Vestigi della Storia del Sonetto Italiano dall'anno MCC al MDCCC/Altri Sonetti
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ALTRI SONETTI
DELLO
STESSO AUTORE
Col precedente Sonetto in morte d’un suo Fratello, il Foscolo compie la serie da lui riunita sotto il titolo — Vestigi della Storia del Sonetto Italiano — cui fa tosto succedere le Postille che bello ornamento arrecano alla sua fatica. Noi però stimiamo opportuno il riportarle alla fine de’ seguenti Sonetti, parte de’ quali furono dall’autore pubblicati nel 1803 colle liriche che in questa nostra edizione precedono i Sepolcri, e parte in altri tempi a quell’epoca assai posteriori. Ad ogni modo li raccogliamo qui in corpo come a luogo più conveniente, perchè più conforme all’ordine delle materie per noi stabilito.
I.
Perchè taccia il rumor di mia catena
Di lagrime, di speme e di amor vivo,
E di silenzio; chè pietà mi affrena
4Se con lei parlo, o di lei penso e scrivo.
Tu sol mi ascolti, o solitario rivo,
Ove ogni notte Amor seco mi mena,
Qui affido il pianto e i miei danni descrivo,
8Qui tutta verso del dolor la piena;
E narro come i grandi occhi ridenti
Arsero d’immortal raggio il mio core,
11Come la rosea bocca e i rilucenti
Odorati capelli, ed il candore
Delle divine membra, e i cari accenti
14M’insegnarono alfin pianger d’amore.
II.
Così gl’interi giorni in lungo, incerto
Sonno gemo! ma poi quando la bruna
Notte gli astri nel ciel chiama e la luna,
4E il freddo aer di mute ombre è coverto;
Dove selvoso è il piano più deserto,
Allor, lento io vagando, ad una ad una
Palpo le piaghe onde la rea fortuna,
8E amore e il mondo hanno il mio core aperto.
Stanco mi appoggio or al troncon d’un pino,
Ed or, prostrato ove strepitan l’onde,
11Con le speranze mie parlo e deliro.
Ma per te le mortali ire, e il destino
Spesso obbliando, a te, donna, io sospiro:
14Luce degli occhi miei chi mi t’asconde?
III.
Nè più mai toccherò le sacre sponde
Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
4Del greco mar, da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
Col suo primo sorriso, onde non tacque
Le tue limpide nubi e le tue fronde
8L’inclito verso di Colui che l’acque
Cantò fatali, ed il diverso esiglio
Per cui bello di fama e di sventura
11Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
O materna mia terra; a noi prescrisse
14Il fato illacrimata sepoltura.
IV.
Forse perchè della fatal quïete
Tu sei l’immago a me sì cara, vieni,
O Sera! E quando ti corteggian liete
4Le nubi estive e i zeffiri sereni,
E quando dal nevoso aere inquiete
Tenebre, e lunghe, all’universo meni,
Sempre scendi invocata, e le secrete
8Vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
11Questo reo tempo, e van con lui le torme
Delle cure, onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
14Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
V.
Non son chi fui: perì di noi gran parte:
Questo che avanza è sol languore e pianto;
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
4Del lauro, speme al giovenil mio canto;
Perchè dal dì ch’empia licenza e Marte
Vestivan me del lor sanguineo manto,
Cieca è la mente e guasto il core, ed arte
8L’umana strage arte è in me fatta, e vanto.
Che se pur sorge di morir consiglio,
A mia fiera ragion chiudon le porte
11Furor di gloria, e carità di figlio.
Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,
Conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
14E so invocare, e non darmi la morte.
VI.
Meritamente, però ch’io potei
Abbandonarti, or grido alle frementi
Onde che batton l’alpi, e i pianti miei
4Sperdano sordi del Tirreno i venti.
Sperai, poichè mi han tratto uomini e Dei
In lungo esilio fra spergiure genti
Dal bel paese ove or meni sì rei,
8Me sospirando, i tuoi giorni fiorenti.
Sperai che il tempo, e i duri casi, e queste
Rupi ch’io varco anelando, e le eterne
11Ov’io qual fiera dormo atre foreste,
Sarien ristoro al mio cor sanguinente;
Ahi vota speme! Amor fra l’ombre inferne
14Seguirammi immortale, onnipotente.
VII.
Solcata ho fronte, occhi incavati intenti;
Crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto;
Labbro tumido acceso, e tersi denti,
4Capo chino, bel collo, e largo petto;
Giuste membra, vestir semplice eletto;
Ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti,
Sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;
8Avverso al mondo, avversi a me gli eventi.
Talor di lingua, e spesso di man prode;
Mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,
11Pronto, iracondo, inquieto, tenace:
Di vizi ricco e di virtù, do lode
Alla ragion, ma corro ove al cor piace:
14Morte sol mi darà fama e riposo.
VIII.
E tu ne’ carmi avrai perenne vita
Sponda che Arno saluta in suo cammino
Partendo la città che del latino
4Nome accogliea finor l’ombra fuggita.
Già dal tuo ponte all’onda impaurita
Il papale furore e il ghibellino
Mescean gran sangue, ove oggi al pellegrino
8Del fero vate la magion si addita.
Per me cara, felice, inclita riva
Ove sovente i piè leggiadri mosse
11Colei che vera al portamento Diva
In me volgeva sue luci beate,
Mentr’io sentia dai crin d’oro commosse
14Spirar ambrosia l’aure innamorate.
IX.
Pur tu copia versavi alma di canto
Su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,
Quando de’ miei fiorenti anni fuggiva
4La stagion prima, e dietro erale intanto
Questa, che meco per la via del pianto
Scende di Lete ver la muta riva:
Non udito or t’invoco; ohimè! soltanto
8Una favilla del tuo spirto è viva.
E tu fuggisti in compagnia dell’ore,
O Dea! tu pur mi lasci alle pensose
11Membranze, e del futuro al timor cieco.
Però mi accorgo, e mel ridice amore,
Che mal ponno sfogar rade, operose
14Rime il dolor che deve albergar meco.
X.
Che stai? già il secol l’orma ultima lascia
Dove del tempo son le leggi rotte
Precipita, portando entro la notte
4Quattro tuoi lustri, e obblio freddo li fascia.
Che se vita è l’orror, l’ira, e l’ambascia,
Troppo hai del viver tuo l’ore prodotte;
Or meglio vivi, e con fatiche dotte
8A chi diratti antico esempi lascia.
Figlio infelice, e disperato amante,
E senza patria, a tutti aspro e a te stesso,
11Giovine d’anni e rugoso in sembiante,
Che stai? breve è la vita, e lunga è l’arte;
A chi altamente oprar non è concesso
14Fama tentino almen libere carte.
XI.
Era la notte; e sul funereo letto
Agonizzante il genitor vid’io
Tergersi gli occhi, e con pietoso aspetto
4Mirarmi e dirmi in suon languido: addio.
Quindi scordato ogni terreno obbietto
Erger la fronte, ed affissarsi in Dio;
Mentre disciolta il crin batteasi il petto
8La madre rispondendo al pianto mio.
Ei volte a noi le luci lacrimose,
Deh basti! disse e a la mal ferma palma
11Appoggiò il capo, tacque, e si nascose.
E tacque ognun: ma alfin spirata l’alma
Cessò il silenzio e a le strida amorose
14La notturna gemea terribil calma.