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da tasco a cuernavaca

tacque nondimeno per non dare occasione alle beffe dell’incredulo Josè. Costui si avventurava lentamente attraverso i sentieri della montagna, e, quando era scomparso dietro qualche sporgenza, guidava il compagno colle sue invocazioni a San Giacomo ed a Santa Maria.

Ad un tratto, un enorme uccello notturno, gettando un rauco grido, s’innalzò gravemente sulle sue larghe ali. Martinez s’arrestò di botto.

Un enorme macigno oscillava visibilmente sulla sua base a trenta piedi sopra di lui.

Ad un tratto questo macigno si staccò e, spezzando ogni cosa, colla rapidità ed il rumore della folgore, si andò a perdere nell’abisso.

— Santa Maria! esclamò il gabbiere. Ohe! luogotenente!

— Josè!

— Da questa parte.

I due Spagnuoli si raggiunsero.

— Quale valanga! Scendiamo, disse il gabbiere.

Martinez lo seguì senza dir parola, ed entrambi furono poco stante sul poggio inferiore.

Colà, un largo solco segnava il passaggio del macigno.

— Santa Maria esclamò Josè; ecco che i nostri cavalli sono scomparsi, schiacciati, morti.

— Per Dio! è proprio vero? disse Martinez.

— Vedete!

L’albero, a cui i due animali erano attaccati, era stato trascinato con essi.

— Se fossimo stati a cavallo!... osservò filosoficamente il gabbiere.

Martinez era in preda ad un violento terrore.

— Il serpente, la fontana, la valanga! mormorava.