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116 | capitolo decimosecondo. |
costa e arrancavano a tutta lena correndo addosso alla Nuova Georgia, che, arenata come era, non poteva in modo alcuno sfuggire l’abbordaggio.
Gli altri selvaggi che erano rimasti a terra per mancanza di posto, incoraggiavano i compagni con urla che salivano al cielo e che facevano gelare il sangue. Parevano impazienti di prender parte anche loro alla pugna. Erano più di mille, ed a ogni istante altri ne giungevano dalle boscaglie, assieme a numerosi capi distinguibili pei loro turbanti.
I venti canotti a mezza via si diressero in due colonne per assaltare il disgraziato legno da ambe le parti, cioè a babordo e a tribordo.
Il capitano Hill, che anche in quel terribile frangente conservava una calma ammirabile, e che non perdeva d’occhio la flottiglia assalitrice, divise i difensori della Nuova Georgia in due gruppi affidando il comando di uno di questi ad Asthor, vecchio marinaio che aveva più volte combattuto contro i selvaggi.
A trecento metri l’armaiuolo aperse il fuoco col cannoncino, facendo piovere sulle orde assalitrici una vera tempesta di mitraglia; ma quantunque parecchi figiani cadessero fulminati o gravemente feriti, i canotti continuarono la corsa.
— Orsù, miei prodi, — gridò il capitano. — Fuoco a volontà!... —
A quel comando venti lampi balenarono sul ponte della nave arenata, seguìti dalle acute detonazioni delle due spingarde, le quali lanciavano palle del peso di mezza libbra.
Urla indescrivibili, urla di furore e di dolore, s’alzarono fra gli assalitori. Quindici o venti di loro caddero nel fondo delle imbarcazioni che furono arrossate di sangue, e parecchi altri precipitarono in mare, ma l’assalto non venne arrestato.
In meno che non si dice, i venti grandi canotti si trovarono sotto