Un dramma al Messico/Capitolo III. Da Cigualan a Tasco

Capitolo III. Da Cigualan a Tasco

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Jules Verne - Un dramma al Messico (1851)
Traduzione di Anonimo (1867)
Capitolo III. Da Cigualan a Tasco
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CAPITOLO III.

da cigualan a tasco.


Il domani, i cavalli erano insellati all’alba. I viaggiatori, ripigliando i sentieruoli che serpeggiavano innanzi ad essi, si spinsero nell’est incontro al sole. Il loro viaggio incominciava con favorevoli auspicî; senza l’umore taciturno che contrastava colla gajezza del gabbiere, sarebbero parsi la gente più onesta della terra.

Il terreno saliva sempre più. L’immenso altipiano di Chilpanzingo, ove regna il più bel clima del Messico, non tardò a svilupparsi fino agli estremi confini dell’orizzonte. Questo paese che appartiene alle terre temperate, è situato a millecinquecento metri sopra il livello del mare, e non conosce nè i calori dei terreni inferiori, nè i freddi delle zone più alte. Ma, lasciando quest’oasi alla loro dritta, i due Spagnuoli giunsero al piccolo villaggio di San Pedro, e, dopo tre ore di fermata, ripigliarono il cammino dirigendosi verso la piccola città di Tutela-del-Rio.

— Dove dormiremo stanotte? domandò Martinez.

— A Tasco! una gran città, luogotenente, a petto di queste borgate.

— Vi è un buon albergo?

— Sì, sotto un bel cielo ed un bel clima! Colà il sole è meno ardente che in riva al mare. Ed è così che salendo sempre si giunge gradatamente, senza quasi avvedersene, a gelare sulle vette del Popocatepelt. [p. 109 modifica]— Quando valicheremo le montagne, Josè?

— Doman l’altro a sera, e dalle loro vette vedremo, molto lontano, è vero, il termine del nostro viaggio! È una città d’oro, Messico! E sapete a che penso, luogotenente?

Martinez non rispose.

— Io mi dimando che cosa può essere avvenuto degli uffiziali del vascello e del brik che abbiamo abbandonati sull’isolotto.

Martinez sussultò.

— Non so!... rispose sordamente.

— Mi piace credere, proseguì Josè, che quei personaggi alteri siano morti di fame! Del resto, quando gli abbiamo sbarcati molti sono caduti in mare, e vi ha in quei paraggi una specie di pesce-cane, la tintorea, che non perdona davvero! Santa Maria! Se il capitano don Orteva risuscitasse, sarebbe il caso di nasconderci nel ventre d’una balena! Fortuna che la sua testa si è incontrata all’altezza del ghizzo, e quando le scotte si sono spezzate così singolarmente...

— Vuoi tacere! esclamò Martinez.

Il marinajo rimase a bocca chiusa.

— Ecco degli scrupoli a tempo e luogo! disse dentro di sè Josè; e soggiunse ad alta voce: «del resto, al mio ritorno, andrò a stare in quel bel paese del Messico! Vi si fanno delle bordate attraverso gli ananassi e i banani, e si urta contro scogli d’oro e d’argento!»

— È per questo che tu hai tradito? domandò Martinez.

— E perchè no, luogotenente? Le piastre mi piacciono.

Martinez fece una smorfia di disprezzo.

— E voi? soggiunse Josè. [p. 110 modifica]

— Io?... per questione di gerarchia! Il luogotenente voleva vendicarsi del capitano!

Alla sua volta Josè fece una smorfia di disprezzo.

Questi due uomini non valevano l’uno meglio dell’altro qualunque fosse il loro movente.

— Zitto!... disse Martinez arrestandosi di botto. Che cosa c’è laggiù?

Josè si rizzò sulle staffe.

— Non vi è nessuno, rispose.

— Ho visto un uomo sparire rapidamente.

— Immaginazione!

— Ti dico che l’ho veduto, insistè il luogotenente impazientito.

— E se l’avete veduto... cercatelo!

— E Josè proseguì la sua via.

Martinez si avanzò solo verso un gruppo di quei mangli, i cui rami, mettendo radici appena toccano terra, formano impenetrabili viluppi.

Il luogotenente pose piede a terra. La solitudine era completa.

Ad un tratto egli vide una specie di spirale muoversi nell’ombra. Era un serpentello, colla testa schiacciata sotto un macigno, ed il cui corpo si contorceva ancora come se fosse galvanizzato.

— Qui c’era qualcuno! esclamò il luogotenente.

Martinez, superstizioso e colpevole, guardò tutt’intorno tremando.

— Chi, chi mai? mormorò.

— Ebbene? domandò Jòsè, che aveva raggiunto il suo compagno.

— Non è nulla, rispose Martinez. Tiriamo innanzi.

I viaggiatori costeggiarono allora le rive della Mexala, piccolo affluente del rio Balsas, di cui [p. 111 modifica]risalirono il corso. Non andò molto che le spire di fumo indicarono la presenza di indigeni, ed apparve la piccola città di Tutela-del-Rio. Ma avendo fretta di giungere a Tasco prima di notte, gli Spagnuoli la lasciarono dopo essersi riposati alcuni istanti.

La via diventava molto scoscesa; onde il passo era l’andatura più ordinaria delle loro cavalcature.

Qua e là apparvero sul fianco dei monti foreste di olivi. Notabili differenze si notarono allora nel terreno, nella temperatura e nella vegetazione.

Non tardò a scendere la notte. Martinez seguiva a pochi passi dî distanza la sua guida, Josè. Costui non si dirigeva senza stenti in mezzo alle fitte tenebre e cercava i sentieri praticabili, brontolando ora contro un ceppo che lo faceva incespicare, ora contro un ramo d’albero che gli sferzava la faccia e minacciava di spegnergli l’eccellente zigaro che fumava.

Il luogotenente lasciava che il suo cavallo seguisse quello del compagno. Vaghi rimorsi si agitavano in lui, ed egli non si rendeva conto della ossessione a cui era in preda.

La notte era scesa interamente. I viaggiatori affrettarono il passo, attraversarono senza arrestarsi i piccoli villaggi di Contepec e di Iguala, e giunsero alla città di Tasco.

Josè aveva detto il vero. Era una gran città a petto delle borgatelle che si erano lasciati alle spalle. Una specie d’albergo si apriva sulla via più larga. Dopo aver consegnato i loro cavalli ad uno stalliere, entrarono nella sala principale, dove era una lunga e stretta tavola imbandita.

Gli Spagnuoli vi si accomodarono l’uno in faccia all’altro e fecero un pasto che sarebbe stato [p. 112 modifica]succolento per palati indigeni, ma che la fame soltanto poteva rendere sopportabile a palati europei.

Erano reliquie di pollame nuotanti in una salsa verde, porzioni di riso condito di pimento rosso e di zafferano, vecchie selvaggine farcite di ulive, di uva secca, di cipolle, di zucche, di carbanzos e di portulache, il tutto accompagnato da tortillas, specie di ciambelle di grano turco cotte sopra una lastra di ferro. Dopo il pasto fu servito da bere.

Comunque sia, la fame fu soddisfatta e la stanchezza non tardò ad addormentare Martinez e Josè fino ad ora molto avanzata del giorno.