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256 il vivajo del buon dio

sete, di occhi azzurri e di capelli biondi ogni giardino pubblico e privato, ogni veranda d’hôtel e di bungalow, le falangi nere scendono da ogni parte, con un gracidìo querulo e sommesso, quale si conviene ad accattoni questuanti. Accerchiano i tavolini svolazzando, saltellando, tutti col becco proteso, abbastanza lontani per sfuggire alla mano, abbastanza vicini per ghermire a volo il biscotto o la buccia di banana. E intuiscono la buona o la mala accoglienza, non s’accostano dove ci sono uomini, mazze, ombrelli, prediligono i tavolini delle signore e dei bimbi.

Con gli indigeni tengono tutt’altro contegno, non sono accattoni, ma despoti; nelle native-towns che si estendono dopo le città europee, fanno vita quasi comune con l’uomo, entrano nelle case, noncuranti di qualche minaccia impaziente, ben certi del patto millenario: «non essere uccisi». Adorabili scenette dei sobborghi indigeni! Una bimba — un idoletto di bronzo ignudo, di non forse tre anni — esce da una bottega stringendo una coppa di riso bollito, corre verso la madre che l’attende sulla soglia della casa opposta. A mezza via venti