|
il vivajo del buon dio |
259 |
alberghi, anche eleganti, corrono certe lucertole gibbose, ruvide, dalle zampe a ventosa, aderenti al vetro e che l’albergatore vi prega di non molestare. I passeri bengalini, rossi spruzzolati di bianco argento, invadono a centinaia le verande e le sale, vengono a beccare le bricie sotto i tavoli del thè; le manguste, simili a faine fulve, passano guardinghe lungo i corridoi, vigilando — per un dono strano di immunità — le vite umane dall’ospite terribilissimo: la naja tripudians: il cobra dagli occhiali. Ed ecco le creature enormi, le più simpatiche di tutte: gli elefanti. Completano il paesaggio indiano, hanno una laboriosità, una bontà che commuove, una intelligenza che confonde. Elefanti di lusso, destinati a cortei nuziali o religiosi, tatuati a colori come vecchi cuoi di Cordova, gualdrappati di velluti, di sete pesanti, con non altro di libero che le zanne, la proboscide, le orecchie zebrate: elefanti da lavoro, più intelligenti ancora, vecchissimi alcuni: dalla pelle rugosa, logora, troppo abbondante per la mole dimagrita dalle fatiche d’un secolo e più, elefanti che hanno visto tre generazioni d’uomini e che la-