Un dramma nell'Oceano Pacifico/23. Il re bianco
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Capitolo Ventesimoterzo.
Il re bianco.
Il capitano Hill, sua figlia, il pilota e i tre marinai, rimasero parecchi minuti senza parlare, tanta fu la loro sorpresa nell’apprendere dal selvaggio che un uomo bianco, insignito del grado di re, si trovava in quell’isola. Chi poteva essere costui, giunto in quella terra selvaggia e che a tutta prima sembrava inglese o per lo meno americano? Era un povero naufrago spinto su codeste spiagge da qualche tempesta, oppure un marinaio colà sbarcato volontariamente? Oppure era uno dei forzati fuggiti dalla Nuova Georgia dopo l’odioso attentato?
Questi erano i pensieri che conturbavano il cervello dei sei naufraghi della nave americana.
— Chi può essere? — chiese Asthor, rompendo pel primo il silenzio. — Ah! Come sarei curioso di saperlo!
— Che sia uno dei forzati? — disse Grinnell.
— È impossibile, — rispose Fulton. — Koturè ha parlato di uno solo, mentre loro erano otto.
— Ma possono essere annegati gli altri, — osservò Mariland.
— Lo sapremo, — disse il capitano. — State zitti, e lasciatemi interrogare quest’uomo.
— Sì, sì! — esclamarono tutti.
— Koturè, — riprese il capitano rivolgendosi al selvaggio che pareva ascoltasse con vivo interesse i loro discorsi, cercando di afferrare il vero senso delle parole. — È giovane o vecchio il mio parente di colore?
— Giovane, — rispose l’isolano.
— Ha la barba?
— Sì, e del colore del metallo lucente.
— Bionda vuoi dire. È molto tempo che è sbarcato nell’isola? —
Koturè parve che pensasse un po’, quindi mostrò due volte le dieci dita aperte.
— Venti giorni, — disse il capitano. — Allora quel bianco non è uno dei forzati.
— È evidente, — disse Asthor, — avendo essi abbandonato la nostra nave da pochissimi giorni. Ma chi può essere?
— Sarà qualche naufrago, — rispose Anna.
— Koturè, — riprese il capitano, — come è giunto nella vostra isola quell’uomo?
— È stato raccolto in mare, molto lontano di qui, da alcuni miei amici, — rispose l’isolano.
— E l’avete fatto re?
— Sì, dopo una vittoria riportata contro la tribù del capo Arrou. L’uomo bianco decise la sorte dello scontro, con la sua audacia.
— Io desidero ardentemente di vedere questo mio parente. Se tu mi conduci da lui, ti regalo un fucile e t’insegno il modo di adoperarlo.
— Ti condurrò, — rispose l’isolano.
Essendosi in quel frattempo calmato il mare, ritiratasi la marea, il capitano, Anna e i marinai decisero di riguadagnare la nave per passare colà la notte. Il selvaggio dopo di aver un po’ esitato, li seguì.
La sua meraviglia cresceva ad ogni istante nel vedere i diversi oggetti che ingombravano il ponte e nel mirare la profondità della stiva. Manifestava la sua gioia con frequenti strofinamenti di naso, non risparmiando nè quello del capitano nè quello di Anna. Quello di Asthor era diventato rosso come una peonia chinese, poichè il selvaggio preferiva sopra tutti, il naso grosso del vecchio pilota.
Dopo una notte tranquilla, durante la quale il vulcano continuò a eruttare mettendo sordi boati, che si potevano udire a venti miglia di distanza, i naufraghi e il selvaggio lasciavano la nave per recarsi al villaggio del re bianco.
Armatisi tutti, s’inoltrarono sotto i grandi boschi salendo una grande montagna coperta da fitti alberi. Raggiunta la cresta dopo molte fermate per dare riposo ad Anna ed una marcia di tre ore, si trovarono improvvisamente dinanzi a un villaggio, composto da una sessantina di capanne difese tutte all’ingiro da siepi di spine. Nel mezzo si elevava una abitazione più vasta, più regolare, a due tetti spioventi e che pareva costruita di recente. Si capiva a prima vista che nella costruzione doveva aver avuto parte la mano di un europeo.
La popolazione, composta di tre o quattrocento individui fra uomini, donne e ragazzi, uscì in massa incontro agli stranieri; ma Koturè respinse tutti con vigorosi colpi di bastone, senza badare dove cadevano.
— Andiamo dal re, — disse il capitano alla guida, — e voi altri circondate Anna e armate i fucili.
— Largo! — tuonò il pilota respingendo i selvaggi che si accalcavano attorno al gruppo, non ostante la grandine di legnate. — Attento, Grinnell, spingi e urta Fulton; e tu, Mariland, fa’ posto alla miss. Dannati curiosi!... Eppure il vostro re è un bianco come noi!... —
Procedendo a stento ed a furia di spinte, giunsero finalmente dinanzi alla grande capanna. Proprio in quel momento il monarca, attirato da tutto quel baccano, comparve sulla soglia della porta.
Era un uomo bianco, come lo aveva descritto Koturè, di statura alta, di circa trent’anni, con due occhi azzurri e una barba bionda. Indossava una vecchia camicia sbrindellata, un paio di pantaloni neri in parte sfondati, sorretti da una larga cintura di pelle color d’arancio picchiettata di nero, distintivo dei grandi capi e dei re, presso gli isolani di Tanna. Sul capo portava una corona di penne di pappagallo e di kagù, fissata con una treccia di pelle, e al collo e ai polsi numerose collane di denti di gulù e braccialetti di denti di porco selvatico e di cane mescolati a scaglie di tartaruga.
Nel veder giungere quel drappello di uomini che circondavano una giovanetta, il monarca bianco sbarrò gli occhi, si fece pallido come un morto e parve pietrificato.
Ad un tratto si strappò violentemente la corona di pelle che lo rendeva irriconoscibile, e si slanciò verso il capitano, mandando un urlo di gioia.
— Non mi conoscete più?! — esclamò.
— Collin! — gridarono il capitano, Anna e i marinai al colmo dello stupore.
— Signor Hill! Miss Anna!... Asthor!... — gridò il re.
— Collin!... Voi!... — ripetè il capitano.
— Sogno io! — esclamò Anna che era diventata prima pallida e poi rossa rossa.
— Sì, sono io, mio capitano, — gridò il re precipitandosi nelle braccia di Hill e stringendo poi ardentemente la mano alla giovanetta, ad Asthor e ai marinai.
— Ma come siete qui, Collin?... — chiese il capitano che non si era ancora rimesso dallo stupore e che parevagli ancora di sognare.
— Ma non siete annegato? — domandò Anna che piangeva dalla gioia. — Ah! Credevo di non rivedervi mai più!
— Ve lo dirò dopo. Entrate nella mia regale dimora e lasciate che rimandi a casa questa popolazione chiassosa e impertinente. —
Prese Anna per una mano, e introducendola nella capanna le disse galantemente:
— Permettete, miss, che vi offra il mio seggio reale. Gli altri si contenteranno delle stuoie, non possedendo io altre sedie.
— Grazie, signor Collin, — rispose Anna sorridendo. — Accetto di cuore, quantunque sia il trono d’un antropofago.
— Non ancora, miss, ve lo assicuro. Durante il mio breve regno non si è mangiato nemmeno una costoletta umana nella mia capanna, anzi, in tutto il mio villaggio... almeno lo spero. Entrate, capitano; avanti, amici, e accomodatevi come meglio potete. —
Con un gesto imperioso congedò la popolazione intimando il più assoluto silenzio, fece disporre la sua guardia d’onore intorno alla capanna per non venir disturbato, e raggiunse i suoi amici che si erano accomodati in una vasta stanza, ossia nella sala del trono, poichè nel mezzo si trovava una specie di sgabello tappezzato di stuoie, lavoro del re senza dubbio, non conoscendo l’uso delle sedie gli isolani dell’Oceano Pacifico.
— Prima di cominciare la mia storia, — disse Collin, — lasciate che vi offra tutto ciò che produce la reale cucina; poche cose, davvero, ma non tanto cattive. —
Battè le mani e accorsero due ragazzi portando un vaso ricolmo d’un liquore giallastro, delle noci di cocco e sette od otto pasticci che esalavano un profumo appetitoso.
— Cosa ci date? — chiese Anna, che si era accomodata sul seggio regale.
— Della birra di mia fabbricazione, — rispose Collin offrendo delle tazze formate da un pezzo di foglia di banano arrotondata; — poi offro delle torte indigene composte di foglie di fico e di banano, cucinate nella stufa, e dei pasticci di polpa di noce di cocco, e foglie di fichi avvolti nella polpa dei banani. Vi assicuro che sono eccellenti.
— E quelle canne, cosa sono?
— Canne di zucchero deliziose. Ora, signor Hill, fra un boccone e l’altro, vi narrerò la mia storia; ma sono curioso di sapere per qual motivo io vi trovo qui.
— È presto detto, Collin, — rispose il capitano. — Abbiamo naufragato su quest’isola.
— La Nuova Georgia naufragata!... — esclamò Collin con dolore. — Ma in qual modo?... E... e Bill?...
— È fuggito, — rispose il capitano con voce sorda.
— Fuggito!... Quel miserabile è fuggito!... — gridò il tenente stringendo i pugni.
— E perchè questa esplosione di collera, mentre voi nulla sapete dei progetti infami di quell’uomo? — chiese Anna.
— Dei progetti infami?... Cosa intendete di dire, miss? Gran Dio!... Ma cosa vi ha fatto quel miserabile?
— Ci ha rovinati, — rispose il capitano. — Egli ed i suoi compagni non erano naufraghi, ma evasi dal penitenziario di Norfolk.
— E li avete raccolti i suoi compagni?
— Sì, Collin, li abbiamo salvati a prezzo di grandi pericoli, sfidando un abbordaggio dei selvaggi e per riconoscenza ci tradirono scatenando le tigri contro di noi e incendiandoci la nave.
— Infami!... E sono fuggiti?... Ma dove?...
— Non lo sappiamo. Si sono imbarcati sul grande canotto mentre noi ci eravamo salvati sugli alberi per sfuggire alle tigri.
— Ma la Nuova Georgia dove si trova ora?
— Arenata sulla costa, a otto miglia di qui.
— Ah! — esclamò Collin. — I miei selvaggi non mi avevano riferito male.
— Forse eravate stato avvertito del nostro sbarco? — chiese il capitano.
— Sì, uno dei miei sudditi mi riferiva stamane che al nord dell’isola aveva veduto aggirarsi degli uomini di pelle bianca.
— Al nord! — esclamarono ad una voce il capitano e Asthor. — Al sud volete dire.
— Ma no, al nord, — disse Collin.
— È impossibile! — esclamarono i naufraghi. — La Nuova Georgia si è arenata al sud dell’isola.
— Eppure il mio selvaggio non può essersi ingannato, poichè si era recato sulle coste settentrionali alla caccia dei granchi ladri.
— Che siano sbarcati degli altri bianchi?
— Ma chi potrebbero essere? Degli altri naufraghi forse? — disse Collin.
— Quanti ne ha veduti il vostro cacciatore? — chiese il capitano nella cui mente era balenato un terribile sospetto.
— Parecchi, ma non seppe dirmi il numero.
— È qui il vostro uomo?
— No, l’ho mandato alla scoperta per darmi più precise notizie.
— Quando tornerà?
— È partito stamani all’alba col suo fratello e spero di rivederlo fra poche ore. Ma perchè siete così eccitato, capitano?
— Perchè comincio a credere alla giustizia di Dio! — esclamò Hill con tono solenne.
— Spiegatevi, capitano, — dissero tutti.
— Sospetto che quegli uomini siano i forzati.
— I forzati qui!...
— Sì, amici, devono essere gl’infami che ci incendiarono il vascello e che scatenarono contro di noi le tigri, assassinandoci l’equipaggio. Quei miserabili devono essersi diretti verso quest’isola, che era la più vicina, forse per attendere qualche nave che li trasporti in Europa od in America a godersi i denari rubatimi. Il cuore mi dice che io non m’inganno, e che fra breve tutti pagheranno il fio... Collin, giuratemi che voi mi aiuterete a far giustizia sommaria di quei ladri, incendiari e assassini. —
Il tenente si alzò e disse con voce solenne:
— Lo giuro, tanto più che ho un vecchio conto da saldare con quel Bill.
— Voi!... — esclamarono tutti.
— Sì; io, che a quest’ora dovrei dormire sotto le onde nei profondi abissi del Grand’Oceano. Ho ascoltato la vostra dolorosa istoria; ora udite la mia. —