Vita di Giacomo Leopardi/Ai miei Figliuoli
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AI MIEI FIGLIUOLI.
- Miei cari Figliuoli,
Quando cominciai questo libro, dubitavo forte se lo avrei potuto finire. Giunti ad una certa età, non si ha più diritto di fare assegnamento sul tempo, il quale non appartiene a noi, ma al destino. Sapendo ciò, e tenendomi pronto alla chiamata di questo misterioso Signore delle cose umane, stavo sempre con un po’ di paura di sentirla prima d’aver finito. Per ciò sarebbe stato meglio non cominciare; ed anche per isfuggire al pericolo di sentirmi rimproverare la dimenticanza dell’ammonimento oraziano:
Solve senescentem mature sanus equum, ne
Peccet ad extremum ridendus, et ilia ducat.
La scusa di non essermi saputo acconciare in questi tardi anni all’ozio, non vale; perchè non è lecito, per risparmiare noia a sè, procurarla altrui.
Ma voi, figliuoli miei, che mi volete bene, e siete assuefatti, non dirò a sopportare con pazienza, ma ad ascoltare volentieri le mie parole, anche quando non sono all’unisono colle idee e coi gusti correnti; voi, che fin da bambini mi avete sentito esaltare l’ingegno e la bontà del Leopardi, recitarne con entusiasmo i versi e le prose, deplorare l’infelicità onde la natura e il mondo afflissero quel nobile spirito, a voi non parrà strano che, avendo io cominciato nel nome di lui ad amare le lettere, abbia sentito il bisogno di dedicare a lui l’ultima opera mia di scrittore.
Questo libro è, voi già lo capite, il mio testamento letterario; e perciò spetta a voi.
Io era quasi un ragazzo quando, intorno al 1850, mi vennero la prima volta alle mani le poesie del Leopardi in una brutta e scorretta edizione di Napoli. Le comperai per poche crazie da un venditore ambulante, che veniva a mettersi tutti i giorni con un barroccino davanti alla porta delle Scuole Pie di Firenze. Ne ebbi una forte impressione: le lessi e rilessi tanto, che in breve ne sapevo gran parte a memoria. Mi nacque naturalmente il desiderio di leggere tutte le opere; e, trovatele in Magliabechiana, andavo tutte le sere a deliziarmi con gran trasporto in quella lettura; quando una sera il distributore mi disse che, per ordine del signor bibliotecario, non poteva più darmi quei libri. Il signor bibliotecario era un povero prete, il quale aveva per consegna di difendere la coscienza dei giovani dai libri pericolosi; e la osservava con tanta scrupolosità e intelligenza, che una volta mi negò la Congiura dei baroni di Napoli di Cammillo Porzio, sospettando in quel titolo qualche cosa di diabolicamente rivoluzionario.
Quando, un anno dopo, potei possedere i due volumi delle Opere del Leopardi nella edizione Le Monnier, fu una mia grande felicità, la più grande che avessi provato fino allora nella mia vita. Per quanto conoscessi già quasi tutte le poesie e le prose, seguitai a leggerle e rileggerle; e in quella bella edizione, e in quell’esemplare ch’ era mio, mi parvero sempre più belle; mi parve d’intenderle, e cominciai realmente ad intenderle meglio. Custodivo quei due volumi come un tesoro; ne portavo sempre uno con me anche quando andavo a letto e quando uscivo di casa. Qualcuno potrebbe ridere, ma voi non riderete se vi dico che il sentirmi sotto il guanciale o sotto il braccio quel volume, mi dava un piacere indicibile. Andando a trovare alcuni miei conoscenti, leggevo e declamavo loro alcuni pezzi, specialmente delle poesie, e mi arrabbiavo se non le ammiravano al pari di me. Nella mia ammirazione io non faceva differenza fra le une e le altre; erano tutte belle egualmente, cioè bellissime.
E come le poesie, le prose.
Quella lettura mi aveva aperto dinanzi tutto un mondo d’idee per me nuovo; il quale, nonostante la sua tristezza, anzi appunto per la sua tristezza, mi rapiva e mi esaltava. Di mezzo a quel mondo io vedeva sorgere luminosa e raggiante la figura dello spirito che lo aveva evocato; una figura dolce e dolorosa, eppur fiera e ardita.
Era la figura d’un uomo che in corpo piccolo e deforme chiudeva un’anima grande e bella; di un uomo nel cui gracile petto bollivano le più ardenti passioni, l’amore della patria, della gloria, della bellezza: di un uomo sotto la cui fronte ampia e severa si addensavano, lampeggiando e tuonando, i più terribili e coraggiosi pensieri.
Quell’uomo, nato in tempi di servitù e di bassezza, in un paese devoto al peggiore dei governi, il governo del Papa, da una famiglia asservita alla peggiore delle educazioni, l’educazione gesuitica; orbato del latte della tenerezza materna, non compreso dal padre; cresciuto dagli insegnamenti e dall’esempio all’errore, al pregiudizio, alla falsità; aveva d’un tratto, per virtù della sua mente, spezzati, nel limitare della giovinezza, i lacci che dovevano tenerlo avvinto per sempre; e datosi alla ricerca del vero, si era addimostrato, con grande spavento de’ suoi e meraviglia dell’universale, prosecutore e banditore ardito, appassionato, di tutte le idee che dovevano rinnovare il vecchio mondo e condurre gli uomini alla conquista di quei beni che si compendiano nella parola civiltà. Tristo compenso alle sue virtù, quell’uomo, quell’eroe, quel martire del pensiero, era dalle stesse condizioni sue fisiche e familiari condannato ad essere il più grande infelice del secolo; condannato a sentire le strette della povertà nell’agiatezza de’ suoi, a vedersi contesa e lesinata quella gloria, alla quale sentiva d’avere diritto, a vedersi ributtato e schernito dall’amore, a cui aspirava con tutte le forze dell’anima. Condotto dalla sua smisurata infelicità a disperare di tutto, a maledire la vita e considerare come il supremo dei beni la morte, serbò tuttavia fino agli ultimi giorni vivo e fervente in fondo al cuore il culto della virtù.
L’incisione posta in fronte al primo volume delle Opere del Leopardi rappresenta molto fedelmente, per me, l’immagine dell’uomo e dello scrittore. Quella nobile testa, che riposa serena sul guanciale di morte, mi pare il ritratto più vero e parlante dell’autore dei Canti e delle Operette morali. Fino dalla prima volta ch’io la vidi, mi fece così forte impressione, che, allora e poi sempre, leggendo gli scritti di Giacomo, me la vedevo dinanzi.
Qualche anno dopo le Opere, lessi l’Epistolario: e quella lettura, pur mettendo qualche cosa più di umano nel concetto ch’io m’era fatto dello scrittore, non lo diminuì nè lo cambiò. E nemmeno lo cambiò sostanzialmente, anzi lo accrebbe e compì, la lettura, che venni facendo più tardi, degli altri non pochi scritti di lui e dei moltissimi intorno a lui.
Sono passati più di cinquanta anni dal tempo che cominciai ad ammirare ed amare il Leopardi, e quell’ammirazione e quell’amore durano ancora. Allorchè, tornato, in questo scorcio della vita, con più fervore e con maggiore agio ai miei studi, volli dedicare quel po’ di operosità, di cui mi sentivo ancora capace, ad un lavoro intorno all’autore mio prediletto, mi parve che la sola cosa da tentare fosse una storia della sua vita, cioè una narrazione semplice e compiuta dei fatti di essa. Oramai il campo degli studi leopardiani era stato dissodato, frugato, lavorato, in ogni parte, per ogni verso. Erano state prese in esame e discusse le opinioni filosofiche dello scrittore, messi sulle bilancie e pesati i suoi lavori di filologia, di erudizione e di critica, analizzati i suoi principii e metodi d’arte nella poesia e nella prosa; non c’era angolo così riposto della mente e del cuore del pensatore e del poeta, ove l’occhio della critica non avesse cercato di penetrare. Nè solamente i letterati (critici, filosofi, poeti), ma anche gli scienziati erano scesi in campo, a tentar di spiegare con le loro teoriche e i loro sistemi il fenomeno portentoso di questo ingegno forte e sano imprigionato in un corpo debole e malaticcio.
Fra tanti studi non mancavano le biografie; ma quella narrazione semplice e compiuta dei fatti della vita, o io m’inganno, o non c’era; e poichè mi parve che i materiali per farla abbondassero; mi lasciai dal mio grande amore al soggetto persuadere a provarmici. Non mi nascosi le difficoltà della esecuzione; perchè l’intendimento mio era che da quel semplice racconto della vita dovesse balzar fuori viva e vera l’immagine dell’uomo e dello scrittore: intendimento superbo, del quale penserà a castigarmi l’indifferenza del pubblico.
Nè io mi dorrò del castigo; perchè la mia letteratura (voi lo sapete, o figliuoli) non ha mai cercato l’approvazione e gli applausi della folla. La mia letteratura ha avuto sempre desiderii più modesti: Home, sweet-home è stata la sua divisa. E fra le pareti domestiche cerca prudentemente riparo ora che piglia congedo dal mondo.
Può darsi che ci sia qualche leopardiano, a cui non dispiaccia leggere questo libro; benchè leopardiani veri, come ce n’era ai tempi nostri, oggi non ci son più, specie fra i giovani; oggi i giovani leggono il Leopardi nella scuola, ma non lo amano e non lo sentono, come l’amammo e lo sentimmo noi; e se fecero un po’ di chiasso per il centenario del poeta, lo fecero più per amore del chiasso che del poeta; sopra tutto per mettersi in mostra, al che tutte le occasioni per la gioventù d’oggigiorno son buone. Ad ogni modo quei lettori leopardiani (me ne dispiace pel mio editore), se ci saranno, saranno pochi. Io me ne consolerò pensando che il libro non sarà affatto inutile, se lo leggerete voi, figliuoli miei, poi quali principalmente l’ho scritto; voi che siete la miglior parte di me; voi che cercherete in ogni pagina di esse un po’ dell’animo mio.
E lo leggeranno i figliuoli vostri. Un libro del nonno dice sempre ai nipoti molte buone e dolci cose, che non può dire agli altri; e perciò i nipoti lo hanno caro, e lo custodiscono come una cosa preziosa.
Io fra poco non ci sarò più; e voi la sera, dopo pranzo, sedendo a tavola, rammenterete talvolta il mio nome. Allora qualcuno dei figliuoli più grandi (forse il tuo Piero, o Nella, o la tua Gina) si leverà, andrà a prendere il libro del nonno, e ne leggerà ad alta voce qualche pagina, che tutti ascolteranno in silenzio. Durante quella lettura vi parrà d’udire la mia voce; vi parrà ch’io sia con voi e prenda parte ai vostri discorsi, come in quei giorni, fra i più belli della mia vita, nei quali io veniva a trovarvi, o voi venivate a trovare me e la mamma nella casa paterna.
Non posso dunque pentirmi d’avere scritto questo libro, pel quale vivrò fra voi anche quando le mie ossa saranno sotterra.
- Roma, 10 maggio 1905.
PALAZZO LEOPARDI in Recanati.
(Da fotografia G. Nucci.)