dotti amici, lo presidiavano incessantemente, e sappiamo ch’egli fu largo di cara e lunga ospitalità a Leonzio Pilato, ruvidissimo uomo greco cui dovette la cognizione del più dotto tra tutti gl’idiomi; sicché era ormai venuta stagione che il Certaldese facesse più conto dell’ispida barba d’un proscritto tessalonicese, di quello che sia degli sguardi ammaliatori delle Fiammette. Dall’anno 1361, in cui vesti l’abito chericale, sin all’ultimo della vita, menò dunque suoi giorni con tanto riserbo, o in mezzo a tali austerità che potè apparire uomo tutto nuovo; né giovò poco il Petrarca a tenerlo saldo sul sentiero delle virtù cristiane, sentiere che gli era stato aperto dalla parola del beato Pietro Petroni. Questo buon certosino (siccome abbiamo dagli atti inseriti nel T. viii de’ Bollandisti) trovandosi presso a morte, por mezzo di Giovacchino Ciani, certosino sanese, fece sapere a messer Giovanni, che gli sarebbero rimasti pochi soli anni di vita; e che se in questi pochi anni non avesse dato bando alla poesia sarebbe stata inevitabile la sua perdizione. Conturbatosi il Boccaccio, per minaccia tanto funesta, volea non solo alienarsi dalle Muse, ma altresì da ogni altro studio profano, e gittare alle fiamme presso che tutti i suoi libri; se non che il Petrarca in tale occasione gl’indirizzo dalla sua solitudine di Arquà una lunga e aggiustatissima lettera, che ci resta tuttavia, nella quale eccitollo a non bandeggiare le lettere, a non privarsi di libri, bensì a farne utile uso onde ne resulti poi il generale profitto. A tutto ciò attendeva in fatti il docile amico nel frattempo che gli rimanea di ozio a cagione de’ replicati suoi viaggi in Sicilia e a Napoli, finché, pieno di meriti pe’ servigi resi alla patria, alla letteratura, al nome italiano, chiuse piamente le luci in Certaldo il giorno 21 di dicembre, 1375, in età di 62 anni. Era nell’anno antecedente mancato a’vivi il Petrarca, intorno alla cui perdita il caldo amico Boccaccio aveva scritto a Franceschino da Brossano una lettera da non potersi leggere ad occhi asciutti.
Sarà buono indirizzo ad elevamento di niente il riconoscere il grand’uomo anche in atto di dettare l’ultima sua volontà. Egli, già vagheggino di principesse famose, già dilizia di splendide corti, già imbasciatore a principi ed a pontefici, già moderatore di ogni più eletto sapere, ad onorata povertà confinatosi, abitava una casetta umilissima, e tale che divenne sin’a tempi moderni il misero soggiorno del messo del Comune, ed in essa egli chiuse gli occhi non senza dettare un testamento con cui potè disporre soltanto di alcun campicello, di meschine masserizie, di pochi libri e di qualche divota reliquia. Lascio, scrisse con gentile animo e nella misera fortuna pur liberale, alla Bruna, figliuola che fu di Ciango da Montemagno, una lettiera di albero, una coltricetta di penna, un piumaccio, un paio di lenzuola buone, una panca da tenersi a piè del letto, un desco picciolo da mangiare di assi di noce, due tovaglie e due tovagliuole, un botticello di tre some e una roba di monchino, foderata di zendado porporino, gonnella, guarnacca e cappuccio. Egli lega poi una immaginetta di Nostra Donna scolpita in alabastro agli operai di san Jacopo di Certaldo, altra immaginetta dipinta a Sandra Buonamichi, v’i suoi libri al venerabile maestro Martino da Signa Agostino, colla permissione di lasciarne far copia ad qualunque persona li volesse.
Al Decameron dee il boccaccio la più alta sua rinomanza, a quel libro che fece sclamare a Benedetto Fioretti (più noto col nome di Udeno Nisieli) che siccome gli allocchi, i barbagianni e simili uccellacci notturni ricevono abbagliamento e stupidezza dal sole, così gl’ignoranti non potendo ben penetrare l’acutezza e la profondità di un tanto libro, rimangono del lutto confusi e mentecatti. Io fo concetto che questo signor Benedetto avrebbe trafitto e pugnalato quel Paolo Beni, critico prosontuoso che dalla cattedra di Padova pronunziava, essere nella sola novella del re di Cipri, la più breve di tutto il Decamerone, sopra trenta errori di lingua e di stile, i quali poi schierò ad uno ad uno nella sua Anticrusca. Ma se le Dieci Giornate fecero salire ben giustamente il Boccaccio a fama immortale, molte altre sue opere non lo resero meno benemerito della universale letteratura.
Primo in Italia egli scrisse romanzi amorosi. Il Filocopo, sua giovanile fatica, non è certamente tra le migliori, e racchiude nel Libro quinto due Novelle, ch’egli foggiò poi di miglior veste. La Teseide è il primo poema che abbiamo in ottava rima, dall’autore inventata. L’Ameto, dello ancora Commedia delle Ninfe Fiorentine, è assai vaga operetta, frammischiata di versi e di prose, ed esemplare di quelle dateci poi dal Sannazzaro nell’ Arcadia, dal Bembo negli Asolani e dal Menzini nell’Accademia Tusculana. Anche il Filostrato è un poema della giovanile età del nostro autore, come lo è pure l’Amorosa Visione, poetico lavoro in cui, secondo il cav. Baldelli, sembra più viva, più leggiadra, più efficace che altrove la versificazione del Boccaccio. Ultimo tra’suoi poemi suol giudicarsi il Ninfale Fiesolano, scritto con maggiore maestria di ogni altro, ma non ultimo è poi credulo da chi avverte che messer Giovanni ne’ suoi anni maturi non lo avrebbe certamente insudiciato di oscene brutture.
Tra le prose, dopo il Decameron, suol assegnarsi il posto di onore alla celebre Fiammetta, scritta fin dall’anno 1344. La Vita di Dante è opericciuola di alta importanza. Il Corbaccio, o Labirinto d’Amore, contiene amare invettive contro corta vedova tapinella che risponder non volle agli amorosi riscaldi dello scrittore e contra ancora tutto quel sesso gentile, di cui era pure stato il Boccaccio sì gran campione. Fu scritta quest’opera l’anno 1355, ed è lodatissima per finezza e sobrietà di ornato e per isceltezza di belle voci. Il Ginguené pose innanzi buone ragioni per togliere dal novero delle opere apocrife anche il romanzo l’Urbano, e vorrebbe restituito al Boccaccio questo testo di lingua; ma Vincenzo Borghini, giudice più competente, sin dal Secolo xvi, fu di avviso opposto. All’età più avanzata del nostro autore appartengono le faticose opere ch’egli ha dettate nella latina favella, cioè la Genealogia degli Dei, il libro de’ Monti, Selve, Fiumi, ecc., quello delle Donne illustri, e quello degl’Illustri infelici; opere tutte che se si rifletta alla povertà de’ tempi in cui furono scritte, risultano prodigiose, e primo lineamento di tanti posteriori lavori fattisi intorno alla mitologia, alla geografia, alla storia letteraria, alla biografia. Abbiamo infine del Boccaccio una raccolta di Rime toscane sedici Elegie latine, e alquante Lettere, tra le quali una a messer Pino de’ Rossi, ch’è modello di ragionamento e di eloquenza. Altra lettera scritta al Priore di S. Apostolo, pubblicatasi una sola volta per cura di Anton Maria Biscioni, sembraci che riuscirebbe di amenissima lettura se si potesse su buoni codici novamente collazionare. Era in fine messer Giovanni vicino al compiere de’ suoi dì quando, già disagiato e mal aitante della persona, dettava dalla cattedra di Firenze il suo dotto Commento sopra la divina Commedia, che appunto per la morte sua rimase imperfetto.