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252 | il vivajo del buon dio |
ranza millenaria, contro i quali non vi difende nessun policeman volenteroso.
Il viaggiatore, che è innalzato in lift ad una delle linde stanzette degli immensi hôtels tropicali, resta sbigottito dinanzi agli avvisi delle pareti: Guardarsi dai corvi. — Abbassare le grate prima di uscire. — Non abbandonare gioielli. — Il padrone non prende responsabilità di sorta, ecc. — Sembra incredibile, ma ci si ricrede il giorno stesso. Ecco, sono le quindici, l’ora della siesta e del torpore. La città immensa è addormentata: nessuno, nemmeno un indigeno, attraversa la grande piazza, dove il sole avvampa, abbaglia, trema, facendo fluttuare in uno strano paesaggio subacqueo i tronchi dei palmizii, il monumento alla Regina Vittoria, le guglie della Cattedrale. In ogni stanza dell’albergo un europeo sogna la Patria lontana, resupino sotto il refrigerio dell’immenso ventilatore. Silenzio. Non s’ode che il ronzìo del congegno e l’altro romore che è la nota acustica dell’India, alla quale bisogna abituarsi come in certi paesi al fragore del mare, o dei torrenti: il gracidìo dei corvi: così monotono, assiduo, che non rompe,