Un dramma al Messico/Capitolo IV. Da Tasco a Cuernavaca

Capitolo IV. Da Tasco a Cuernavaca

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Jules Verne - Un dramma al Messico (1851)
Traduzione di Anonimo (1867)
Capitolo IV. Da Tasco a Cuernavaca
Capitolo III. Da Cigualan a Tasco Capitolo V. Da Cuernava a Popocatepelt
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CAPITOLO IV.

da tasco a cuernavaca.


Il luogotenente fu desto pel primo.

— Josè, partiamo, diss’egli.

Il gabbiere si stirò le braccia.

— Che strada pigliamo? domandò Martinez.

— Ne conosco due, luogotenente.

— Quali?

— Una che passa per Zacualican, Tenancingo e Toluca.

Da Toluca a Messico la strada è bella, perchè già passata la Sierra Madre.

— E l’altra?

— L’altra ci fa deviare un po’ all’est per giungere alle belle montagne del Popocatepelt e dell’Icctacihualt. È la via più sicura, perchè è la meno frequentata. Bella passeggiata di una quindicina di leghe sopra un piano inclinato. [p. 113 modifica]

— Pigliamo dunque la via più lunga, ma avviamoci! disse Martinez. Dove ci coricheremo stasera?

— Filando dodici nodi, a Cuernavaca, rispose il gabbiere.

I due Spagnuoli si recarono alla scuderia, fecero insellare i loro cavalli ed empirono le loro mochillas, specie di tasche che fanno parte della bardatura, di ciambelle di grano turco, melagrani e carne secca, perchè nelle montagne correvano rischio di non trovare un nutrimento sufficiente. Pagata la spesa, inforcarono le loro cavalcature e piegarono a dritta.

Per la prima volta videro la quercia, albero di buon augurio, ai piedi del quale si arrestano le esalazioni malsane degli altipiani inferiori. In queste pianure, situate a millecinquecento metri sopra il livello del mare, le produzioni importate dopo le conquiste si mescevano alla vegetazione indigena. Campi di biade si stendevano in quelle fertili oasi, dove crescono tutti i cereali europei. Gli alberi d’Asia e di Francia vi mescevano il loro fogliame. I fiori dell’Oriente smaltavano i tappeti di verdura, misti alle viole, ai garofani, alla verbena, alla pratellina delle zone temperate. Alcuni arbusti resinosi facevano qua e là la smorfia nel passaggio, e l’odorato sentiva le dolci emanazioni della vaniglia, protetta dall’ombra delle amiridi e dei liquidambar. Così i due avventurieri si sentivano a loro bell’agio sotto quella temperatura media di venti o ventidue gradi, comune nelle zone di Xalapa e di Chilpanzigo, che vennero comprese sotto la denominazione di terre temperate.

Frattanto Martinez ed il suo compagno [p. 114 modifica]s’innalzavano sempre più sull’Anahuac e valicavano le immense barriere che formano le pianure di Messico.

— Ah, esclamò Josè, ecco il primo dei tre torrenti che dobbiamo attraversare!

Infatti, un fiume profondamente incassato si presentava dinanzi ai viaggiatori.

— Nel mio ultimo viaggio, questo torrente era asciutto, disse Josè. Seguitemi, luogotenente.

Scesero entrambi per un dolce diclivio tagliato nella rupe medesima e giunsero ad un guado che era facilmente praticabile.

— E uno, disse Josè.

— Gli altri sono egualmente facili? domandò il luogotenente.

— Egualmente, rispose Josè. Quando la stagione delle pioggie ingrossa questi torrenti, essi si gettano nel piccolo fiume di Ixtolucca, che ritroveremo nelle grandi montagne.

— Non abbiamo nulla a temere in queste solitudini?

— Nulla, tranne il pugnale messicano.

— È vero, rispose Martinez; questi Indiani dei paesi elevati sono fedeli al pugnale per tradizione.

— Infatti, ripigliò il gabbiere ridendo, quante parole hanno per designare la loro arma favorita: estoque, verdugo, puna, anchillo, beldoque, navaja! Hanno il nome facilmente in bocca come hanno il pugnale in mano. Ebbene tanto meglio! se non altro non avremo a temere le palle invisibili delle lunghe carabine! Non c’è nulla di più fastidioso del non sapere qual è il furfante che vi ammazza.

— Quali sono gli Indiani che abitano queste montagne? domandò Martinez. [p. 115 modifica]

— Eh, chi può contare le diverse razze che si moltiplicano in questo Eldorado del Messico! Vedete un po’ tutti gli incrociamenti che io ho studiato con gran cura, coll’intenzione di fare, quando che sia, un matrimonio vantaggioso: vi si trova il mestisa, nato da uno spagnuolo e da una indiana; il castisa, nato da una donna meticcia e da uno spagnuolo; il mulatto, nato da una spagnuola e da un negro; il munisque, nato da una mulatta e da uno spagnuolo; l’albino, nato da una munisque e da uno spagnuolo; il tornatras, nato da un albino e da una spagnuola; il tintinclaire, nato da un tornatras e da una spagnuola; il lovo, nato da una indiana e da un negro; il caribujo, nato da una indiana e da un lovo; il barsino, nato da un cujote e da una mulatta; il grifo, nato da una negra e da un lovo; l’albarazado, nato da un cujote e da una indiana; il chanisa, nato da una meticcia e da un indiano; il mechino, nato da una lova e da un cojote!

Josè diceva il vero, e la purezza della razza, molto problematica in queste regioni, rende incertissimi gli studî antropologici. Ma non ostante le dotte conversazioni del gabbiere, Martinez ricadeva di continuo nella sua taciturnità primitiva; si scostava anzi volentieri dal suo compagno, la cui presenza sembrava essergli di peso.

Altri due torrenti vennero poco stante a tagliar la strada. Colà il luogotenente rimase contrariato, vedendo il loro letto asciutto, poichè egli si proponeva di farvi bere il suo cavallo.

— Eccoci senza viveri e senz’acqua, luogotenente, disse Josè. Oibò! Seguitemi. Cerchiamo fra queste quercie e questi olmi un albero chiamato ahuehuelt, che sostituisce con vantaggio la frasca [p. 116 modifica]che si appende dinanzi agli alberghi. Sotto l’ombra sua s’incontra spesso una sorgente zampillante, e se mi direte che non è che acqua, vi dirò che l’acqua è il vino del deserto!

I cavalieri non tardarono a trovare l’albero in quistione, ma la fontana promessa era asciutta e si vedeva anzi ch’era stata asciugata di recente.

— È singolare, disse Josè.

— Non è vero che è singolare? disse Martinez impallidendo. Camminiamo, camminiamo!

I viaggiatori non dissero più parola fino alla borgata di Cacahuimilcan. Colà alleggerirono un po’ le loro mochillas, poi si diressero verso Cuernavaca addentrandosi nell’est.

Il paese si presentava allora sotto un aspetto estremamente accidentato e faceva presentire i monti giganteschi, le cui vette basaltiche arrestano le nuvole venute dal grande oceano. Alla svolta d’una larga rupe apparve il forte di Cochicalco, costrutto dagli antichi Messicani e la cui spianata ha novemila metri quadrati. I viaggiatori si diressero verso l’immenso cono che ne forma la base ed è incoronato da rupi oscillanti e da rovine.

Dopo aver posto piede a terra e legato i loro cavalli al tronco d’un olmo, Martinez e Josè, desiderosi di accertar la direzione della strada, si arrampicarono fino al cono, ajutandosi colle scabrosità del terreno.

Cadeva la notte, e, vestendo gli oggetti di contorni incerti, prestava loro fantastiche forme. Il vecchio forte rassomigliava ad un enorme bisonte accoccolato, colla testa immobile, e lo sguardo inquieto di Martinez credeva di vedere delle ombre agitarsi sul corpo del mostruoso animale. Si [p. 117 modifica]tacque nondimeno per non dare occasione alle beffe dell’incredulo Josè. Costui si avventurava lentamente attraverso i sentieri della montagna, e, quando era scomparso dietro qualche sporgenza, guidava il compagno colle sue invocazioni a San Giacomo ed a Santa Maria.

Ad un tratto, un enorme uccello notturno, gettando un rauco grido, s’innalzò gravemente sulle sue larghe ali. Martinez s’arrestò di botto.

Un enorme macigno oscillava visibilmente sulla sua base a trenta piedi sopra di lui.

Ad un tratto questo macigno si staccò e, spezzando ogni cosa, colla rapidità ed il rumore della folgore, si andò a perdere nell’abisso.

— Santa Maria! esclamò il gabbiere. Ohe! luogotenente!

— Josè!

— Da questa parte.

I due Spagnuoli si raggiunsero.

— Quale valanga! Scendiamo, disse il gabbiere.

Martinez lo seguì senza dir parola, ed entrambi furono poco stante sul poggio inferiore.

Colà, un largo solco segnava il passaggio del macigno.

— Santa Maria esclamò Josè; ecco che i nostri cavalli sono scomparsi, schiacciati, morti.

— Per Dio! è proprio vero? disse Martinez.

— Vedete!

L’albero, a cui i due animali erano attaccati, era stato trascinato con essi.

— Se fossimo stati a cavallo!... osservò filosoficamente il gabbiere.

Martinez era in preda ad un violento terrore.

— Il serpente, la fontana, la valanga! mormorava. [p. 118 modifica]

A un tratto cogli occhi torvi, egli si avventò contro Josè.

— Non hai tu parlato del capitano don Orteva? gridò colle labbra contratte dalla collera.

Josè diede indietro.

— Non facciamo pazzie, luogotenente. Un’ultima scappellata alle nostre cavalcature e mettiamoci in cammino. Non è comodo star qua quando la vecchia montagna scrolla la sua criniera.

I due Spagnuoli misurarono allora la via senza dir parola, e nel mezzo della notte giunsero a Cuernavaca; ma fu loro impossibile procurarsi dei cavalli, ed il domattina si diressero, a piedi, verso la montagna del Popocatepelt.