Un dramma nell'Oceano Pacifico/14. La grande marea
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | 13. Il domatore di tigri | 15. Bill si svela | ► |
Capitolo Decimoquarto
La grande marea
Durante la notte nulla accadde di notevole. Gl’isolani fecero udire continuamente il suono rauco delle loro conche marine, ma non abbandonarono la spiaggia per tornare all’attacco del vascello.
I marinai che si aspettavano ad ogni momento un nuovo assalto, non abbandonarono un solo istante la coperta, e per far capire ai selvaggi che si tenevano in guardia, fecero tuonare parecchie volte il cannone e le spingarde, scatenando clamori assordanti da parte dei numerosi nemici accampati sulle scogliere ed ai piedi dei grandi alberi dell’isola.
Quando spuntò l’alba, il capitano che non aveva chiuso occhio in tutta la notte per essere pronto a respingere gli assalti, vide che il numero dei nemici era cresciuto. Sulla spiaggia vi erano almeno cinque o seimila selvaggi e altri si vedevano giungere dalle isole vicine, ma nessuno ardiva di accostarsi alla Nuova Georgia, la quale pareva incutesse in tutta quella gente un superstizioso terrore.
— Che tentino un nuovo assalto e che aspettino di essere moltissimi per riuscire? — chiese il capitano a Mac Bjorn che osservava i selvaggi con profonda attenzione.
— No — rispose l’uomo allampanato. — Quei furfanti hanno avuto troppa paura della vostra tigre per ritornare alla carica; ma essi contano su qualche tempesta per mangiarci.
— In qual modo?
— Credono senza dubbio che la vostra nave non possa più lasciare la scogliera, e aspettano che una tempesta la frantumi. Fors’anche temono che voi vogliate sbarcare e si tengono pronti a darvi addosso, onde non possiate raggiungere le fitte foreste dell’interno.
— Fortunatamente noi saremo lontani quando la tempesta che loro attendono scoppierà su queste spiagge. Domani avremo la grande marea, e sono certo che la Nuova Georgia lascerà senza fatica questo banco.
— Lo credo anch’io, signore, poichè ho osservato il banco e mi sono accertato che non ha punte rocciose e che la nave appoggia solamente coll’asta di prua.
— Infatti è vero, Mac Bjorn. Nel caso che la grande marea non bastasse, faremo gettare due ancore a poppa e lavorare l’equipaggio all’argano.
— E quando saremo liberi, dove ci condurrete, signore?
— A Melbourne — rispose il capitano. — È la mia destinazione.
— In Australia! — esclamò il naufrago corrugando la fronte e facendo una smorfia.
— Vi dispiace? — chiese il capitano Hill, che aveva notato quelle gesta di malcontento.
— No, signore — rispose vivamente Mac Bjorn.
— Se però vi rincrescesse, potrei sbarcarvi all’isola di Norfolk dovendo colà fermarmi per alcune ore — disse il capitano guardando attentamente il naufrago.
Nell’udire il nome di quell’isola sinistra che serve di prigione ai forzati inglesi, Mac Bjorn trasalì vivamente, e di pallido che era divenne livido.
— No! No! — esclamò. — Quell’isola è un soggiorno troppo brutto, signore. Preferirei sbarcare in un’isola abitata dai selvaggi, piuttosto.
— Allora verrete a Melbourne.
— In mancanza di meglio si vada pure in Australia. Forse colà troverò qualche legno che mi trasporti in patria.
— È molto tempo che non la rivedete?
— Sei anni, signore — rispose il naufrago, mentre una nube gli passava sulla fronte.
— E desiderate ardentemente rivederla. Avete qualcuno laggiù? Forse vostra moglie?
Mac Bjorn guardò il capitano che pareva affettasse la massima calma, e nei suoi occhi guizzò un lampo sanguigno.
— Mia moglie! — esclamò con voce rauca. — Ah! No, signore, è morta da lungo tempo.
— Pover’uomo! — mormorò il capitano con sottile ironia, che aveva compreso fin troppo con quale individuo aveva da fare. — Andate a bere un buon bicchiere di gin, e perdonatemi se involontariamente ho evocato un doloroso ricordo.
Mac Bjorn, che era diventato tutto d’un tratto cupo, e che aveva assunto un’espressione selvaggia, si allontanò senza rispondere, ma camminando come un uomo che si è ubriacato.
— Tuoni e lampi! — mormorò il capitano. — Che razza di naufraghi ho imbarcato io? Quell’uomo deve aver ucciso qualcuno, forse sua moglie, ed ora sono convinto di aver a bordo non dei disgraziati, ma dei forzati fuggiti dall’isola di Norfolk. Oh!... Guai a loro, però, se oseranno tentare qualche cosa contro di me!
— Cosa mormori, padre mio? — gli chiese Anna, che era allora comparsa sul ponte.
— Nulla, Anna — rispose il capitano forzandosi di sorridere. — Brontolavo contro quei dannati selvaggi che pare vogliano assediarci.
— Bill scatenerà un’altra volta la tigre, e li metterà ancora in fuga, se oseranno ricomparire a bordo della Nuova Georgia.
— Bill!... Bill!... — mormorò l’americano coi denti stretti. — Sì, scatenerà le tigri, Anna.
— Perchè me lo dici con questo tono? — chiese la ragazza. — Si direbbe che quel povero naufrago non ti è simpatico.
— Infatti, Anna, vorrei che non avesse mai posto piede sul mio legno.
— Ma perchè?
— Silenzio, figlia mia; per ora nulla posso dirti.
— E perchè, signore? — chiese una voce.
Il capitano si volse e si trovò dinanzi a Bill, il quale lo guardava con due occhi fiammeggianti, mentre impallidiva a poco a poco.
— Che fai tu qui? — chiese l’americano aggrottando la fronte. — Forse tu mi spiavi?
— No signore — rispose Bill cercando di sembrare tranquillo. — Mi dirigevo da questa parte per meglio osservare le mosse dei selvaggi, e involontariamente ho udito le vostre parole, le quali sono molto amare per me. Avete forse avuto da lamentarvi di questo naufrago, dal giorno in cui lo raccoglieste moribondo sul tempestoso oceano?
— No, è vero; anzi ho dovuto due volte ringraziarti.
— Perchè allora quelle severe parole?
— Non posso spiegarmi.
— Cosa temete? Se io e i miei compagni siamo d’impaccio a bordo della vostra nave, alla prima isola che incontrerete sbarcateci.
— Ci penserò; tutto dipenderà dalla vostra condotta.
— Sta bene, signore, — disse Bill risentito.
Fece un saluto a miss Anna, e si allontanò dirigendosi verso poppa; ma quell’uomo era impallidito e le sue dita si chiudevano con forza, come se avessero voluto stritolare qualche cosa.
— Sei severo, padre mio, — disse Anna con tuono di rimprovero. — Non so perchè ti sia venuto in uggia quel pover’uomo.
— Lo saprai più tardi; non voglio ora arrischiare un giudizio terribile. —
Nella notte vi furono due allarmi che fecero salire sul ponte tutto l’equipaggio, essendo stati scorti alcuni canotti staccarsi dall’isola; ma al primo colpo di cannone fuggirono.
Il giorno seguente la condizione era invariata; la Nuova Georgia era sempre incagliata, e gli antropofagi accampati sulle sponde. Però fra poche ore quella pericolosa prigionia doveva cessare, poichè a mezzodì la grande marea doveva toccare la sua massima altezza e rimettere a galla il legno.
Il capitano, che sospirava l’istante di lasciare quei brutti paraggi, diede subito gli ordini necessari onde tutto fosse pronto per l’ora della grande piena. Fece alleggerire la prua della nave facendo portare a poppa le ancore grosse, le catene, le casse dell’equipaggio, le botti d’acqua dolce, gran parte dei pennoni di ricambio e perfino le gabbie delle tigri che occupavano la parte anteriore della stiva. Ciò fatto, fece calare in mare una imbarcazione e gettare a poppa due ancorotti, le cui catene vennero fissate all’argano per operare una forte trazione all’indietro; quindi fece spiegare tutte le vele per approfittare del vento, che soffiava leggermente da prua.
Compiute quelle diverse operazioni, il capitano dispose la maggior parte dei suoi uomini, i naufraghi compresi, attorno all’argano a cui erano state già fissate le manovelle.
La marea intanto continuava a montare. Alle undici aveva già coperto quasi tutto il banco e si udivano, sotto l’asta di prua, degli scricchiolìi, segno evidente che il veliero tendeva ad alzarsi. Mezz’ora dopo c’erano due piedi d’acqua sul banco. Era il momento opportuno per tentare un primo sforzo.
— Tutti ai vostri posti! — tuonò il capitano Hill. — La marea sta per toccare la massima piena.
L’equipaggio si curvò sulle aspe, e radunate tutte le forze le spinse innanzi con sovrumana energia. Le catene dei due ancorotti gettati sul banco si tesero bruscamente, ma le punte di ferro tennero saldo.
— Speriamo! — mormorò il capitano. — Forza, amici, forza, o non lasceremo mai più questo banco.
I marinai spingevano con una specie di furore, tendendo i muscoli in tal maniera, che pareva si volessero spezzare. Erano tutti pallidi ed avevano le fronti imperlate d’un freddo sudore; guai se quegli sforzi non riuscivano! Era finita per tutti, anzi peggio che finita, poichè nessuno ignorava che li attendeva lo spiedo di quei feroci mangiatori di carne umana.
La nave scricchiolava sempre sotto quella potente tensione di tante vigorose braccia, ma non accennava a indietreggiare. Pareva che fosse incavigliata a quel dannato banco.
Il capitano Hill, malgrado il suo coraggio, era diventato pure pallido e sentivasi il cuore battere più forte del solito. Una vaga paura cominciava ad invaderlo, e gettava sguardi disperati sulla sua Anna.
— Uno sforzo ancora, ragazzi! — esclamò con voce soffocata.
Asthor e i tre o quattro uomini che stavano ai bracci delle manovre, accorsero in aiuto dei compagni. Quel nuovo rinforzo fu decisivo.
La nave oscillò bruscamente, scivolò sul banco dapprima lenta, poi rapida, e infine galleggiò sul mare, arrestandosi a poche braccia dai due ancorotti.
Un immenso urlo di gioia echeggiò fra l’equipaggio, a cui fecero eco urla di furore e vociferazioni spaventevoli.
I selvaggi vedendo la nave lasciare il banco e comprendendo che l’agognata preda stava per isfuggire, si erano precipitati confusamente nei loro canotti e accorrevano da tutte le parti per dare un disperato assalto.
— All’erta! I selvaggi! — tuonò Asthor che si era slanciato verso poppa.
— Troppo tardi, miei cari! — esclamò il capitano Hill trionfante. — Ai bracci delle manovre, la barra all’orza e si viri di bordo.
Quella manovra fu eseguita con fantastica rapidità, tanta era la paura di venire raggiunti. La Nuova Georgia girò attorno alle scogliere che racchiudevano il banco e uscì in pieno mare a gonfie vele, dirigendosi verso l’ovest.
I lunghi canotti dei figiani non si arrestarono per questo. Passarono quasi volando sopra il banco e continuarono la caccia manovrando furiosamente i remi, ma, come aveva detto bene il capitano, ormai era troppo tardi.
Il vascello fuggiva colla velocità di una rondine marina, e in breve fu tanto lontano da togliere a quei brutti abitanti dell’arcipelago figiano ogni speranza di poterlo raggiungere.
Quando il capitano Hill non li vide più, mandò un sospiro di sollievo.
— Andiamo dritti in Australia, padre mio? — chiese Anna.
— Dritti senza fermarci, poichè non vedo il momento di sbarazzarmi di due carichi pericolosi.
— Di quali intendi parlare?
— Delle tigri e dei naufraghi.
— Te la prendi sempre con quei disgraziati.
— Ti ho detto che ho i miei motivi.
— Se ti danno fastidio, perchè non gli sbarchi in qualche isola?
— Se posso lo farò.
— Ne abbiamo qualcuna nelle vicinanze, dove essi non possano correre pericoli?
— Dinanzi a noi abbiamo l’arcipelago delle Nuove Ebridi e più al sud-ovest la Nuova Caledonia, l’uno e l’altra popolati da selvaggi, forse più feroci dei figiani.
— Ma non vi sono isole disabitate?
— Un tempo erano numerose; oggi a poco a poco sono state quasi tutte occupate. La popolazione umana cresce costantemente malgrado i grandi vuoti che fanno le guerre e le epidemie, e verrà un giorno che non vi sarà più posto.
— Cosa dici mai? Vi sono dei continenti che hanno ancora degli spazi immensi poco abitati; l’Africa, l’Australia e le due Americhe.
— È vero, ma fra due secoli non avranno più un territorio deserto o quasi deserto. Gli scienziati hanno studiato, anzi, e più volte, questo grave argomento, e hanno dedotto che fra non molto la popolazione del globo non troverà più cibo sufficiente e che sarà costretta o a decimarsi con continue guerre o... a tornare all’antropofagia.
— È incredibile!
— Eppure è vero, Anna, ed ora ti spiegherò meglio la cosa. Gli scienziati hanno notato che la superficie terrestre suppergiù ha 28 milioni di miglia quadrate di terre fertili, 14 di steppe e 4 di deserti, e hanno calcolato che il massimo degli abitanti che queste categorie di terre possono nutrire è di 207 persone per miglio quadrato nelle terre fertili, di 10 per le steppe e di 1 pei deserti. Risulta da ciò, che quando la popolazione del globo avrà raggiunto la cifra di 5994 milioni non vi sarà più altra terra disponibile capace di nutrire un maggior numero di persone. Ti pare esatto questo calcolo?
— È giusto — rispose Anna dopo alcuni istanti di riflessione. — Ma quanti anni occorreranno perchè la popolazione diventi così numerosa?
— Ecco, da una media fatta, risulterebbe che la popolazione del globo, presa insieme, aumenta ogni dieci anni di otto persone per cento. Partendo da questo calcolo, i 5994 milioni di abitanti si possono ottenere in poco più o poco meno di 200 anni! Cosa sono due secoli per l’umanità? Nulla.
— È una cosa che spaventa!
— Non dico di no, e io non vorrei trovarmi vivo fra due o trecento anni. Forse allora il progresso scientifico e industriale avrà trovato il modo di rendere la terra più fertile, avrà forse trovato anche il modo di rendere produttive le steppe e i deserti, ma sarà un rimedio di poco momento. La popolazione crescerà sempre, la terra non basterà più, e i nostri tardi nipoti non avranno altra alternativa che quella di distruggersi con guerre terribili o di mangiarsi l’un l’altro, a meno che non trovino il mezzo di dare la scalata alla luna o qualche altro mondo, cosa alquanto difficile a mio parere. Fortunatamente noi non saremo più vivi, e chi sa da quanti anni dormiremo il sonno eterno o nella profondità degli abissi marini o sotto chi sa quanti piedi di terra. Ma, orsù, bando ai mesti pensieri e andiamo a far colazione, Anna, che ne abbiamo bisogno.