Uomini e paraventi/Capitolo VII

Capitolo VII

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Ryūtei Tanehiko - Uomini e paraventi (1821)
Traduzione dal giapponese di Antelmo Severini (1872)
Capitolo VII
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Capitolo VII.



Quasi nello stesso momento arrivava Saizo di casa Tocuvaca, e tutto guardingo parve domandare con gli occhi: «Ebbene! va tutto in regola?»

Misavo, come per dirgli «Entrate pure,» si toccò il petto col mento.

L’altro allora, per farsi credere un pezzo grosso, dopo un sonoro colpo di tosse, mandò fuori un «Olà! è permesso?»

[p. 46 modifica]«Chi sarà mai che domanda di entrare? — Abbia la degnazione di accomodarsi!»

Sentendo che Misavo assumeva quel tuono cerimonioso, come con un personaggio sconosciuto, Saizo, contenendosi a stento dal ridere, affettò quel medesimo tuono: «La persona che Le sta dinanzi appellasi Tocuvaca Saizo, Samurai del principe Fanguan Jenia. Essendo questo il giorno irrevocabilmente fissato alla solenne presentazione di madonna Misavo, io, conformemente alle ingiunzioni della prima ispettrice degli appartamenti segreti, signora Iva Fugi, sono venuto a prenderla in bussola — oh! benedetto sia! ma che bussola! io voleva dire che mi son fatto lecito di presentarmi espressamente a Vossignoria, per pregarla di [p. 47 modifica]volersi adagiare in una sontuosa e splendida lettiga, tutta scintillante di chiavi a testa dorata. Si compiaccia Ella dunque di fare con sollecitudine i suoi apparecchi.»

Mamma Cúcciva, che dalla sua alcova non avea perduto una sola sillaba di questo bel discorso, non sapendo scoprirvi incoerenze, e prendendolo anzi sul serio, tirò da un lato il paravento che la nascondeva, e si fece a dire: «Così dunque voi sarete ammessa ad un’udienza d’onore per assumere fin da questo giorno un nobile ufficio nella famiglia di un principe?»

«Così è, mia buona madre. Mia sorella Fanajo e il signor Tofei mi avevano già dato da un pezzo il loro consenso; ma, per non recare a voi un disturbo di questo genere nel colmo della malattia, si [p. 48 modifica]è creduto bene di procrastinare fin qui.»

«Che dite mai, gentil signorina? non v’era ombra di ragione per questo. Mi resta sempre mio figlio Tofei. E la nuora Fanajo, per quanto non sia stata verso quelli di sua famiglia troppo buona fanciulla, con me finora si è sempre condotta da figlia amorevole e rispettosa. O perchè dunque voi non avreste dovuto fare quel che meglio vi conveniva? Per noi certo non v’era nulla più prezioso e più caro della vostra persona; e mi par tempo perduto anche a dirlo: ma il sapervi in questa povera casa come un pesce fuor d’acqua, vi dirò che formava il mio struggimento. Così fosse stato prima! Anche un giorno solo era tanta pace di più per questa povera vecchia. [p. 49 modifica]E dire invece che voi non ci potevate pensare senza accorarvene per amor mio! — Ma parliamo d’altro. Mi dica, Signore, la residenza del principe Fanguan dove si trova?»

A questa domanda Saizo rispose con molta gravità:1 «La residenza principale è in Val d’Afuchi, cioè.... propriamente... in quel di Camacura, passata di poco la provincia di Faccu.... Sicuro! là precisamente. Ma in questi ultimi tempi, stante la mal ferma salute della principessa, Donna Cavojo, per lo meglio di [p. 50 modifica]lei abbiamo preso stanza a Javatahen. Non c’è là quel passo detto di Jamazaki? Ebbene, prendendo a sinistra, si trova la residenza del principe Fanguan. E poi, quando siete là, basta domandare, che tutti sanno indicarvela.»

Così il pover’uomo, quanto più cercava di correggersi, tanto più s’imbrogliava.

«Per dire il vero, sono stata anch’io da quelle parti: ma non avendo mai veduto codesto castello, nè sentitone mai parlare, Le domanderei, quanto tempo è che l’hanno edificato?»

Stillandosi il cervello, mentre la vecchia parlava, quel disgraziato rispose:

«Eh! da un pezzo, da un pezzo! è un castello antico, antichissimo! un magnifico edifizio che si [p. 51 modifica]direbbe innalzato dagli spiriti, costruito l’anno decimo di Miroc.»2

«Chi sa quanto sarà grande!»

«Grandissimo! immenso! La sala di ricevimento poi! Oh se aveste occhi per vederla! V’avete a figurare cinquecento metri quadrati di tappeto con guarnizione di damasco, altri cinquecento guarniti di broccato, altri cinquecento di seta coreana: in tutto mille e cinquecento metri quadrati di tappeto, fscih!... in un batter d’occhi ve li vedete sciorinare davanti!»

[p. 52 modifica]Fuori di sè dalla contentezza di averne pensate tante, inventando ogni cosa, tranne il suo proprio nome, Saizo incominciò a dirittura a saltare.

Vedendo questo, Misavo s’interpose come attenuata: «Per carità, mamma, non prendete aria, che potrebbe farvi malissimo. Presto, presto, qua dentro.» E, presala per mano, la ricondusse nell’alcova, rimettendo il paravento al suo posto.

«Ora, che vestito mi metterò?» disse ad alta voce; ma senza neppure aggiustarsi un poco la pellegrina che già indossava, si ravviò alla peggio le trecce, mentre Saizo da una lunga borsa in forma di cintola cavava fuori i cento riô. Misavo gli diede la scritta di consenso, prese in mano il danaro, e, [p. 53 modifica]dopo essersi guardata attorno, l’unì ad una lettera che aveva già scritta a dichiarazione della sua volontà, e il tutto riposa nella scatola in forma di cane, che era sempre là fra i balocchi di Cojosci.

«Ebbene, mia buona madre, io vi saluto. Abbiatevi ogni cura, vi raccomando.»

Mamma Cucciva a quelle parole non potè trattenersi nell’alcova, e venendo fuori a tastoni: «Ah! dunque partite già? Per un’occasione come questa d’oggi figuriamoci quanto vi sarete fatta bella, e che magnifica muta di panni! Oh potessi vedervi, mi basterebbe con un sol occhio!... ma questi sono discorsi inutili, cieca mia!... Andiamo, fatemi almeno sentire a tasto.» E così dicendo, si accostava in atto di palpare.

[p. 54 modifica]Misavo, sbigottita, ebbe pure in quel frangente un dio dalla sua.

Era nella stanza un tabernacolo di Budda, e penzolone sul dinanzi di questo una specie di paliotto di seta a fondo nero con rabeschi d’antico disegno. «Che fortuna!» pensò fra sè, e, staccata in un baleno quella stoffa, se l’adattò sulle ginocchia, e, lasciò scorrer sopra liberamente le mani della cieca.

Questa, atteggiandosi ad un sorriso, «Ora sì!» disse, «ora sì che posso chiamarvi la signora figlia del signor Cazmura Teidafu. Adesso dunque fate di regolarvi a modo in ogni cosa: riguardatevi dal troppo caldo come dal freddo; questo già non occorre dirlo; ma badate anche ai nuovi cibi che d’ora innanzi vi saranno imbanditi. Vi stia sopra [p. 55 modifica]tutto a cuore l’adempimento dei vostri doveri, senza però che ne vada la vostra salute.»

Mentre la giovinetta, venduta come una schiava, era sul punto di partire, e l’infelice vecchia se ne consolava tutta, uscì da una porta laterale la piccola Cojosci, e vedendo quel paliotto sulle ginocchia di Misavo, nella sua ingenuità, si mise a gridare: «Guarda, guarda! che ridicolo grembiule è quello che...»

Misavo non la lasciò finire, e per chetarla interruppe: «Sì sì, con coteste mie robe, che ti sei messa in dosso, tu vuoi venire in gara con me, non è vero? Ma già oramai pensa che sei bella grande anche tu: e però ti devi mettere al posto mio.... Anzi sentite, mamma Cucciva, faremo così: tutti questi [p. 56 modifica]balocchi li manderete in regalo a qualche ragazzetta o a qualcuno di quei bambocci che stanno dai frati.»

A sentirsi fare questo discorso senza un motivo al mondo, la povera Cojosci, come le avesse preso un male alle gambe, immobile, e solo girando gli occhi da tutte le parti, senza neppure arrischiarsì a dire «Oh,» sbigottita e confusa interrogava gli sguardi ora di Misavo, ora di Saizo. Questi allora tossì di nuovo per darsi importanza, e riprese; «È già tardi: lontano dal castello, qual che ne sia la cagione, io mi trovo a disagio. Orsù, dúnque, in lettiga.»

Ad un invito così formale Misavo, nascondendo le lacrime, si accomiatò frettolosamente, e movendosi per uscire, con un piccolo [p. 57 modifica]cenno di mano chiamò a sè Cojosci: «Quando fra poco ritorneranno il babbo e la mamma, naturalmente ti domanderanno di me. Tu allora prenderai questo libro rosso del Babbo di Fana-zachi, e, come t’ho insegnato ogni sera, ti farai sentire a spiegare nel solito modo quel che rappresentano queste figure qui: così essi potranno sapere dove io sono andata. Mi ti raccomando, non te ne dimenticare.»

Qui volgendosi e rivolgendosi, guardava indietro, e non le reggeva il cuore di allontanarsi; finchè a bassa voce disse a Saizo: «Dio sa, padrone, come sarete annoiato d’aspettar tanto!»

«No, no, dell’aspettare non dico nulla; ma dover discorrere in punta di forchetta, per me è roba [p. 58 modifica]da morire. Dunque spicciamoci e addio!»

Così dicendo, spinse Misavo in bussola; e via di buon passo.


Note

  1. La risposta di Saizo è un mescuglio di errori geografici e nomi storpiati, dei quali però la vecchia Cucciva non s’accorge. Saizo parla come chi dicesse: «Questo castello si trova in Val di Nievole, cioè nel Bergamasco, a poca distanza dalla Bazillicata, ec.»
  2. Saizo crede che Miroc sia il nome di qualche antico imperatore, e la povera cieca lo accetta per tale. Ma questo è il nome del Budda che deve ancora venire. Il discorso di Saizo è dunque simile a quello di chi dicesse fra noi: «Un castello antichissimo, fabbricato qualche anno dopo la venuta dell’Anticristo.»