Vita di Erostrato/Capitolo IV
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Amore
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CAPITOLO IV.
Amore.
Gli agi domestici, le molli cure di Agarista e di Panfilo, per moderare nell’animo di Erostrato i desideri tumultuosi, non erano omai inefficaci. Già prendea alquanto diletto, o nel cacciare, o nel domare corsieri, o a scoccar frecce al bersaglio, o a lanciare il disco, a’ quali esercizi non era impedito come nel delicato moto della lira. Il decimonono anno, siccome primavera di vita, fioriva nelle sue guance: già folto il crine, rilevato il petto, le membra tutte piene di audace vigore. Serpeggiava in esse alternando or una fiamma insidiosa, or un dolce ribrezzo, precursori dell’imminente imperio di amore. Gli occhj suoi fino allora tranquilli nelle adunanze, incominciavano a volgersi ansiosi alla bellezza, ammirandola con ciglio sospeso. Corrispondea il cuore co’ suoi palpiti, ed esalava alle guance il rossore. Ma come ape che erra su’ fiori, gli sguardi del giovane ancora si spaziavano liberi spettatori della bellezza, non vinti da lei.
Era la stagione in cui la terra dopo gli ardori estivi, ristorata dalle acque autunnali invita ad ammirare i suoi doni. Possedea Agarista a pochi stadj dalla Città in un colle sovrastante al mare una delizia campestre. L’Egeo dirimpetto si apriva in ampio seno, la cui spiaggia era sparsa di ville frequenti. Ivi continue insidie dell’arco, e delle reti, delle frecce, e de’ lacciuoli lungo il lido o fra’ i boschi dall’aurora alle ore meridiane ricreavano la urbana gioventù, concorsa a quegli ozj. Poscia volgendo il sole con ombre maggiori, succedeano ne’ prati, negli orti, al margine de’ ruscelli i canti, i suoni, i balli, fra’ quali erano misti i nuziali desii, le querele amorose, i dolci sorrisi, le tristezze d’amore. Non lungi dominava sopra un promontorio un tempio a Teti. Il simulacro di quella stava nel mezzo dell’edifizio. Quasi pur allora uscisse da conca marina, era vestita della sola sua bellezza. Declinava molle il prezioso volto da un lato: le palpebre socchiuse rendeano languidi gli occhi; incurvava il grembo ritrosa; la manca piegava al seno: la destra si porgeva ad accogliere benigna i voti e gl’incensi. Sembrava prossimo il labbro a favellare. Oh mirabil dono del cielo l’arte di Fidia, e di Policleto! Per te congetturiamo la immagine de’ Numi, e serbiamo quella degli Eroi!
A dieci tratti d’arco di questo soggiorno di Agarista era altro non men delizioso di un provetto guerriero. Testoride nella sua giovinezza Chiliarco sotto Senofonte, era partecipe di quell’esperimento memorabile di disciplina, quando dieci mila Greci perseguitati da un milione di Persiani, per lo spazio di mille e cinquecento miglia si ricondussero salvi da Babilonia alla patria. Sette anni di poi era egli con Agesilao Re di Sparta quando sconfisse i Tebani nella pianura di Coronea, ed altrettanti ne trascorsero a quando fu fatta la pace ignominiosa fra Persiani ed i Greci con la mediazione dello Spartano Antalcide. Già pieno di cicatrici, e di età passava Testoride in quel ricovero di estremi anni in cure familiari. Scesa da lungo tempo la consorte alla tomba, gli avea lasciata una consolante immagine di se nella figliuola nominata Glicistoma. Ella giunta allora al sedicesimo anno, bellissima nella persona, ed ornata di leggiadri costumi, custodita dalle ancelle trapassava i suoi giorni oltre i lavori muliebri più delicati, nel canto, e nelle instruzioni delle migliori discipline. Venne pertanto Glicistoma al tempio di Teti. Era quel giorno turbato il mare e percuoteva sdegnato i scogli che lo respingevano. In alto con libero furore gonfiava gli orgogliosi flutti, fra’ quali appariva agitarsi non lungi una nave. L’atrio del tempio era affollato da spettatori del pericolo di quella: l’interno rimanea quasi vuoto. Poichè la fanciulla vide alquanto quel doloroso aspetto, ritornò alla Dea e con fervide preci implorava ch’ella fosse propizia a quegli infelici naviganti. Erano gli atteggiamenti suoi umili, e pietosi, tanto che in loro traspariva quel candore che placa gli Dei. Erostrato era pur nel tempio, la vide, l’ammirò. Il velo scendevale dalla fronte fino oltre il fianco. La grata proporzione delle membra eccitava il desiderio di rimirarne il volto. Ma la fanciulla assorta nel pietoso raccoglimento non avea fra’ i suoi pensieri o la sua bellezza, o che alcuno la contemplasse. Anzi per indole sembrava che non mai di tal pregio si fosse avveduta. I suoi modi erano perciò ingenui, ed aveano sugli animi forza maggiore di ogni artifizio più scaltro. Erostrato guardava lei, già tutto in lei. Non così nocchiere in tempesta è intento alla sua stella. Egli appoggiava il fianco ad una colonna, ed il mento al braccio: pensieroso, immoto con alito sospeso. Cessò dalle sue preci la fanciulla, e si mosse verso la porta del tempio lentamente fra due ancelle seguaci. Il vento licenzioso sgombrò il velo dalla fronte di lei, e tutto apparve quel volto divino, come cielo dissipate le nubi. Splendevano con dolce lume gli occhi sotto l’arco delle nere ciglia: le guance rosee, la fronte serena, le labbra serie, il portamento onesto lanciarono al cuore di Erostrato il primo dardo. Una candida veste le scendea a’ piedi stretta da fascia purpurea. Le pendea al collo monile di perle vinte dal candore di lui. Vera e prima ferita di amore quanto più duole tanto più si nasconde. Il giovane restò compreso da timida verecondia, e seguì tacito le orme di lei finchè la vide entrare nella soglia di Testoride, ove ne intese piena contezza. Non ebbe quindi maggior sollecitudine quanto di cogliere onesta opportunità di alcuna dimestichezza con lui. Nè gli fu in questo contraria la fortuna. Glicistoma fino allora custodita dalle ancelle incominciava a mostrarsi nelle adunanze festive. Il padre stesso la condusse ad Agarista qual venerata matrona, compiacendosi di produrre alla costumata adunanza sua i pregj della figliuola. Ella si tratteneva conversando con delicata urbanità, sobria ne’ discorsi più che favellatrice. Una placida modestia ornava i modi suoi senza ritrosia; talchè niun labbro dissoluto ardiva aprirsi frenato da quel dolce costume. Il suo discreto genitore benchè nodrito fra l’armi, ora negli ozj di pace gustava i trastulli giovanili. E la saggia Agarista del pari convocava nel suo splendido albergo la età festiva a’ più lieti diporti. Risonavano gli atrj del canto delle fanciulle incoronate di fiori: le cetre dei giovani corrispondevano a quel concerto sommesse. Intanto le danze mosse da tanta armonia empievano di tripudio e di allegrezza le sale. I sistri, i crotali, i cembali stimolavano a carolare. Fumavano gl’indici profumi con deliziosa fragranza, e i servi officiosi distribuivano vini di Lesbo, e di Chio, e vivande ristoratrici. La piacevole ospite, e Testoride accanto lei, e quanti di anni maturi gustavano la calma, sedeano compiacendosi nelle immagini della età loro trascorsa. Lodavano i più snelli, stimolavano i pigri e stanchi, e con gioconda autorità governavano la festa. Erostrato in que’ tumulti avea sempre gli sguardi alla fanciulla, nè ardiva esalare con parole la sua fiamma divoratrice. Pure sollecitandolo amore, s’intromise nelle danze, e si accompagnò alla fanciulla. Essa talora con l’estremità delle dita raccoglieva la gonna, onde meglio apparivano avvolti nel coturno i pie’ carnosi: talora lasciandola in arbitrio dell’aure, movea le braccia in leggiadri atteggiamenti. La florida capellatura raccolta da un velo sulla fronte svolazzava insieme. Declinava mollemente il viso or all’una, or all’altra parte con amabile compostezza, nè mancava il sorriso alle anelanti labbra. Erostrato quasi punto da dolce estro con lieto impeto corrispondea a quegli inviti. Nè erano in lui scortesi le Grazie, perocchè ben composto di membra temperava il vigore con la mollezza loro, e la fanciulla si compiaceva di gareggiare con sì snello danzatore. Intanto Amore tesseva lacci furtivi, e le interne simpatie rimaneano a lui solo note. In questa guisa continuando la scambievole ospitalità ora si adunava la brigata da Testoride, ora da Agarista, e già Erostrato si era studiato di insinuarsi nella benevolenza di quello. Amore facendolo sagace ragionava sovente col provetto guerriero degli illustri Capitani del suo tempo delle vittorie de’ Greci, e delle memorabili imprese. E già senza avvedersene Glicistoma anteponea l’ospite di Lemno agli altri scegliendolo fra’ danzatori, ed egli traeva con lei dal mare le reti, s’industriava cogliere co’ dardi o augelli a volo, o lepri fuggenti innanzi agli occhi di lei per farseli più benigni. Ella talvolta all’ombra de’ platani cantava ne’ suoi orti gli amori dei Numi, e le imprese degli Eroi. La voce di lei scendeva al cuore per la ingenuità sua: ed Erostrato in udirla prendeva la lira, e quanto concedeano le dita offese, supplendo coll’arte, facea colloquio di armonia. L’aura sospendeva gli aliti suoi, cessavano i garrimenti degli augelli, il silenzio accoglieva così deliziosa gara di suono e di canto. Ma cresceva in cuore del giovane la fiamma a segno che i consueti piaceri non solo gli erano divenuti insipidi, ma il desiderio stesso di fama sofferiva il formidabile predominio di Amore.
Avvenne pertanto che il seguente giorno sedesse Glicistoma nell’atrio intenta a ornare coll’artifizio dell’ago un manto. Una fanciulla a lei grata fra molte le sedeva accanto leggendole un volume. Erostrato veggendola in tale raccoglimento si tenea in disparte, e vide alcune stille di pianto caderle dagli occhi sul lavoro. Oh rugiada che ammollisce ogni cuore! Non resse il tacito amante a quella prova, ma inoltrandosi disse animoso: quello stile è invero felice, il quale spreme alcune lagrime dagli occhi tuoi. Essi recano la gioja ove si volgono. Ella alzò il viso verso lui, e terse col velo le umide palpebre. Si turbò alquanto nello udire la prima volta così tenere dichiarazioni e timida rispose «Mi sembri ora in nuovo modo più cortese che verace: pur si concede ad animo gentile qualche urbana lusinga. Leggo, se brami saperlo, la morte di Leandro, di Piramo, di Adone compianta da Ero, da Tisbe, da Venere ne’ teneri versi di Mimnermo e di Simonide. — Ben puoi, aggiunse egli, come per tragica illusione piangere le antiche sventure degli amanti; non avverrà però mai che questi occhi tuoi sieno lagrimosi per le tue». Sorrise ella soave, trasse il lembo del velo sul volto, e tacque.
Intanto i servi trascorrendo la magione avvisavano gli ospiti ch’erano imbandite le mense, ed entrambi vi si recarono. Quando Glicistoma entrò la soglia tutti gli occhi si volsero a lei, e ciascuno si rallegrava col genitore che ogni dì crescesse la bellezza della figliuola. La grata perturbazione del recente colloquio rendea più fresche le rose delle guance, e come scintillante il fuoco delle pupille. Testoride gustava queste lodi. La fanciulla avvezza a udirle porgea loro negligente orecchio. La sua verecondia era sempre confortata dalle paterne ammonizioni. Testoride solea inculcarle che tali lusinghe si usavano con prodigalità da tutti con tutte. Doversi pertanto nè gustare come vere, nè spregiare come finte, ma ammettere cortesemente come sociale costumanza. Considerasse la bellezza un fiore che presto languisce, e attendesse a ornar l’animo per conforto degli anni maturi. Ella sedeva a mensa ascoltando placida gli altrui ragionamenti. Fra delicate vivande, e fragranti vini si confondeano con vivace tumulto le parole in uno strepito congiunte.