Uomini e paraventi/Capitolo VIII
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Capitolo VIII.
Ignaro dell’accaduto il padrone di casa, Tofei, se ne ritornava con una cert’aria affannata. E con gli occhi a terra guardando di qua e di là, quando fu all’imboccatura della scala, «Maledetta!» disse, raccattando la pipa che aveva smarrita; «nel venire in qua avevo voglia di guardare! Credevo che mi fosse caduta per via, e invece eccola qui. In conclusione non v’è al mondo più sciagurata pianta di quella che ci dà questa foglia. Quanto tempo si perde in grazia del tabacco!»
Dopo queste parole pronunziate a bassa voce, «Ehi, mia buona madre,» disse, «siete desta, non è vero?»
«Altro che desta! Un momento fa è venuto un messo dal castello dei signori Jenia con incarico di condurre Misavo alla presenza di quei signori, e ai servigi di quella nobil famiglia. Non v’era in casa nessuno che le desse una mano per abbigliarsi, e però s’è rassettata come ha potuto da sè. È partita in una lettiga tutta imbullettata: come non vi ha dato nell’occhio incontrandola per via?»
Tofei, non vedendo niente chiaro in tutto questo discorso, rispose: «Se le cose stanno come voi dite, per quanto inutile si fosse potuto credere il consultarmi, ad ogni modo, in un caso simile, avrei dovuto essere interrogato. Per che ragione tacere?»
Sebbene Tofei facesse questa domanda con voce molto alterata, la madre rispose ridendo: «Voi e vostra moglie avevate già dato il vostro consenso da un pezzo. Così mi ha detto Misavo; e come volete ch’ella se lo immaginasse? Voi ve lo sarete dimenticato, ed ora ve ne stizzite.»
«Niente affatto! Com’è vero che mi chiamo Tofei, vi giuro che non ne sapevo nulla. — Ah!... ora che ci penso.... quella bussola che ho veduto per istrada.... a poca di stanza da me le tendine si sono abbassate... Perchè: tutta quella fretta di nascondersi?... Comunque, la cosa non è liscia. Ora gli corro dietro.»
E partiva in furia; ma la figlietta Cojosci gli s’era già messa fra i piedi: «Sentite, babbo, se volete sapere dov’è andata la mia cugina, ve lo posso dir io.»
«Andiamo! L’hai tu dunque sentito co’ tuoi propri orecchi? Ebbene, dov’è? Presto, dimmelo, dimmelo!»
Benchè il padre mostrasse tanta ansietà, Cojosci con tutta la grazia d’una fanciulla che non sa quel che siano pensieri, aperse e spianò il libro rosso che già s’avea messo vicino, e incominciò:
— C’era una volta.... —
«Ma, bambina mia, così tu non mi dici nè il qua nè il là nè il dove,» interruppe il padre impazientito; «mi preme assai di saper dov’è andata la tua cugina Misavo: su via, bambina, sii buona, fammelo sapere, dimmelo subito.»
«Sì, babbo mio; la cugina m’ha detto così: spiegando questo punto del libro rosso, tu farai sapere dove io sono andata. Dunque mettetevi giù e statemi a sentire:
— C’era dunque una volta un padre di famiglia chiamato Bonomo, che dopo aver salvato la vita ad un cagnolino,1 se lo teneva assai caro, e lo allevava con ogni premura. Quando il cane fu divenuto grande, comparve in sogno al suo padrone e gli disse: «Domattina uscendo insieme con me, dove io mi rivoltolerò, voi scavarete la terra per vedere quel che v’è sotto.» Pensando sempre a queste parole, il padrone si riscosse finalmente dal sogno, che già albeggiava; prese il cane in sua compagnia ed uscì fuora. Dove lo vide rotolarsi scavò il terreno, e, fra piccole e grosse, trovò tante di quelle belle monete, che in un momento la sua fortuna fu fatta. —
Cojosci, benchè non avesse scioltezza di lingua, venne pur finalmente a capo di recitare la sua storiella, ma il padre n’ebbe più che mai la testa confusa: «Come c’entra tutto questo? Io non ne so cavare un costrutto. In qualunque modo, per conoscere come stanno le cose, la più spicciativa è di raggiungerla.»
Nell’alzarsi con impeto per correr dietro a Misavo, diede inavvertitamente de’ piedi nella scatola in forma di cane, e.... «Guarda, guarda, quante monete! Ora intendo! — Dove il cane si rotolerà, scapperà fuori danaro. — Rotolandosi la scatola in forma di cane, n’uscirà fuori del danaro: — ecco la spiegazione che in questo caso doveva darsi all’indovinello. — Ma qua dentro v’è anche una lettera. Vediamo: Ai signori conjugi Fanajo e Tofei. Addio di Misavo. — Ah! non ci vedo chiaro!»
Mentre Tofei stava rompendo il sigillo, la madre Cucciva domandò: «Che c’è? una lettera della signorina Misavo? Leggetela, e fatemi sentire quel ch’ella dice.»
Tofei, vedendo la madre che s’era messa là tutta orecchi, spiegò la lettera e se la rigirò fra le mani più volte, in grande apprensione. Tuttavia, sforzandosi di dare alla voce un tuono allegro, fece sembiante di leggere quel che segue:
— Non vi prendete pensiero di me: vi raccomando invece caldamente di aver a cuore gl’interessi de’ miei genitori. Se la malattia che ora vi affligge volgerà in meglio, venendo a Camacura, dove io mi reco, fatemi avere le notizie della vostra salute. Anche se a voi piacesse, non credo pur troppo che potrei tornare fra voi. Siccome vado immediatamente a stabilirmi nella residenza di questi signori, finchè non sarò di ritorno alla casa paterna, al termine dell’impegno che ho preso, non ci potremo più rivedere. — «Questo è il contenuto della lettera che ha lasciato per noi la signorina Misavo. Ma voi, madre mia, a questa corrente di aria vi rovinerete la salute. Andate dunque a fare un buon sonno.» Così Tofei la ricondusse all’alcova, e richiuse le imposte.
Immerso quindi in angosciosi pensieri, senz’avvedersene, prese a dire fra sè: «Ah signorina Misavo, di che dolore m’è causa la vostra eccessiva commiserazione! Per quanto poteste nascondere il viso sotto le larghe tese del cappello di giunco, andar voi, voi, tutti i giorni a dimandar l’elemosina in un luogo di così gran concorso, com’è la Rotonda meridionale! Ma che potevo farci io che ero all’oscuro di tutto? Disgraziata! Io pensava fra me: quel buon cuore, con cui per sollievo della nostra povertà cedete a noi le sovvenzioni che vi vengon di casa, vi sarà un giorno rimeritato ad usura. E però, facendo vista d’ignorare la cosa, io vi adorava nel mio segreto. Ma invece era già insopportabil vergogna ciò che voi avete fatto fin qui. Mettendo poi a prezzo la vostra stessa persona, Dio mio! a qual vita vi riducete!»
Qui, affranto dal dolore ed accecato dalle lacrime, si gettò a sedere; mentre la moglie, arrivata forse un momento prima, e soffermatasi all’uscio per sentire se tutto in casa era tranquillo, udiva le ultime parole di lui, ed entrava dicendo: «Che sventurati! Misavo dunque si è recata in un luogo di mala fama?»
«Pur troppo! In questa lettera,» e gliela gettava fra le mani, «tutto è detto in poche parole. Leggetela, in modo però che mia madre non vi senta, e vedrete.»
Fanajo prese la lettera, la spiegò lentamente, e lesse:
— Poche righe, e senza quelle espressioni di rispetto che dovrei usare. Fino ad oggi io vi ho tenuta nascosta la verità. Dandovi a credere che ogni giorno mi recava in compagnia di Cojosci a pregare nel tempio della Rotonda innanzi all’idolo di Cuanòn, io m’allontanava invece da casa per accattare quel po’ di danaro, che poi facevo passare per sovvenzioni provenienti dal mio paese. Questo, per quanto poco, era pure d’un qualche soccorso alla vostra indigenza, ma non bastava a conseguire il fine che io m’era proposta. E però prevedendo che, a continuare in cotesta incertezza di vita, voi sareste giunti allo squallore della miseria, non ho potuto reggere a tal pensiero, ed ho preso la determinazione di vender me stessa, in qualità di cantante e ballerina, al proprietario del ritrovo di Scima-no-ucci presso Nániva, per la somma di cento riô. Con questo danaro avrete comodi mezzi di curar la salute di mamma Cucciva. Qualunque sia l’uso che siate per farne, e per quanto poco esso sia, presto potrete metter mano a qualche negozio. Allora, se vi riuscisse di far degli avanzi, vogliate mandarli ai miei, a Camacura. Ridotti improvvisamente i miei genitori alla condizione di raminghi, vi lascio considerare in quali angustie si troveranno. Con rispetto vi saluto. —
Tofei, contenutosi a stento fino al termine della lettura, prese su dispettosamente quel danaro, e si mosse per partire; ma Fanajo, afferrandolo per la falda del vestito, «Dove andate» gli disse «con quell’aria così risoluta?»
«Potete ben figurarvelo. A restituire questo danaro, e reclamare....»
«Inutile, inutile. Una volta regolata la cosa per iscritto, anche a riconsegnare la somma pattuita, anche a raddoppiarla, è legge che non si possa pretender subito alcuna restituzione. Io non avrei mai voluto che questa mia nipote si riducesse ad un mestiere servile; ma ora che la cosa è così, ora che disgraziatamente non v’è riparo, io direi che si dovesse stare ai termini di questa lettera, far capitale di questo danaro, lavorare senza remissione, e venire a capo di formarci uno stato. Quanto al riscatto di Misavo, non v’è altro mezzo che aspettare, finchè mia sorella e suo marito possano mandare dei soccorsi.»
Con questi e simili ragionamenti potè Fanajo calmare e persuadere Tofei. Alla vecchia madre naturalmente seguitarono a dire che Misavo occupava un posto onorifico nella casa d’un nobile a Camacura: e prodigando alla povera illusa sempre maggiori attenzioni, ora che avevano a sufficienza di che procurarle certi agi e certe cure, in poco tempo la videro assai migliorata del suo mal d’occhi: e come fu tanto in forze da non aver quasi più bisogno d’appoggio o di guida, i due conjugi mossero da Nara per Naniva, nella provincia di Sez, e si stabilirono a non molta distanza da Scima-no-ucci, dov’era andata Misavo.
Questa nel darsi al mestiere di ballerina aveva mutato il proprio nome in quello di Comàz. Bella com’era, e dotata d’accortezza e d’abilità, presto fece straordinaria fortuna: e poichè aveva l’abitudine di mettersi nell’acconciatura del capo due pettini in luogo di uno, com’è l’uso di tutte, le fecero di ciò un soprannome; e la chiamavano Gomàz Dai-due-pettini.
Sachicci, il mercante di riso, perduto che ebbe di vista Misavo, e disperato di rintracciarla, se ne ritornò anch’egli al suo paese di Naniva:2 e siccome, per curarsi di quel suo malore, continuamente si recava qua e là a diporto, e commosso alla bellezza delle stagioni, ne diveniva così estatico ammiratore da prendere per sua divisa i tre simboli della Luna, della Neve e dei Fiori; non si sa da qual parte, ne venne anche a lui un soprannome, e tutti lo chiamavano Sachicci Dai-tre-simboli.
Ma quantunque i due amanti dimorassero nella stessa terra di Naniva, con tanto andare e venire di gente, quant’era in quel paese, il girovago Sachicci non s’era mai fino ad ora imbattuto in Misavo.
CINQUE ANNI DOPO.