Un dramma nell'Oceano Pacifico/12. L'assalto degli antropofaghi
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Capitolo Decimosecondo.
L’assalto degli antropofagi.
A quell’improvvisa scarica che aveva gettato a terra una dozzina di persone, le quali si contorcevano nella polvere mettendo urla strazianti, una confusione indicibile si manifestò fra l’orda dei cannibali.
Gli uomini, le donne, i ragazzi ed i guerrieri stessi che circondavano il palanchino, colpiti da un pazzo terrore, non sapendo ancora a che cosa attribuire quella detonazione, fuggirono in tutte le direzioni gettando grida acute, abbandonando il vecchio re che era rotolato sconciamente in terra, i sei prigionieri, e le dieci donne destinate alla morte.
Il capitano Hill balzò innanzi colla sciabola d’abbordaggio nella destra e una pistola nella sinistra, gridando:
— Avanti, marinai! —
Bill, Mac Bjorn ed i marinai della Nuova Georgia superarono in un batter d’occhio la macchia e si slanciarono verso il villaggio urlando a pieni polmoni, per accrescere il terrore e la confusione.
Alcuni guerrieri vedendoli correre verso il re e credendo forse che volessero ucciderlo per poi mangiarlo, tornarono indietro agitando furiosamente le loro pesanti mazze; ma una scarica di pistole bastò per metterli in fuga. Tre o quattro di loro però, colpiti dalle palle, stramazzarono a terra.
Il capitano Hill, Mac Bjorn e Bill circondarono i prigionieri bianchi che parevano istupiditi per quell’inaspettato soccorso, tagliarono con pochi colpi di coltello i loro legami e li spinsero verso la foresta gridando:
— Presto, fuggite, o sarà troppo tardi! —
I marinai vedendo accorrere da tutte le parti la popolazione, resa furiosa da quell’attacco micidiale e per la fuga dei prigionieri, fecero un’ultima scarica, poi si misero a lavorare di gambe dietro ai fuggiaschi.
Raggiunta la boscaglia, si cacciarono in mezzo alle piante cercando di far perdere le loro tracce, e presero la rincorsa verso il mare, ricaricando le armi. Alle loro orecchie echeggiavano sempre le urla feroci dell’intera tribù, che si era precipitata dietro alle vittime e ai rapitori.
— Presto, presto, — ripeteva il capitano che temeva di vedersi tagliare la ritirata verso il mare.
— Corri Mac Doil; uno sforzo ancora Kingston; allunga le gambe, O’Donnel, — diceva Bill spingendo innanzi i suoi antichi camerati. — Forza Brown, saldo in gambe Dikens e tu, Welker, bada di non incespicare. —
Quei poveri diavoli che una lunga serie di patimenti e un digiuno forzato avevano ridotti pelle ed ossa e del tutto sfiniti, correvano facendo sforzi disperati, aiutandosi con salti smisurati, sbuffando e barcollando.
Le grida via via più acute dei selvaggi che pareva si avvicinassero sempre più, bastavano ad animarli, sapendo che se questa volta erano sfuggiti alla tomba, la seconda non avrebbero evitato lo spiedo.
A dugento passi dalla sponda, due di quei disgraziati caddero sfiniti; ma i marinai che venivano dietro correndo in gruppo serrato li raccolsero, e con un ultimo sforzo li trasportarono fino alla baia.
Le due scialuppe erano ancora lì. I marinai gettarono nell’acqua le foglie ed i rami che le coprivano, le spinsero giù dal banco e s’imbarcarono.
— Al largo! — tuonò il capitano Hill, quando vide che tutti erano a bordo.
Le scialuppe s’allontanarono rapidamente, dirigendosi verso l’uscita della piccola baia.
Alcuni selvaggi, i più agili, giungevano allora sulle rive. Vedendo fuggire la preda, alzarono furiosi clamori e si misero a tempestare le due imbarcazioni con una grandine di frombole; ma il capitano che non li perdeva mai d’occhio, abbattè con una palla il più ardito della banda.
Gli altri, veduta la mala parata, tornarono ad imboscarsi, ma si misero a correre lungo le rive, sempre urlando e minacciando.
Le due scialuppe spinte dai remi vigorosamente manovrati, in pochi istanti uscirono in mare e si diressero verso la Nuova Georgia, la cui massa spiccava nettamente sul luminoso orizzonte.
— Dio sia ringraziato! — esclamò il capitano, quando rivide la sua nave. — Ora non temo più questi selvaggi. —
Poi si volse verso i prigionieri che si erano lasciati cadere nel fondo della scialuppa, esausti di forze. Erano sei veri scheletri, che potevano degnamente stare in compagnia con Mac Bjorn; magri allampanati, smunti, laceri e coperti di contusioni. Si leggeva sui loro volti una serie d’inenarrabili patimenti e di miserie.
Erano quasi tutti sulla quarantina, coi capelli biondi che rivelavano la razza anglosassone; ma cosa davvero strana, avevano certe facce che non ispiravano alcuna fiducia, certi occhi che mandavano cupi lampi e che avevano un non so che di falso e di bestiale.
Particolare poco confortante: tutti portavano ai polsi e alle caviglie dei piedi profonde lividure, come quelle che si vedevano sulle membra del naufrago Bill.
Il capitano però non ne fece troppo caso, e credette che quelle lividure fossero state prodotte dalle corde dei selvaggi.
Alle otto della mattina le due scialuppe giungono presso le scogliere che tenevano prigioniera la Nuova Georgia.
Anna, Asthor ed i marinai di guardia salutarono con grida di gioia il ritorno della spedizione. Il capitano Hill, salito il primo sul ponte, strinse più volte fra le braccia la coraggiosa giovanetta che non aveva avuto paura di rimanere quasi sola sul vascello, colle orde antropofaghe tanto vicine.
— Non sei ferito, padre mio? — chiese ella.
— Ritorno incolume, e come me sono tornati pure tutti gli altri.
— Li avete salvati tutti?
— Tutti, Anna; ma quei poveri uomini sono ridotti in uno stato da far paura.
— Infelici! — esclamò la giovanetta, che si era curvata sul bordo. — Sembrano scheletri!
— Presto, portateli in coperta e passateli nell’infermeria, — disse il capitano.
Mac Bjorn ed i suoi compagni, che non erano più capaci di rimanere ritti nè di fare un passo, furono portati a braccia sul ponte e fatti scendere sotto coperta, in un riparto della corsìa, dove si trovavano alcune brande pei feriti.
Asthor s’incaricò della loro cura, la quale, del resto, non doveva essere nè lunga nè difficile, trattandosi solamente di gente sfinita pei lunghi patimenti, ma di complessione ancora solida e che doveva ringagliardirsi presto con pasti sostanziosi e bottiglie di vin generoso.
Il capitano avrebbe voluto incaricarsene lui; ma in quel momento la sua presenza era più che necessaria sul ponte, poichè la Nuova Georgia stava per correre un secondo e più tremendo pericolo.
La spiaggia, fin dove giungeva lo sguardo, erasi rapidamente coperta di una moltitudine di antropofagi resi furiosi per lo smacco subìto e per la perdita dei prigionieri. Di là lanciavano orribili imprecazioni contro gli stranieri, li sfidavano con urla che nulla avevano di umano, li minacciavano agitando in modo convulso le pesanti mazze, le lunghe lancie e le frombole.
Pareva che di momento in momento, tutta quella gente dovesse precipitarsi in mare per muovere all’abbordaggio della Nuova Georgia.
— È un esercito, — disse il capitano, sulla cui fronte passava e ripassava una profonda ruga. — Se tutta quella popolazione ci assalta, per noi non so come andrà a terminare. —
— Prevedo un impetuoso assalto, — disse Bill che pareva più inquieto di tutti. — Oh! se questa nave non si fosse incagliata!... —
— Fortunatamente siamo pronti a riceverli e abbiamo rinforzato il numero dei difensori. Sono coraggiosi senza dubbio i vostri compagni.
— Non solo coraggiosi, ma anche valenti tiratori, — disse Bill con un certo orgoglio. — Oh! Oh! Ecco dei canotti! —
Il capitano, Anna e i marinai che stavano loro attorno, volsero gli sguardi verso l’isola e scorsero, non senza una certa emozione, una ventina di grandi canoe venire dalle coste settentrionali a tutta velocità.
Il capitano Hill ridirizzò l’alta statura e tuonò:
— Ognuno a posto di combattimento!... —
Poi, volgendosi verso Anna che era diventata pallida, ma che affettava ancora una grande calma:
— Figlia mia, — le disse con voce un po’ commossa, — ritirati nella tua cabina, poichè fra poco qui pioveranno le lancie e le frombole dei cannibali. —
— Ma se tu affronti la morte, voglio affrontarla anch’io al tuo fianco, — rispose la giovanetta. — Non tremo, padre mio, e tu sai che so adoperare il fucile come i tuoi migliori marinai.
— Lo so, ma combatterei male sapendoti esposta ai proiettili di quei bruti. Se avremo bisogno d’un fucile di più, ti prometto di farti salire in coperta. —
La baciò in fronte e la condusse nel quadro di poppa chiudendola nella cabina. Quando risalì sul ponte, i selvaggi stavano imbarcandosi nelle canoe mandando urla feroci ed agitando le armi.
I suoi marinai disposti lungo le murate, o appollaiati sulle coffe degli alberi, o celati dietro alle funi ammassate sul castello di prua o sul cassero, attendevano intrepidi l’attacco coi fucili in mano e le scuri e le sciabole di arrembaggio alla cintola. Anche i naufraghi, malgrado la loro estrema debolezza, avevano lasciato le brande dell’infermeria, pronti a combattere fino all’ultimo sospiro.
— A noi, feroci antropofagi! — esclamò il capitano. — Ehi, Asthor, fa’ spiegare la bandiera americana sul picco della randa, e tu, armaiuolo, fa’ piazzare le spingarde e il cannoncino sul castello di prua! —
Era tempo! I venti grandi canotti, imbarcati oltre dugento guerrieri armati di lancie, di mazze e di frombole, avevano lasciata la costa e arrancavano a tutta lena correndo addosso alla Nuova Georgia, che, arenata come era, non poteva in modo alcuno sfuggire l’abbordaggio.
Gli altri selvaggi che erano rimasti a terra per mancanza di posto, incoraggiavano i compagni con urla che salivano al cielo e che facevano gelare il sangue. Parevano impazienti di prender parte anche loro alla pugna. Erano più di mille, ed a ogni istante altri ne giungevano dalle boscaglie, assieme a numerosi capi distinguibili pei loro turbanti.
I venti canotti a mezza via si diressero in due colonne per assaltare il disgraziato legno da ambe le parti, cioè a babordo e a tribordo.
Il capitano Hill, che anche in quel terribile frangente conservava una calma ammirabile, e che non perdeva d’occhio la flottiglia assalitrice, divise i difensori della Nuova Georgia in due gruppi affidando il comando di uno di questi ad Asthor, vecchio marinaio che aveva più volte combattuto contro i selvaggi.
A trecento metri l’armaiuolo aperse il fuoco col cannoncino, facendo piovere sulle orde assalitrici una vera tempesta di mitraglia; ma quantunque parecchi figiani cadessero fulminati o gravemente feriti, i canotti continuarono la corsa.
— Orsù, miei prodi, — gridò il capitano. — Fuoco a volontà!... —
A quel comando venti lampi balenarono sul ponte della nave arenata, seguìti dalle acute detonazioni delle due spingarde, le quali lanciavano palle del peso di mezza libbra.
Urla indescrivibili, urla di furore e di dolore, s’alzarono fra gli assalitori. Quindici o venti di loro caddero nel fondo delle imbarcazioni che furono arrossate di sangue, e parecchi altri precipitarono in mare, ma l’assalto non venne arrestato.
In meno che non si dice, i venti grandi canotti si trovarono sotto i bordi del vascello, e quei diavoli color marrone o bronzo lucente si slanciarono all’abbordaggio, gli uni salendo sulle spalle degli altri per giungere alle murate, e aggrappandosi alle bancazze, alle sartìe, agli sportelli delle cabine, alla rete della delfiniera e ai cavi pendenti dell’albero di bompresso, empiendo l’aria di clamori feroci e menando disperatamente le armi.
Il capitano Hill, i naufraghi, Asthor ed i marinai lottavano coll’energia della disperazione, sparavano le pistole, menavano le scuri e le sciabole d’arrembaggio; si difendevano coi calci dei fucili e colle pesanti aspe dell’argano, ma era fatica sprecata. Cadevano dieci selvaggi colla testa fracassata, e colle membra tronche od il petto squarciato; ma altri dieci, altri venti, altri cinquanta erano pronti a sostituirli e s’inerpicavano sui fianchi della nave come una legione di demonii, sfidando intrepidamente la morte, decisi a tutto pur di riavere i loro prigionieri e di guadagnarsi l’arrosto di carne umana.
Il capitano Hill, a rischio di ammazzare i propri marinai, aveva fatto volgere il cannoncino e le spingarde verso il ponte onde fulminare gli assalitori lungo i bordi della nave; Asthor aveva fatto spezzare delle casse di bottiglie e disperdere i rottami presso le murate, ma i cannibali salivano sempre a dispetto della mitraglia e si slanciavano in mezzo ai vetri infranti senza badare alle orribili lacerature che si producevano ai piedi.
Ormai la battaglia pareva definitivamente perduta, quando in mezzo alle grida dei vincitori, alle urla dei marinai ed alle detonazioni si udì una voce gridare:
— Tutti sugli alberi!... Capitano Hill, barricatevi nella cabina di miss Anna!... La nave è salva! —
Poi Bill, il capo naufrago dai sinistri disegni si slanciò in mezzo al ponte e sparve nel ventre del vascello, dove in fondo, spaventate da quell’orribile frastuono, mugolavano le tigri.