Versi - Paralipomeni della Batracomiomachia/II. Paralipomeni della Batracomiomachia/Canto VIII

Canto VIII

../Canto VII ../../Appendice IncludiIntestazione 12 aprile 2024 100% Da definire

II. Paralipomeni della Batracomiomachia - Canto VII Appendice
[p. 195 modifica]

CANTO OTTAVO

1
     La ragion perché i morti ebber sotterra
l’albergo lor non m’è del tutto nota.
Dei corpi intendo ben, perch’alla terra,
riede la spoglia esanime ed immota;
ma lo spirto immortal ch’indi si sferra
non so ben perché al fondo anche percota.
Pur s’altre autoritá non fosser pronte,
ciò la leggenda attesteria del conte.
2
     Attonito a mirar lunga fiata
la novitá dell’infernal soggiorno
stette il buon Leccafondi, e dell’andata
la cagione obbliava ed il ritorno:
ma Dedalo il riscosse, e rigirata
ch’ebbero in parte la montagna intorno,
la bocca ritrovar lá dove a torme
de’ topi estinti concorrean le forme.
3
     Ivi dinanzi all’inamabil soglia
dipartirsi convenne a’ due viventi,
per non poter, benché n’avesse voglia,
Dedalo penetrar fra’ topi spenti,
non sol vivendo, ma né men se spoglia
anima andasse fra le morte genti:
che non cape pur mezza in quella porta
la figura dell’uom viva né morta.

[p. 196 modifica]

4
     Maggiori inferni e della sua statura
ben visitati avea l’uom forte e saggio,
e vedutili, fuor nella misura,
conformi esser fra lor, di quel viaggio
predetta aveva al topo ogni avventura
ch’or gli ridisse, e fecegli coraggio,
e messol dentro al sempiterno orrore,
ad aspettarlo si fermò di fuore.
5
     Io vidi in Roma sulle liete scene
che il nome appresso il volgo han di Fiano,
in una grotta ove sonar catene
s’ode e un lamento pauroso e strano,
discender Cassandrin dalle serene
aure per forza con un lume in mano,
che, con tremole note in senso audace
parlando, spegne per tremar la face.
6
     Poco altrimenti all’infernal discesa
posesi di Topaia il cavaliere,
salvo che non avea lucerna accesa,
ch’ai topi per veder non è mestiere;
né minacciando giá, che in quella impresa
vedeva il minacciar nulla valere;
e pur volendo, credo che a gran pena
bastata a questo gli saria la lena.
7
     Tacito discendeva in compagnia
di molte larve i sotterranei fondi.
Senza precipitar, quivi la via
mena ai piú ciechi abissi e piú profondi;
can Cerbero latrar non vi s’udia,
sferze fischiar né rettili iracondi.
Non si vedevan barche e non paludi,
né spiriti aspettar su l’erba ignudi.

[p. 197 modifica]

8
     Senza custode alcuno era l’entrata
ed aperta la via perpetuamente,
che da persone vive esser tentata
la non può mai che malagevolmente,
e per l’uso de’ morti apparecchiata
fu dal principio suo naturalmente,
onde non è ragion farvisi altrui
ostacolo a calar ne’ regni bui.
9
     E dell’uscir di lá nessun desio
provano i morti, se ben hanno il come;
che, spiccato che fu de’ topi l’io,
non si rappicca alle corporee some,
e ritornando dall’eterno oblio
sanno ben che rizzar farian le chiome;
e fuggiti da ognuno, e maledetti
sarian per giunta da’ parenti stretti.
10
     Prèmi né pene non trovò nel regno
de’ morti il conte, ovver di ciò non danno
le sue storie antichissime alcun segno.
E maraviglia in questo a me non fanno;
ché i morti aver quel ch’alla vita è degno,
piacere eterno, ovvero eterno affanno,
tacque, anzi mai non seppe a dire il vero,
non che il prisco Israele, il dotto Omero.
11
     Sapete che se in lui fu lungamente
creduta ritrovar questa dottrina,
avvenne ciò perché l’umana mente
quei dogmi ond’ella si nutrí bambina
veri non crede sol, ma d’ogni gente
natii, quantunque antica o pellegrina.
Dianzi in Omero errar di ciò la fama
scoprimmo: ed imparar questo si chiama.

[p. 198 modifica]

12
     Né mai selvaggio alcun di prèmi o pene
destinate agli spenti ebbe sentore,
né giá dopo il morir delle terrene
membra l’alme credé viver di fuore,
ma palpitare ancor le fredde vene,
e insomma non morir colui che mòre,
perch’un rozzo del tutto e quasi infante
la morte a concepir non è bastante.
13
     Però questa caduca e corporale
vita, non altra, e il breve uman viaggio,
in modi e luoghi incogniti immortale
dopo il fato durar crede il selvaggio,
e lo stato i sepolti anco aver tale
qual ebber quei di sopra al lor passaggio,
tali i bisogni, e non in parte alcuna
gli esercizi mutati o la fortuna.
14
     Ond’ei sotterra con l’esangue spoglia
ripon cibi e ricchezze e vestimenti,
chiude le donne e i servi, acciò non toglia
il sepolcro al defunto i suoi contenti;
cani, frecce ed arnesi a qualsivoglia
arte ch’egli adoprasse appartenenti,
massime se il destín gli avea prescritto
che con la man si procacciasse il vitto.
15
     E questo è quello universal consenso
che in testimon della futura vita
con eloquenza e con sapere immenso
da dottori gravissimi si cita;
d’ogni popol piú rozzo e piú milenso,
d’ogni mente infingarda e inerudita:
il non poter nell’orba fantasia
la morte imaginar che cosa sia.

[p. 199 modifica]

16
     Son laggiú nel profondo immense file
di seggi ove non può lima o scarpello;
seggono i morti in ciaschedun sedile
con le mani appoggiate a un bastoncello,
confusi insiem l’ignobile e il gentile
come di mano in man gli ebbe l’avello:
poi ch’una fila è piena, immantinente
da piú nòvi occupata è la seguente.
17
     Nessun guarda il vicino o gli fa motto.
Se visto avete mai qualche pittura
di quelle usate farsi innanzi a Giotto,
o statua antica, in qualche sepoltura
gotica, come dice il volgo indotto,
di quelle che a mirar fanno paura,
con le faccie allungate e sonnolenti
e l’altre membra pendule e cadenti;
18
     pensate che tal forma han per l’appunto
l’anime colaggiú nell’altro mondo;
e tali le trovò poi che fu giunto
il topo, nostro eroe, nel piú profondo.
Tremato sempre avea fino a quel punto
per la discesa, il ver non vi nascondo;
ma come vide quel funereo coro,
per poco non restò morto con loro.
19
     Forse con tal, non giá con tanto orrore,
visto avete in sua carne ed in suoi panni
Federigo secondo imperatore
in Palermo giacer da secent’anni,
senza naso né labbra, e di colore
quale il tempo può far con lunghi danni,
ma col brando alla cinta e incoronato,
e con l’imago della terra allato.

[p. 200 modifica]

20
     Poscia che, dal terror con gran fatica
a poco a poco ritornato, il conte
óso fu di mirar la schiera antica
negli occhi mezzo chiusi e nella fronte,
cercando se fra lor persona amica
riconoscesse alle fattezze cónte,
gran tempo andò con le pupille errando
di cotanti nessun raffigurando.
21
     Sí mutato d’ognuno era il sembiante,
e sí tra lor conformi apparian tutti,
che a gran pena gli venne in sul davante
riconosciuto infin Mangiaprosciutti,
Rubatocchi e poche altre anime sante
di cari amici suoi testé distrutti:
a cui principalmente il sermon vòlto,
narrò perché a cercarli avesse tolto.
22
     Ma gli convenne incominciar dal primo
assalto che dai granchi ebbero i suoi,
novo agli scesi anzi quel tempo all’imo
essendo quel che occorso era da poi.
Ben ciascun giorno dal terrestre limo
discendon topi al mondo degli eroi,
ma non fan motto, ché alla gente morta
questa vita di qua niente importa.
23
     Narrato ch’ebbe alla distesa il tutto,
la tregua, il nuovo prence e lo Statuto,
il brutto inganno de’ nemici, e il brutto
galoppar dell’esercito barbuto,
addimandò se la vergogna e il lutto
ove il popol de’ topi era caduto
sgombro sarebbe per la man de’ molti
collegati da lui testé raccolti.

[p. 201 modifica]

24
     Non è l’estinto un animal risivo,
anzi negata gli è per legge eterna
la virtú per la quale è dato al vivo,
che una sciocchezza insolita discerna,
sfogar con un sonoro e convulsivo
atto un prurito della parte interna.
Però, del conte la dimanda udita,
non risero i passati all’altra vita.
25
     Ma primamente a lor su per la notte
perpetua si diffuse un suon giocondo,
che di secolo in secolo alle grotte
piú remoto pervenne insino al fondo.
I destini tremâr non forse rotte
fosser le leggi imposte all’altro mondo,
e non potente l’accigliato Eliso,
udito il conte, a ritenere il riso.
26
     Il conte, ancor che la paura avesse
de’ suoi pensieri il principal governo,
visto poco mancar che non ridesse
di sé l’antico tempo ed il moderno,
e tutto per tener le non concesse
risa sudando travagliar l’inferno,
arrossito saria, se col rossore
mostrasse il topo il vergognar di fuore.
27
     E confuso e di cor tutto smarrito,
con voce il piú che si poteva umíle,
e in atto ancor dimesso e sbigottito,
mutando al dimandar figura e stile,
interrogò gli spirti a qual partito
appigliar si dovesse un cor gentile,
per far dell’ignominia ov’era involta
la sua stirpe de’ topi andar disciolta.

[p. 202 modifica]

28
     Come un liuto rugginoso e duro,
che sia molti anni giá muto rimaso,
risponde con un suon fioco ed oscuro
a chi lo tenti o lo percota a caso,
tal con un profferir torbo ed impuro
che fean mezzo le labbra e mezzo il naso,
rompendo del tacer l’abito antico,
risposer l’ombre a quel del mondo aprico.
29
     E gli ordinâr che, riveduto il sole,
di penetrar fra’ suoi trovasse via;
che poi ch’entrar della terrestre mole
potea nel cupo, anche colá potria;
ivi in pensieri, in opre ed in parole
seguisse quel che móstro gli saria
per lavar di sua gente il disonore
dal general di nome Assaggiatore.
30
     Era questi un guerrier canuto e prode,
che, per senno e virtú pregiato e culto,
d’un vano perigliar la vana lode
fuggía, vivendo a piú potere occulto;
trattar le ciance come cose sode
a gente di cervel non bene adulto
lasciando, e sotto non superbo tetto
schifando del servaggio il grave aspetto.
31
     Infermo egli a giacer s’era trovato
quando il granchio alle spalle ebbero i suoi,
ed, a congiure sceniche invitato,
chiusi sempre gli orecchi avea di poi,
onde cattivo cittadin chiamato
era talor dai fuggitivi eroi;
ed ei tranquillo in sua virtú, la poco
saggia natura altrui prendeva in gioco.

[p. 203 modifica]

32
     Tale oracolo avuto, alle superne
contrade i passi ritorceva il conte,
scritto portando delle valli inferne
lo spavento negli atti e nella fronte.
Qual di Trofonio giá nelle caverne
agli arcani di Stige e d’Acheronte
ammesso il volgo, in sull’aperta riva
pallido e trasformato indi reddiva.
33
     Presso alla soglia dell’avaro speco
Dedalo ritrovò che l’attendeva,
e poi ch’alquanto ragionando seco
di quel che dentro lá veduto aveva,
riposato si fu sotto quel cieco
vel di nebbia che mai non si solleva,
rassettatesi l’ali in sulla schiena
con lui di novo abbandonò l’arena.
34
     Riviver parve al semivivo, escito
che fu del buio a riveder le stelle.
Era notte, e splendean per l’infinito
oceán le volubili facelle;
leggermente quel mar che non ha lito
sferzavan l’aure fuggitive e snelle,
e s’andava a quel suono accompagnando
il rombo che color facean volando.
35
     Rapido sí che non cedeva al vento,
ver’ Topaia drizzâr subito il volo,
portando l’occhio per seguire intento
i due lumi c’ha sempre il nostro polo.
D’isole sparso il liquido elemento
scoprian passando, e sull’oscuro suolo
volare allocchi e piú d’un pipistrello
che al topo s’accostò come fratello.

[p. 204 modifica]

36
     Valiche l’acque, valicâr gran tratto
di terra ferma ed altro mar di poi,
e cosí come prima avevan fatto
la parte rivarcâr che abitiam noi.
Giá di riscontro a lor nasceva, e ratto
si spandeva il mattin sui monti eoi,
quando lá di Topaia accanto al sasso
chinâr Dedalo e il conte i vanni al basso.
37
     Quivi non visti, rintegrâr le dome
forze con bacche e con silvestri ghiande;
poscia Dedalo, avuta io non so come
una pelle di granchio in quelle bande,
l’altro coprí delle nemiche some,
tal che parve di poi, tra le nefande
bestie, un granchio piú ver che appresso i franchi
non paion delle donne i petti e i fianchi.
38
     Alfin, del conte alle onorate imprese
fausto evento pregando e fortunato,
l’ospite e duce e consiglier cortese,
partendosi, da lui prese commiato.
Piangeva il topo, e con le braccia stese,
cor gli giurava eternamente grato.
Quei l’abbracciò come poteva, e solo
poi verso il nido suo riprese il volo.
39
     L’esule a rientrar nella dolente
cittá non fe’ dimora, e poi che l’ebbe
con gli occhi intorno affettuosamente
ricorsa, e con gli orecchi avido bebbe
le patrie voci, a quel che alla sua gente
udito avea che lume esser potrebbe,
senza punto indugiarsi andò diritto,
dico al guerrier di cui piú sopra è scritto.

[p. 205 modifica]

40
     A conoscer si diede, e qual desire
il movesse a venir fece palese.
Quegli onorollo assai, ma nulla udire
volle di trame o di civili imprese.
Cercollo il conte, orando, ammorbidire;
ma tacque il volo e l’infernal paese,
perché temé da quel guerrier canuto
per visionario e sciocco esser tenuto.
41
     Piú volte l’instancabile oratore
or solo ed or con altra compagnia
tornato era agli assalti, ed a quel core
aperta non s’aveva alcuna via.
Ultimamente, un dí che Assaggiatore
con piú giovani allato egli assalia,
quei ragionò tra lor nella maniera
che di qui recitar creduto io m’era.
42
     Perché, se ben le antiche pergamene,
dietro le quali ho fino a qui condotta
la storia mia, qui mancano, e se bene
per tal modo la via m’era interrotta,
la leggenda che in quella si contiene
altrove in qual si fosse lingua dotta
sperai compiuta ritrovar: ma vòto
ritornommi il pensiero e contro il voto.
43
     Questa in lingua sanscrita e tibetana,
indostanica, pahli e giapponese,
arabica, rabbinica, persiana,
etiopica, tartara e cinese,
siriaca, caldaica, egiziana,
mesogotica, sassone e gallese,
finnica, serviana e dalmatina,
valacca, provenzal, greca e latina,

[p. 206 modifica]

44
     celata in molte biblioteche e molte
di levante si trova e di ponente,
che vidi io stesso, o che per me rivolte
fûr da piú d’un’amico intelligente.
Ma di tali scritture ivi sepolte,
nessuna al caso mio valse niente,
che non v’ha testo alcun della leggenda
ove piú che nel nostro ella si stenda.
45
     Però con gran dolor son qui costretto
troncando abbandonar la istoria mia,
tutti mancano in fin, siccome ho detto,
i testi, qual che la cagion si sia:
come viaggiator, cui per difetto
di cavalli o di rote all’osteria
restar sia forza, o qual nocchiero intento
al corso suo, cui vegna meno il vento.
46
     Voi, leggitori miei, l’involontario
mancamento imputar non mi dovete.
Se mai perfetto in qualche leggendario
troverò quel che in parte inteso avete,
al narrato dinanzi un corollario
aggiungerò, se ancor legger vorrete.
Paghi del buon desio restate intanto,
e finiscasi qui l’ottavo canto.