Una peccatrice/Capitolo nono
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IX.
Un’ora del mattino suonava lentamente all’orologio del salotto nel grazioso casino che abitavano i due giovani. Narcisa, pallida del suo delicato pallore di cera, coll’occhio brillante di un inusitato splendore che avea dei lampi di felicità, vestita di bianco, il suo colore favorito, sebbene la stagione fosse alquanto inoltrata, coi capelli raccolti mollemente dentro una reticella di seta ed arricciantisi sulla fronte quasi sino alle sopraciglia, con quella moda ardita che ricordava le più belle teste delle statue greche, stava seduta abbandonatamente sopra un canapè, accanto a Pietro, nella sua attitudine solita; allacciandogli il collo con le sue belle braccia; figgendo avidamente gli occhi negli occhi di lui, ascoltando le sue parole; e sembrava deliziarsi nella trasparente e profumata atmosfera che le mille sensazioni di quel momento le creavano.
Giammai la donna amante avea sussultato di tale amore fra le braccia dell’uomo amato; giammai la sirena si era abbandonata più molle, più languente; giammai la maliarda avea avuto sguardo più inebbriante da fare oscillare convulsivamente le più intime fibre del cuore di lui. Sembrava che qualche cosa di più che mortale eccitasse in lei tutte le più squisite risorse, le ispirazioni più ardenti della donna affascinante, della donna ebbra anch’essa di questa voluttà che ispirava e che cercava, per formarne un fascino irresistibile, divorante.
L’occhio di Pietro era raggiante; la sua parola interrotta a scosse come per delirio; le sue membra tremanti di sovrumano diletto. Egli suggeva avidamente coi baci per la fronte, pei capelli, per le labbra, per gli occhi, pel collo quelle emanazioni acri e violente di una voluttà insaziabile, che eccitava il godimento sino al delirio...
— Oh! Narcisa! Narcisa! — esclamava egli come un pazzo, — Narcisa di Napoli... di Catania!... t’ho trovata alfine! sì, t’ho trovata!!...
Tutt’a un tratto quel corpo affascinante di mille seduzioni ebbe un fremito che non seppe reprimere, e quasi una dolorosa contrazione.
Pietro l’abbracciò più strettamente, come ebbro... poichè lo scambiò per un fremito di piacere.
— Che io ti vegga, Narcisa! — esclamò egli colle mani giunte, inginocchiandosi sul tappeto, come se avesse voluto adorarla: — oh! ch’io possa vederti!... Perchè nel tempo istesso che io provo questo godimento supremo, che mi comunico il tuo corpo da fata fra le mie braccia, non posso analizzarti col mio sguardo, ed assorbire quell’altra ebbrezza sublime di divorare le tue bellezze?...
Egli si tacque, sorpreso, allarmato dal pallore che copriva i delicati lineamenti di lei, che tradivano qualche lievissima contrazione spasmodica: e che cominciavano a bagnarsi di fredde stille di sudore a fior di pelle alla radice dei capelli.
Narcisa, come per nascondergli quel triste spettacolo inebbriandolo fra le sue carezze, lo attirò fra le sue braccia, baciandolo del suo bacio languido e divorante nella sua molle seduzione; e posò il suo viso sul volto di lui, mischiando i ricci dei suoi capelli ai suoi...
— Che hai, Narcisa? — le gridò Pietro spaventato dal freddo sudore di cui gli inumidiva il volto il contatto di lei.
— Oh, nulla!... È la felicità!... è la gioia suprema che provo... che sembra farmi svenire... Oh! come son felice!... Dio mio! come son felice!...
Mentre quella testolina ricciuta si posava sulla sua, Pietro la sentì farsi più pesante sulla sua spalla.
— Narcisa!...
— Oh, qual felicità, Pietro!... Mi pare di aver sonno... di dover sognare questi squisiti diletti... Avevo tanto sofferto!... Adagiami sul canapè... e suonami qualche cosa sul pianoforte... Provo delle sfumature sì care... dei sogni incerti sì belli!... Oh, Pietro, se li provassi anche tu! Mi pare di dover godere di più con quei suoni tratti da te...
La sua pupilla era prodigiosamente dilatata; ma lo fissava ancora coi raggi più vivi del suo sguardo.
Pietro s’inginocchiò ai suoi piedi; ella ebbe il coraggio di cambiare in un sorriso la contrazione di spasimo dei suoi labbri.
— Suonami il valtzer... Il Bacio... fammi contenta...
Pietro esitava.
— Ma che hai? Dio mio! sei pallida da far paura...
— È nulla, ti dico... è l’eccesso della gioia, della felicità... Son tanto felice, mio Pietro!... Fammi questo piacere, suona quel valtzer... che mi domandavi sempre... — E giunse le mani con atto infantile di preghiera.
Pietro cominciò ad eseguire quella musica che faceva la più strana impressione in mezzo al silenzio della notte (nella mestizia che, suo malgrado, cominciava ad offuscarlo), ascoltata da quella donna coricata sul divano, che giungeva le mani; della quale i tratti, sussultanti di quando in quando, sembravano assorbire le vibrazioni come delle care reminiscenze; della quale gli occhi si dilatavano colla pupilla di una spaventevole fissazione; della quale infine le labbra si aprivano anelanti come a bever l’onda di quell’armonia, in mezzo alle contrazioni spasmodiche che non poteva dissimulare; nel silenzio quasi lugubre di quel salotto, che cominciava ad esser rotto dall’anelito affannoso e soffocato della respirazione di lei.
Ella si era alzata lentamente, come attratta da quel suono; cogli occhi come affascinati da immagini che ella sola poteva vedere... E si era trascinata barcollante, stendendo le mani tentoni, come se non vedesse più, verso il punto dove risuonavano quelle note festanti. Ella vi giunse, anelante di fatica e di piacere, e si aggrappò alla spalla di Pietro per non cadere, gridando con accento indescrivibile:
— Oh! Pietro! Pietro!... dove sei?!...
E cadde inginocchiata.
Le sue pupille azzurre, chiare, quasi fosforescenti, si fissavano in volto a lui, senza sguardo, come cercandolo; e allorquando sembrò ch’ella non potesse rompere quel velo che le annebbiava la vista, che le impediva di pascersi nelle sembianze di lui, i suoi lineamenti, che cominciavano a contrarsi, espressero l’angoscia... un terrore nuovo, incomprensibile.
— Oh, Dio! Dio mio! — singhiozzò agitando le labbra convulsivamente, come se stentasse a trarre quei suoni dalla sua gola arida e ad articolarli colle sue labbra tremanti: — Oh! Dio!... sì presto! sì presto!...
E quando incontrò gli abiti del giovane, le sue mani increspate cercarono brancolando le mani di lui, che strinsero avidamente, con tenace ostinazione, quasi temessero di lasciarsele sfuggire.
La pelle del suo viso si era fatta arida, e le vene cominciavano ad iniettarsi di sangue. Pietro, stordito, spaventato, afferrò il cordone del campanello.
— È giunto il signor Angiolini: — disse un domestico sulla soglia.
— Presto! presto! che corra... soccorso! Ella muore! — gridò Pietro.
Sollevò quel bel corpo, fattosi di un’inerte pesantezza, fra le sue braccia, stringendovelo con una furibonda tenerezza, e lo coricò sul divano. In tutto quel tempo le mani convulse di lei cercarono ancora le sue; e quando le trovarono fecero atto di recarsele alle labbra, fissandolo sempre di quella pupilla cerulea, dilatata, senza sguardo.
Si udirono dei passi precipitati, e comparve Raimondo, che veniva a prendere Brusio per condurlo da sua madre, come Narcisa ne avea avuto sentore. Con un solo sguardo egli vide di che si trattava, e senza perder tempo in domande inutili, corse da lei, distesa sul divano, e le prese il polso.
Le pulsazioni erano deboli, lente, mancanti; osservò la pelle arida, picchettata in alcuni punti delle braccia di bollicine incolori; il volto acceso e che cominciava a farsi livido; gli occhi fissi che operavano uno sforzo prodigioso per non cedere alla pesantezza delle palpebre, onde fissarsi ancora su di Pietro, quantunque non lo vedessero più. Toccò vivamente la regione epigastrica che tradì uno spasimo acuto.
— Hai in casa dell’emetico? — domandò vivamente Raimondo al suo amico, rizzandosi con la pronta decisione che dà l’intuizione al medico di genio, e che lo fa sollevare e dominare in tali momenti.
— Oh no!… Dio mio!…
— Un momento! Avrete almeno questo; — e spezzò il cordone del campanello, strappandolo con violenza.
— Recate un bicchiere d’acqua e del sapone, e preparate due tazze di caffè molto carico e senza zucchero; subito! — ordinò al cameriere che comparve.
— Bisogna che tu passi nell’altra stanza; — soggiunse quindi rivolto a Brusio che sembrava di sasso.
Narcisa, che udì forse e comprese quelle parole, strinse più vivamente le mani del giovane, quasi volesse attaccarsi a lui.
— No! no! — singhiozzò Pietro cadendo inginocchiato dinanzi al canapè; no! io non la lascerò un minuto… Io sarò forte, Raimondo!
Il medico si strinse con impazienza nelle spalle, e tentò di far bere a Narcisa il bicchier d’acqua che gli avevano recato ove avea sciolto del sapone.
Ella ne inghiottì avidamente due o tre sorsi, afferrando il bicchiere come se avesse voluto aggrapparsi alla vita che sentiva sfuggirle; provò qualche movimento di vomito, che rimase senza effetto; e ricadde pesantemente sul canapè mormorando:
— Oh! la vista!... Dio mio! la vista!... vederlo almeno!...
E due lagrime luccicarono sulla sua orbita. I suoi lineamenti erano orribili di questa lotta penosa che cercava vincere e dissimulare con isforzi sovrumani.
Raimondo, che aveva preso la testa di lei fra le sue braccia, un minuto dopo la lasciò ricadere sul cuscino, resa di una cadaverica pesantezza; e rimase muto, disanimato. Poco dopo mormorò, come parlando a se stesso:
— È l’oppio in forti dosi... Ora il delirio... dopo la coma...
— Che sete! Dio mio, che sete! — mormorava Narcisa colla voce secca, stentando a disnodare la lingua, legata da una spaventevole aridità; — acqua! per pietà, Pietro!... acqua!...
Raimondo le fece inghiottire quasi tre tazze di caffè amaro.
— Che fare? Dio!... che fare? — gridava Pietro implorando, con l’accento del cuore, da Raimondo quell’aiuto che questi non poteva dargli mentre aveva chinato la testa sul petto, come se avesse voluto dire: troppo tardi!
La fisonomia di Narcisa si animava come se contemplasse deliziose visioni che il suo occhio sbarrato e fisso poteva vedere soltanto. Ella mormorava frasi interrotte, appena sensibili, in cui spesso le sue labbra si agitavano come per sorridere. Una o due volte sembrò riscuotersi bruscamente, con un senso penoso... e allora i suoi tratti esprimevano un immenso affanno... in cui ella mormorava:
— Oh, Pietro!... il valtzer!... il valtzer!...
Pietro che aveva soltanto la forza di bagnare di pianto le sue mani che si teneva alle labbra, gridò singhiozzando:
— Ma salvala, Raimondo!... fratello mio!... Non vedi che muore!... Bisogna che ella non muoia!... Non voglio che ella muoia!...
Tutt’a un tratto Raimondo corse al pianoforte, come cedendo ad un’ultima e subitanea ispirazione; lo strascinò sulle sue carrucole sino al canapè dov’era sdraiata l’agonizzante; sollevò questa fra le sue braccia, perchè le braccia di lei potessero ancora circondare il collo di Pietro che non volevano abbandonare; e disse a Brusio che sembrava istupidito:
— Non c’è più che un miracolo che possa prevenire la coma, che possa salvarla: bisogna prolungare questo delirio per dare il tempo di operare all’infuso di caffè... Suonale quello che vuole... Ci son dei casi in cui la scienza bisogna che ricorra all’arte o al caso.
Pietro cominciò a suonare quel valtzer allegro e brillante, di cui le note acquistavano la più triste inflessione sotto i suoi diti increspati e tremanti, e che strillavano sinistramente in mezzo al funereo silenzio di quella stanza.
Due o tre volte le labbra di Narcisa sorrisero; i suoi lineamenti perdettero la loro rigida alterazione per esprimere il piacere più intenso che quel suono certamente le procurava o che determinava i sogni deliziosi del suo delirio... Ella stringeva più fortemente, sebbene con moto convulso, quella testa che abbracciava; e qualche volta i suoi labbri si agitarono come per baciare; e il suo capo si avanzava tentoni come se avesse voluto incontrare quello di lui;... e la sua pupilla appannata, vitrea, fissa, ebbe un lampo, un raggio di uno sguardo in cui balenava tutto l’ineffabile amore che l’agonia non poteva assopire in quel cuore.
— Oh! Pietro! Pietro!... ti vedo!! — gridò esultante; con un accento indescrivibile che avea più dell’urlo dello spasimo che del trasporto della gioia; — m’ami?!... m’ami tu?!!!...
E si rovesciò assieme a lui sul canapè vincendo, con uno sforzo disperato, miracoloso, la difficoltà di proferire, il torpore della mente, l’inerzia delle forze, l’agonia insomma.
— Pietro, m’ami ancora?!
— Sì! sì! t’adoro!... — singhiozzò egli tentando inumidire l’aridità di quella pelle coll’umido dei suoi labbri, di scacciare il torpore di quelle membra, la pesantezza di quelle palpebre coll’impeto dei suoi baci; cercando trasfondere la vita che sentiva rigogliosa, giovane, potente in lui, nel soffio che alitava fra le labbra di lei violacee, semiaperte e convulse.
— E non me lo dici perchè hai pietà di me?... e non me lo dici perchè io muoio?!... — seguitò ella aggrappandosi al suo collo, nelle convulsioni dell’agonia, con quel moto incerto e straziante del volto e delle labbra che cercavano il volto di lui per baciarlo.
— Oh, no!... non ti ho mai amato come t’amo!... Narcisa!... Narcisa!... non mi abbandonare!...
— Grazie!... grazie!... — mormorò la moribonda con un anelito interrotto che la stentata respirazione soffocava nella sua gola; — grazie!... oh! la vita!..., dottore, fatemi vivere... egli mi ama!!... io non voglio morire!!! — finì con accento straziante.
E non potè più proferire, quantunque agitasse ancora penosamente le labbra, e alcuni suoni rochi e interrotti scappassero dalla sua gola arida.
Ella rimase come profondamente assopita; riscossa di tratto in tratto da sussulti convulsivi: rivelando mille impressioni, ora deliziose ora tristi, nella mutabile espressione dei suoi lineamenti, in cui l’occhio soltanto, colla sua larga e lucida fissazione faceva prevedere la morte.
Era orribile a vedersi la rapida decomposizione di quella fisonomia. Finalmente sopraggiunse il sonno.
Pietro rimaneva, com’ella l’aveva attirato rovesciandolo nella sua caduta, ancora avvinchiato a quel corpo per tre quarti cadavere, e che aveva tuttavia i suoi ultimi moti convulsivi, gli estremi sforzi dei suoi rantoli, la disperata tensione della pupilla per lui; egli era come affascinato da quell’orribile spettacolo che impietrava le lagrime nel suo occhio ardente e dilatato quasi al pari di quello di lei.
— Ma parti, disgraziato! — gli gridò Raimondo tentando strapparlo a quell’amplesso di morte; — non vedi che ciò ti uccide!...
Pietro non rispose, e abbracciò più strettamente quel corpo inerte; in cui gli parve sentire un ultimo sussulto al suo abbraccio; mentre le mani gli parvero lo stringessero più tenacemente, come per ringraziarlo e non lasciarlo.
Quell’agonia fu lunga, penosa, orrenda. A pena il medico, colla mano sul petto di lei a numerare i battiti del cuore, potè discernere il punto in cui il sonno del veleno si mischiò al sonno della morte.
Pietro rimase istupidito, come un pazzo; per un mese intiero.
Il secondo rivide sua madre; poi gli amici. Un anno dopo ricomparve in società...
Chi sa quante volte al giorno pensa a quest’ora a Narcisa, la donna ch’è morta d’amore per lui?!...
Le splendide promesse del suo ingegno, che l’amore di un giorno aveva elevato sino al genio nella sua anima fervente, erano cadute con quest’amore istesso. Pietro Brusio è meno di una mediocrità, che strascina la vita nel suo paese natale rimando qualche sterile verso per gli onomastici dei suoi parenti, e dissipando il più allegramente possibile lo scarso suo patrimonio.
Misteri del cuore!
Fine.