Verso la cuna del mondo/XV
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Il vivajo del Buon Dio.
I signori dell’India non sono gl’Indiani. E non sono nemmeno gl’Inglesi. I signori dell’India sono gli animali. I corvi, anzi tutto; è l’impressione visiva e auditiva che si ha subito, appena sbarcati in una delle grandi Capitali: Bombay o Calcutta, Madras, o Rangoon. Incredibilmente numerosi, più numerosi dei colombi di Venezia, i corvi brulicano, nereggiano ovunque: nel porto, tra le balle di cotone e di spezie, nelle belle vie alberate di cocchi, nelle grandi piazze moderne; si dissetano, si bagnano starnazzando nelle vasche monumentali, orlano di nerazzurro i capitelli, le cimase, le guglie della frastagliata architettura gotico-indiana. Se gli avvoltoi sono i necrofori, i corvi sono gli spazzaturai del vastissimo Impero. E ne sono anche i ladri, ladri fatti tracotanti dalla tolleranza millenaria, contro i quali non vi difende nessun policeman volenteroso.
Il viaggiatore, che è innalzato in lift ad una delle linde stanzette degli immensi hôtels tropicali, resta sbigottito dinanzi agli avvisi delle pareti: Guardarsi dai corvi. — Abbassare le grate prima di uscire. — Non abbandonare gioielli. — Il padrone non prende responsabilità di sorta, ecc. — Sembra incredibile, ma ci si ricrede il giorno stesso. Ecco, sono le quindici, l’ora della siesta e del torpore. La città immensa è addormentata: nessuno, nemmeno un indigeno, attraversa la grande piazza, dove il sole avvampa, abbaglia, trema, facendo fluttuare in uno strano paesaggio subacqueo i tronchi dei palmizii, il monumento alla Regina Vittoria, le guglie della Cattedrale. In ogni stanza dell’albergo un europeo sogna la Patria lontana, resupino sotto il refrigerio dell’immenso ventilatore. Silenzio. Non s’ode che il ronzìo del congegno e l’altro romore che è la nota acustica dell’India, alla quale bisogna abituarsi come in certi paesi al fragore del mare, o dei torrenti: il gracidìo dei corvi: così monotono, assiduo, che non rompe, ma sottolinea il silenzio; inno alla putredine, dove prorompe la gamma di tutte le r, dove l’orecchio sembra discernere tutte le parole non liete: Ricordati! Ricordati! Morire! Morte! Morirai!
— Sì! Lo sappiamo anche troppo, bestie dannate! E intanto si dorma....
Il sonno viene quasi subito, ma quasi subito ci sveglia una strano romore. E allora, attraverso le ciglia socchiuse, si assiste a questo curioso spettacolo: un corvo scosta la stuoia pendula della grande finestra, sosta sul davanzale, esplora la stanza tranquilla, balza leggiero sul pavimento; un altro ripete il gesto, un altro ancora. Quattro, cinque messeri saltellano cauti sull’impiantito. Sono corvi (corvus splendens?) più piccoli dei nostri, snelli, nerazzurri, con una penna bianca nell’ala estrema, così buffi di forme e di movenze! Saltellano, avanzano in fila, cauti, l’uno proteso in avanti, l’altro eretto verticale, in vedetta, l’altro claudicando, sbilenco, simili veramente alle caricature della favola, degni eroi di Esopo e di La Fontaine. Nelle cucine, nei magazzini, i corvi entrano per ingordigia, ma in queste stanze linde, odorose di ragia e di bucato, non li attira che il demone della curiosità, del rischio, del ladroneccio. E i cinque ladruncoli s’arrestano ammirati, fanno cerchio intorno alle bretelle pendule da una sedia, tentano coi becchi le fibbie lucenti, tirano concordi, finchè bretelle e calzoni precipitano e questi cominciano a pellegrinare sul pavimento, tirati a ritroso da cinque becchi robusti. Allora scagliate la ciabatta prossima, o il volume che s’era addormentato con voi, pensando uno starnazzar d’ali ed una fuga precipitosa; ma i corvi, prima che il proiettile giunga, si salvano con un balzo, s’innalzano silenziosi verso il soffitto, si posano in bell’ordine sull’asta somma della zanzariera. Aprite tutte le vetrate, li invitate ad uscire, li minacciate con l’ombrello — troppo breve! — ma quelli non si decidono, sanno benissimo che non siete nè un bramino, nè un buddista, e che, passandovi a tiro, spezzereste loro, senza rimorso, le ali od il cranio. Allora, disperato, suonate, chiamate il boy. Il boy sorride indulgente, vi prega di deporre l’ombrello, batte le palme protese e i cinque appollaiati — riconosciuto l’uomo che non uccide — attraversano ad uno ad uno la stanza, escono silenziosi.
Tutti gli animali hanno in India una incredibile familiarità con l’uomo. I passeri, le tortore, gli scoiattoli striati invadono i cortili e i giardini, scendono a prendere le bricie quasi dalle vostre mani, pieni di una francescana fiducia: ma nei corvi e nelle scimmie la famigliarità è fatta di tracotanza insolente, di calcolo ingordo; certo pensano che Bombay e Calcutta siano state edificate per loro e che l’uomo sia un bipede intruso, da tollerarsi con palese rancore. E l’uomo, a sua volta, tollera i corvi delle immense capitali; essi mondano le vie da ogni sozzura prima che questa si decomponga nel sole ardente, lacerando, inghiottendo tutto, anche la carta fracida, i cenci logori, i frantumi di vetro. Dopo qualche giorno diventano simpatici: offrono all’osservatore scene impagabili, strani motivi di psicologia animalesca. Certo nessun uccello è più scaltro; basta osservarne l’atteggiamento vario di fronte alle varie persone. Verso sera, quando il thè delle cinque anima di veli e di sete, di occhi azzurri e di capelli biondi ogni giardino pubblico e privato, ogni veranda d’hôtel e di bungalow, le falangi nere scendono da ogni parte, con un gracidìo querulo e sommesso, quale si conviene ad accattoni questuanti. Accerchiano i tavolini svolazzando, saltellando, tutti col becco proteso, abbastanza lontani per sfuggire alla mano, abbastanza vicini per ghermire a volo il biscotto o la buccia di banana. E intuiscono la buona o la mala accoglienza, non s’accostano dove ci sono uomini, mazze, ombrelli, prediligono i tavolini delle signore e dei bimbi.
Con gli indigeni tengono tutt’altro contegno, non sono accattoni, ma despoti; nelle native-towns che si estendono dopo le città europee, fanno vita quasi comune con l’uomo, entrano nelle case, noncuranti di qualche minaccia impaziente, ben certi del patto millenario: «non essere uccisi». Adorabili scenette dei sobborghi indigeni! Una bimba — un idoletto di bronzo ignudo, di non forse tre anni — esce da una bottega stringendo una coppa di riso bollito, corre verso la madre che l’attende sulla soglia della casa opposta. A mezza via venti corvi le sono sopra; punto impaurita dalla cerchia delle ali turbinose, la piccola si piega col petto sulla coppa, si piega chinandosi fino a terra, alzando nel sole, contro l’ingordigia dei nemici, una parte che non è precisamente la faccia. E la madre sopraggiunge, libera la bimba, disperde gli assalitori, non senza aver dato in offa una manciata di riso. Entrambe rientrano in casa, sorridendo tranquille, come allo scherno consueto di buoni amici. Altre volte la vittima non è un bimbo, ma una scimmia. I corvi turbinano in alto, spiando un gruppo di scimmie che ha rubato una noce di cocco sul mercato vicino; seguono quella più prepotente che l’ha tolta alle altre, e quando la ladra è riuscita a spezzarne il frutto legnoso, nell’istante in cui sta per portare alla bocca il gariglio candido, i corvi piombano su di lei, le strappano il tesoro, la lasciano ringhiosa, a mani vuole, tra lo schiamazzare delle compagne.
Le scimmie contendono ai corvi il dominio delle città indiane, ma non infestano come quelli i quartieri europei, vivono nei sobborghi, nelle città nere, nei templi ruinati. E dai coloni sono più detestate dei corvi. Una frotta quadrumane può in una notte scoperchiare una villa, togliendo, per gioco, tutte le tegole, passandole da mano a mano, andandole ad accumulare in fondo ad un sotterraneo o sulla sommità di un colle, a qualche chilometro di distanza; altre volte saccheggiano un giardino, lo spogliano di tutto: frutti acerbi, fiori, foglie, per solo malvagio istinto di distruzione. E sono le tiranne dei mercati, dove i fruttivendoli si rassegnano per esse ad una decima gravosa. Intorno alle grandi piramidi di banane, di manghi, di mangustani, di catie, s’aggirano le scimmie polverose, pronte ad allungare la mano, noncuranti della sferzata inflitta dal ragazzetto custode. A sera tutte le lunghe vie dei sobborghi hanno le grondaje ornate di code pendule; ma se passa un europeo, un’automobile, una cosa nuova qualunque, le code scompaiono, fanno luogo ad altrettanti musi protesi verso la via, con la bocca digrignante in uno spasimo di curiosità. È infinita la varietà di creature tollerate o protette o venerate in questo vivaio del Buon Dio. Sulle vetrate degli alberghi, anche eleganti, corrono certe lucertole gibbose, ruvide, dalle zampe a ventosa, aderenti al vetro e che l’albergatore vi prega di non molestare. I passeri bengalini, rossi spruzzolati di bianco argento, invadono a centinaia le verande e le sale, vengono a beccare le bricie sotto i tavoli del thè; le manguste, simili a faine fulve, passano guardinghe lungo i corridoi, vigilando — per un dono strano di immunità — le vite umane dall’ospite terribilissimo: la naja tripudians: il cobra dagli occhiali. Ed ecco le creature enormi, le più simpatiche di tutte: gli elefanti. Completano il paesaggio indiano, hanno una laboriosità, una bontà che commuove, una intelligenza che confonde. Elefanti di lusso, destinati a cortei nuziali o religiosi, tatuati a colori come vecchi cuoi di Cordova, gualdrappati di velluti, di sete pesanti, con non altro di libero che le zanne, la proboscide, le orecchie zebrate: elefanti da lavoro, più intelligenti ancora, vecchissimi alcuni: dalla pelle rugosa, logora, troppo abbondante per la mole dimagrita dalle fatiche d’un secolo e più, elefanti che hanno visto tre generazioni d’uomini e che lavorano oggi per le case degli usurpatori biondi. S’incontrano per le strade di campagna, a coppie, non accompagnati da nessun cornac, percorrono da soli, a piccolo trotto, dieci, quindici chilometri di strada ben conosciuta, trasportando sul dorso o tra le zanne e la proboscide tronchi colossali, colonne, cubi di granito; li depongono a destinazione, rifanno di corsa il lungo cammino per ricevere un altro carico. Il loro passo s’annunzia di lontano con un rombo sordo; se incontrano un europeo retrocedono, scendono ai lati della strada, lasciando libero il passo; e protendono — se l’hanno libera — la proboscide, con gesto di preghiera. Se ricevono una monetina — un’anna, mezz’anna — sostano alla prima bottega campestre, la depongono per avere in cambio dall’indù una focaccia di riso muffita o un casco di banane fracide. La loro intelligenza è inaudita, imbarazzante: nell’occhio microscopico, quasi perduto nella mole della testa, s’alterna un bagliore indefinibile di scaltrezza derisoria e di bontà indulgente. Sono certo che comprendono ciò che dico, che intuiscono ciò che penso; e non so come dimostrare loro la mia fraterna simpatia: le mie mani giungono appena ad accarezzare la proboscide ruvida come un tronco, l’estremità delle orecchie logore, strappate come vecchie gualdrappe di cuoio.
E altre creature vi sono, ripugnanti e malefiche: e le più malefiche sono le più venerate. Il cobra, simbolizzato dalla teogonia bramina, divinizzato in marmo e in metallo in tutti i templi, è salutato con uno speciale rituale di riverenza e di scongiuro dal contadino indù che l’incontra attraverso un sentiero di campagna.
Ogni tempio ha negli stagni liminari legioni di testuggini e di coccodrilli decrepiti e venerati. Il pasto dei coccodrilli sacri è una delle grandi curiosità offerte al forestiero e che si ripete con rituale identico nei templi di Giaissur, di Ambex, di Tuadura. Un custode scende alle ultime scalee, seguito da un servo che reca un cesto di carne putrida; batte con un crescendo fragoroso un disco di rame, ed ecco sollevarsi pigramente le grandi foglie di ninfea e di nelumbo, ecco apparire tra i calici rossi dei nenufari i mostri spaventosi, simili a carcasse di vecchio metallo corazzato e borchiato, dai denti gialli, radi, aguzzi, oltrepassanti qua e là le mascelle formidabili. S’avanzano pigri, fanno cerchio dall’acqua intorno al custode, il quale lancia brani di carne legata ad una corda, perchè non venga ghermita a volo dai nibbi turbinanti intorno, attirati dal fetore nauseabondo.
L’Inghilterra che tollera tutto, tollera anche questo. Tollera anche l’Ospedale degli animali, in Bombay, che è il non plus ultra del genere, l’esponente massimo di questa filosofia bramina, così opposta alla nostra, educata al cristianesimo il quale riduce ogni divinità all’uomo soltanto e fa di tutto ciò che vive sulla terra una materia sorda, condannata senza speranza.
L’ospedale degli animali — un recinto-parco che costa centinaia di migliaia di rupie — accoglie tutti gli animali ammalati perchè possano guarirvi o morirvi in pace. Lo spettacolo (e il fetore!) è tale che l’europeo non s’indugia a lungo; falangi di bestie da soma: ronzini di piazza, bufali, zebù ischeletriti o idropici, sciancati, anchilosati, coperti d’ulceri e di piaghe, scimmie, cani, gatti ciechi, monchi, senza pelo: una parodia lacrimevole dell’Arca salvatrice. La nostra pietà occidentale insorge, domanda sdegnata perchè non si dà a quelle povere bestie il colpo di grazia, addormentandole con una doppia dose di cloroformio.
— Perchè non si ha il diritto di spezzare una vita, qualunque essa sia.
— Ma vivere a che?
— Per soffrire.
— E soffrire a che?
— Per divenire, per accrescersi, per allontanarsi sempre più dalla materia attraverso il peso della materia, per spegnere, nella ruota d’infinite incarnazioni, il desiderio di esistere: questo peccato che ci condanna a ritornare in vita.
E se fosse vero? Se veramente noi non fossimo il Re dell’Universo come la nostra religione ci promette? Se veramente il verme, il cane, l’uomo non fossero che graduazioni varie dello spirito, della stessa forza immanente che palpita ovunque, esitando incerta verso una mèta che ignoriamo e che non è forse se non la pace dell’Increato?
Retorica elementare, fatta odiosa da tutti i trattarelli teosofici, ma che, esposta con brevi parole da questo guardiano dal volto ascetico come un San Francesco di bronzo, non ci può far sorridere come il nostro orgoglio occidentale vorrebbe.
FINE.