Vae Victis/Parte prima/IV
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IV.
Dal diario di Mirella.
Questo è un giorno importante: il quattro agosto — giorno di nascita di Chérie. Lulù le ha regalato un orologio d’oro e una sciarpa di seta lunga lunga color cielo. Io le ho regalato una scatola di cioccolatini, quasi piena. Anche una testa di clown dipinta su un pezzo di gomma; è una faccia molto comica che se si preme di qua o di là fa delle boccacce e delle smorfie. Le ho anche regalato il mio salvadanaio vuoto, un po’ rotto. Ma abbastanza bello. È foggiato ad elefante, e ciondola la testa quando vi si mette dentro del denaro, e poi seguita a ciondolarla per un pezzo come se ne domandasse ancora.
Cecilia e Jeannette hanno mandato delle rose; Lucilla e Cricri una scatola di fondants; Verveine Mellor, da cui non ci si aspettava nulla, mandò un parasole rosso. Veramente non avevamo invitato Verveine per questa sera perchè abita così lontano, quasi fuori del paese; ma visto il parasole, la inviteremo.
C’è mancato poco che mammà non lasciasse venire nessuno, tanto essa e Chérie si tormentano all’idea dei tedeschi; ma io ho pianto — e so che detestano di vedermi piangere — allora la mamma ha finito col dire che, dopo tutto, lasciar venire quelle cinque ragazze che vediamo tutti i giorni non era poi un ricevimento. Dunque verranno; ed io metterò il mio vestito rosa.
Il grande avvenimento di quest’oggi è stato l’arrivo di Amour nel suo cesto con quattordici franchi da pagare. Siamo molto contente di riaverlo; Chérie ha detto ch’era quasi come se le avessero regalato un cane nuovo per la sua festa. L’unica contrarietà riguardo ad Amour è che ha preso subito tra i denti la faccia di gomma dipinta che io aveva regalata a Chérie e non c’è stato verso di fargliela lasciare. E’ scappato via e si è nascosto per rosicchiarla in pace. Difatti, quando l’abbiamo poi ritrovata sotto al letto, tutti i colori erano stati leccati via e non era più che un pezzo di gomma informe. Chérie mi assicura che le piace lo stesso, e Marietta dice che può servire molto bene come gomma da cancellare.
Marietta e Maria oggi se ne vanno; dicono che hanno paura a star qui. Si portano via poca roba e vanno a Liegi, dove si sentiranno più al sicuro. Maria ha raccomandato che andassimo via anche noi, e mammà ha detto che se le cose arrivassero a quel punto, certamente ce ne andremmo.
Mammà ha pianto due o tre volte oggi. E Frida fa finta di essere ammalata e s’è chiusa in camera sua. Da iersera non abbiamo più visto Fritz. Insomma, tutto è molto spaventoso e interessante. A pranzo dovremo servirci da noi e non ci sarà gran che da mangiare perchè nessuno ha fatto la cucina; ma non importa poichè vi sono molte paste e dolci preparati per la festa di questa sera. Anche delle tartine al foie-gras. Tutto è bene accomodato con fiori su una lunga tavola. Da bere avremo aranciata e granatina. Dovevano esserci anche i gelati, ma il pasticciere è andato a fare il soldato avant’ieri e sua moglie dice che ha troppi fastidi e troppi bambini per stare a fare i gelati. Essa ci raccontò che suo marito con tanti altri soldati stavano scavando dei fossi tutto intorno al Belgio per impedire ai tedeschi di entrare. Adesso vado a vestirmi. Chérie si fa molto bella. Mette il suo vestito di velo bianco come una sposa. Si fa anche una pettinatura nuova, tutta a girigoggoli che pare una torta — quella torta col rhum che Frida chiama «Kugelhopf.» Mammà ha promesso di farsi bella anche lei. Ha anche promesso che fino a domani non penserà più alla guerra nè ai tedeschi per non guastarci la serata, perchè — come le ha fatto osservare Chérie — non si compiono i diciotto anni che una sola volta nella vita!
Adesso che ci penso, anche gli undici non si compiono che una sola volta nella vita. Mi ricorderò di dirlo anch’io il giorno del mio compleanno; ho visto che mammà se ne è molto commossa....
Così scriveva Mirella seduta al tavolo in sala da pranzo; e il suo atteggiamento — dalla testa molto inclinata sull’omero, alla punta della lingua sporgente e moventesi lentamente da un angolo all’altro della sua piccola bocca socchiusa — dinotava accuratezza e diligenza.
Dietro a lei la porta s’aprì senza grande strepito e Fritz s’affacciò per un istante. Guardò intorno, poi richiuse la porta e stette in ascolto sul pianerottolo; si udivano indistintamente dalla camera da letto le voci sommesse di Luisa e Chérie.
Fritz salì rapido al secondo piano e girò la maniglia della stanza di Frida. Era chiusa a chiave.
«Apri la porta,» comandò.
Frida obbedì. Non era la prima volta ch’essa apriva la sua porta a Fritz.
«Come parli forte,» susurrò ella in tono di rimprovero; e richiuse a chiave l’uscio. «Forse ti avranno udito.»
«E quand’anche?» disse Fritz. «Udranno ben altro.» Sedette ed accese una sigaretta. «Ah, ecco! Da due anni faccio il servitore qui. Da domani in poi diventerò il padrone.»
«Da domani!» balbettò Frida impressionata. «Ma che cosa dici?»
«Dico che ci siamo! Ci siamo finalmente!» esclamò Fritz, e il suo sguardo si levò lucido e feroce, verso la finestra aperta al cielo d’occaso.
Già da tempo il sole tondo e rosso — il gran sole d’agosto — era tramontato, ma il giorno s’indugiava ancora come se gli dolesse di finire. Là dove il cielo era più chiaro esso portava nel seno la falciuola scolorita della luna nuova, come una pallida ferita per la quale il giorno dovesse morire.
«Ci siamo, ci siamo!» ripetè Fritz. «E tu tienti pronta alla partenza.»
In quel giorno stesso l’uragano s’era già scatenato sull’Europa. Le Jene Grigie si riversavano sul Belgio dal Sud-Est. A Dohain, a Francorchamps, a Stavelot l’orda cenerognola s’avanzava inesorabile, onda su onda, spargendo intorno la violenza e la morte.
Ma i cannoni non parlavano ancora. Nel villaggetto di Bomal, discosto appena una ventina di miglia, nulla se ne sapeva; e Luisa appuntando una rosa nelle treccie lucenti di Chérie diceva: «Domani penseremo alla guerra.»
Chérie la baciò e rise. Rise, ma con gli occhi un poco pensierosi, mentre mirava nello specchio la sua graziosa imagine. Poichè la giornata, di un azzurro insolente, svaniva in una serata d’azzurro tenue — e Florian Audet non aveva ancora mantenuto la sua promessa.
Forse, pensò Chérie, il suo battaglione ha ricevuto ordini di lasciare l’accampamento sulla Mosa; forse egli è stato mandato alla frontiera. Sospirò. Ah! s’ella avesse potuto rivederlo ancora!... Se avesse almeno potuto dirgli addio!...
Ma ecco entrare a colpo di vento la piccola Mirella, simile a un petalo di fior di pesco nel vestitino di seta vermiglia. «Vieni, vieni, Chérie! Hanno suonato alla porta!»
E poichè non c’era nessuno che potesse andare ad aprire — Maria e Marietta erano partite, Frida stava chiusa in camera sua, e Fritz era sparito — le due fanciulle scesero correndo ad aprire la porta a Lucilla e a Cricri, radiose entrambe nelle loro vesti di mussola cilestrina. Presto arrivarono anche Cecilia e Jeannette, e poi Verveine, coi brevi riccioli al vento — e tutte insieme colle bianche braccia intrecciate e le chiare gonne ondeggianti salirono alla sala da musica.
Verveine sedette al pianoforte, e le altre danzarono cantando:
«Sur le pont |
Attraverso le finestre spalancate le voci ridenti si spandevano nella mite aria serale; e un giovane soldato a cavallo che passava al galoppo per la strada silenziosa del villaggio udì la canzone ancor prima di giungere alla porta del dottor Brandès. Era Florian Audet che veniva a mantenere la sua promessa.
Egli saltò a terra, e gettando la briglia sopra una punta della piccola cancellata, suonò il campanello. Fu Luisa che scese ad aprirgli la porta.
«Ah, Florian,» esclamò lieta, «come sarà felice Chérie —» ma in quell’istante la luce dal corridoio battè in pieno sul viso del giovane, ed essa lo vide livido e stravolto. «Che cosa c’è?» chiese, abbassando la voce.
«Devo parlarvi!» rispose Florian, traendola in casa; entrò con lei nello studio del dottore e chiuse la porta. Luisa sentì d’improvviso come una gran pietra caderle sul cuore.
«Florian! dimmi... che cosa è accaduto? Vi sono notizie peggiori?»
«Le peggiori possibili,» disse il giovane. Indi i suoi occhi stupiti errarono sopra la graziosa figuretta che gli stava di fronte. «Si può sapere perchè siete vestita così?» Il volto gli si contrasse in un sorriso d’amara ironia. «Cosa c’è? Un ballo?»
«Ma no, Florian...» balbettò Luisa. «Ma sai pure che è la festa di Chérie...»
«Sur le pont d’Avignon |
cantavano di sopra le voci giovanili.
Florian si coprì gli occhi. «Mio Dio,» mormorò... «Quanta incoscienza! E come faccio io a lasciarvi — come faccio?» Indi alzando lo sguardo vide gli occhi spauriti di Luisa che lo fissavano, e le prese la mano.
«Marraine,» disse. «Voi sarete coraggiosa — non è vero? È meglio che io vi dica come stanno le cose.»
«Sì, Florian,» disse Luisa tenendo gli occhi fissi su di lui mentre il colore le spariva a poco a poco dal volto, lasciandolo di un pallore latteo.
«Ebbene — il paese è invaso ad ogni punto. Vi è già stato uno scontro a Verviers.»
«A Verviers!» gridò Luisa.
«Sì. E a Fleuron!»
Vi fu un silenzio.
Quindi Luisa domandò, quasi afona: «Che cosa... che cosa accadrà? Cosa significa questo per il nostro paese?»
«Significa rovina e strazio,» mormorò Florian a denti stretti. «Significa violenza, strage e devastazione.»
Luisa fu presa da un tremito convulso e si lasciò cadere su una seggiola. Florian girò su e giù per la stanza. «Teniamo ancora Visé,» mormorò soffermandosi. «Lo teniamo contro Von Emmich e le sue jene infernali!... E quando non potremo più tenerlo faremo saltare il ponte della Mosa.»
Luisa ebbe un singulto; poi alzò gli occhi — i grandi occhi che parevano macchie d’inchiostro nella faccia scolorita. «Florian! Credi — credi possibile che.... costoro vengano qui?»
«Tutto è possibile,» gemette Florian, «sì, sì! Anche questo è possibile.» E guardando la fragile figura davanti a sè e pensandola qui sola con Chérie e Mirella, uno spàsimo gli attraversò il viso.
«Ma tu resterai con noi!» esclamò Luisa, e il suo sguardo si appoggiò sulla gagliarda figura e sul maschio volto del giovane. «Quanto tempo potrai restar qui?»
Florian dette in un’amara risata. «Quaranta minuti,» disse. E vi fu un nuovo tragico silenzio.
Finalmente Florian si scosse. «Che ne è di quell’Olandese — quel domestico fidato di Claudio? Dov’è?»
«Fritz?» esclamò Luisa, tremando. E subito gli narrò la scena avvenuta la sera prima, ed anche gli impressionanti eventi della gita a Roche-à-Frêne.
Florian l’ascoltò con viso fosco, stringendo i pugni. Quindi riprese a camminare in su e in giù per la stanza. «Basta,» disse finalmente con voce rauca. «Per gli errori passati non c’è rimedio.» Poi si fermò davanti a Luisa. «Avete promesso d’essere coraggiosa. Adesso ascoltate ciò che vi dico — ed obbeditemi.»
Le diede istruzioni brevi e precise. Raccogliessero subito le poche cose di maggior valore che possedevano e lasciassero Bomal la mattina seguente alla prim’ora. Si recassero a Bruxelles, per la via di Marche e Namur — non per la via di Liegi. «Rammentatevi!» ripetè Florian, «non dovete passare per Liegi.» Nel caso che non vi fossero treni, dovevano noleggiare una carrozza o un carro — qualsiasi veicolo potessero trovare; e se non potevano trovar nulla andassero a piedi fino a Huy e di là a Namur come meglio potevano.
«Avete capito?»
Sì, Luisa aveva capito.
«E perchè non partire adesso — questa sera stessa?» suggerì Florian. «Potreste arrivare a Tervagne stanotte, se attraversate i boschi....»
«Stanotte!... Attraversare i boschi!...»
Luisa parve così terrorizzata a quelle parole ch’egli non osò insistere. D’altra parte, egli riflettè, potrebbe darsi che anche i boschi, stanotte, fossero già percorsi da drappelli di Ulani. No; meglio partire all’alba. Alle tre o le quattro del mattino.
«È inteso?»
Sì; era inteso.
«E....» chiese la tremante Luisa, «che cosa faremo di Frida?»
«Non ve ne fidate!» esclamò Florian. «Tuttavia conducetela con voi se vuol venire. Se no, lasciatela stare. — Oh! e tenete chiuse le porte! Tutte le porte. Chiuse a chiave e a catenaccio.»
«Sì.» Luisa tremava da capo a piedi come una foglia al soffio della bufera.
«Avete denaro?»
Sì, sì, ne avevano del denaro.
«Sta bene. E adesso,» disse Florian — l’orologio al suo polso l’avvertiva che venti dei quaranta minuti erano già passati — «adesso voglio parlare con Chérie.»
«Vado a chiamarla,» disse Luisa, e si mosse trepidante. Quando fu alla porta si volse e l’interrogò cogli occhi smarriti. «Che cosa devo dire a quelle bimbe?... Devo avvisarle del pericolo che ci sovrasta?»
«Subito — ma subito!» gridò Florian; «e mandatele a casa immediatamente.»
«Mio Dio! Mio Dio! Pietà di noi!» singhiozzò Luisa. «E Mirella — cosa farà? Avrà paura — piangerà...»
«Ma no, ma no. La piccola Mirella è coraggiosa più di noi,» disse Florian. Poi, come Luisa singhiozzava ancora andò da lei e le mise il braccio attorno alle esili spalle. «Su! coraggio, mia piccola madrina,» e si piegò sopra di lei con tenerezza fraterna a baciarle la guancia pallida.
Luisa, singhiozzando, uscì.
Florian rimase solo per pochi istanti. Udì che il canto di sopra si arrestò improvvisamente. Indi dei passi rapidi e leggeri scesero correndo le scale. La porta s’aprì e Chérie apparve sul limitare.
Florian indietreggiò, e gli si fermò il respiro. Ma come! Questa visione d’incanto, questa pura bellezza nei bianchi, ondeggianti drappeggi — era Chérie? la sua piccola amica Chérie? Ma come, come mai si era essa così trasformata dalla bambinetta scontrosa ch’egli aveva sempre conosciuta, in questa eterea beltà floreale?... Chérie ben s’avvide della sua meraviglia, e ristette ferma sulla soglia; timida, si velava le lattee spalle con una sciarpa vaporosa che le fluttuava intorno e le dava come un’aria di volo. I suoi limpidi occhi erano levati a lui larghi di azzurra e divina innocenza.
Un brivido scosse l’uomo che la guardava — un brivido di presciente orrore. Non erano già vicine le orde nemiche, briache di sangue e di ferocia? Non stavano già aprendosi con violenza la via verso questo fiore verginale? Ed egli doveva lasciarla! lasciarla, sola, alla mercè della loro brutalità? Di nuovo il brivido terribile lo scosse; mentre quei limpidi occhi ingenui lo fissavano, sorridenti.
«Chérie!» diss’egli con voce rauca. «Chérie!» La trasse a sè, le alzò il viso delicato e guardò profondamente dentro l’azzurra meraviglia dei suoi occhi.
Essa non parlò; nè ebbero un battito le sue ciglia. Offerse allo sguardo di lui tutta la trasparente profondità della sua anima. Ed egli ripetè ancora quella sola parola: «Chérie!...»
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I quaranta minuti erano passati. Vi fu un affrettato congedarsi, un’ultima agitata parola di avvertimento e monito; poi con un tintinnio di speroni Florian era corso giù per le scale e s’era slanciato in sella.
Girò la testa del cavallo, che s’impennava, verso il Nord, e levò lo sguardo alle finestre.
Sì, erano tutte là a fargli cenno d’addio! Tutte vicine, le teste bionde e le brune; gli occhi ceruli e gli occhi neri lo seguivano....
«Ricordatevi,» gridò ancora Florian a Luisa, «ricordatevi — dovete partire domattina all’alba! Domattina all’alba!» E ancora mentre parlava, quell’indicibile brivido lo riprese. Era forse un presagio di ciò che l’indomani avrebbe recato? Era forse una visione di ciò che la tragica e sanguinosa aurora teneva in serbo per coloro ch’egli lasciava, sole nella loro indifesa bellezza e gioventù?...
Spronò il cavallo e partì.
Giunto in fondo alla strada egli si girò in sella un’ultima volta a riguardare la casa; vide che Chérie era corsa fuori sulla terrazza e stava lì, ritta e bianca come un giglio nella luce lunare.
Egli levò in alto la mano in segno di saluto. Poi si volse e partì al galoppo.
Via! — via nella notte, via verso i tonanti cannoni di Liegi e i sanguinanti campi di Visé! Via, portando con sè quella visione di candida e delicata bellezza.
E ripensò che non le aveva detto una parola d’amore, nè le sue labbra avevano osato toccare quelle di lei. No; la sua purità eterea lo aveva intimidito; il nimbo della sua virginale giovinezza era intorno a lei come un’armatura di neve....
Così — così egli la lasciò: pura, fragile e dolce, bianca come un giglio, veduto in un giardino sotto la luce lunare...
Così — così egli la lasciò.