Tre croci/Capitolo II
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II.
Fuori camminava a testa ritta, nel mezzo della strada, facendo il grande; rispondeva a pena se lo salutavano, tirava via come se sprezzasse tutti; lesto, come se non avesse tempo da perdere. Giunse, per la Via Cavour, fin dov’era una fruttaiola; e, allora, guardò le ceste in mostra; ma senza fermarsi, girando un poco il collo come se avesse da accomodarsi il solino. L’odore delle frutta gli fece allargare e stringere le narici; e gli si piegarono le ginocchia; ma seguitò a camminare; benchè senza raccapezzarsi più dove andasse, e a ogni pochi passi urtando qualcuno; poi tornò a dietro, pensando alle frutta vedute, che se le immaginava più buone e più saporite di quante ne aveva mangiate durante tutta la sua vita. Quasi gli venivano le lagrime, perchè si trovava senza denaro in tasca. Ma decise di supplicare il fratello, perchè glie le comprasse.
In bottega non c’era più il signor Valentini; ed egli disse a Giulio:
— Che voleva quel vagabondo? Quando viene in bottega, un’altra volta, lo prendo a calci nei ginocchi.
— Che t’ha fatto di male? — gli chiese Giulio, ridendo.
— Toh! C’è bisogno che mi faccia qualche cosa di male? Non lo posso nè vedere nè sopportare: ecco quel che mi ha fatto!
— Tu non puoi vedere nessuno. Sei mezzo matto! Già, non saresti della nostra razza!
Allora, Niccolò gli strinse un braccio e gli disse, dopo aver fatto scricchiare i denti, come un ragazzo che non può più contenersi:
— Giulio, Giulio mio! Ho visto certe mele e certe pere che... se le potessi assaggiare, darei dieci anni! Me ne sono invaghito.
Giulio, divertendosi della sua ghiottoneria, gli chiese:
— Erano belle da vero?
— Meravigliose! Con una buccia grassa, che dev’essere come il burro! Io oggi non mangio, se non mi levo anche la voglia di quelle!
— Ci manderemo Enrico, quando viene!
— Sì, sì! Piglia tutto quel che abbiamo incassato stamani; e mandacelo. Fa’ invogliare anche lui.
— Non ci vorrà di molto!
Enrico entrò sbattendo l’uscio, per chiuderlo; perchè quando una volta potevano tenere un commesso, se lo faceva sempre chiudere e aprire. Guardò tutta la bottega; per vedere se c’era qualcuno; sospettoso e pronto a qualche villania. Giulio gli chiese:
— Dove sei stato?
— Sei mio padre, perchè io te lo debba dire? Te lo domando mai io a te?
Niccolò disse:
— Hai ragione!
— Tu stai zitto! — gli rispose Enrico; con la sua voce nasale e strascicata. — Hai sempre voglia di ruzzare. Ho visto escire il Valentini: che ci viene a fare in bottega, se non compra mai un libro? Già non sa nè meno leggere! Perchè non sta a casa sua? L’impiantito, quando è consumato, bisogna rifarlo fare con i nostri denari! Se stesse a casa, il fattore non terrebbe compagnia alla sua moglie!
— È vero? Chi te l’ha detto? Che soddisfazione mi dài!
— Lo so. Quando dico una cosa io, mi chiedete sempre da chi l’ho saputa! Ma, se non ci credete, per me è lo stesso.
Giulio aprì il cassetto dello scrittoio, prese con la punta delle dita dieci lire e gliele porse:
— Vai da Cicia, e compra due chili tra mele e pere.
— Io ci devo andare? O voi non siete capaci?
Niccolò non gli parlava più e non lo guardava nè meno, come se lo avesse irritato. Giulio gli disse:
— È lui che ti vuol mandare.
— Ma io, se devo andarci, compro anche un pezzo di gorgonzola dal nostro pizzicagnolo.
— Fa’ quel che vuoi.
Enrico s’avviò verso l’uscio; e Niccolò, allora, disse:
— Purchè tu ti spicci; invece di stare qui tra i piedi!
E, quando fu escito, seguitò;
— Non ha voglia di fare niente.
Ma tutti e due doventarono silenziosi. Soltanto dopo una mezz’ora, Giulio, che s’era seduto allo scrittoio battendo a colpi regolari le lenti su la carta sugante, disse:
— Con la cambiale d’oggi, sono cinquemila lire di più.
— A me lo dici?
— A chi devo dirlo?
— Non me ne importa. Io non voglio nè meno sentirne parlare.
— Hai paura di guastarti il sangue?
— Giulio! Smettila! Tu sai quel che ho nel cuore. È una spina grossa come il mio pollice.
— Lo so: sarà eguale alla mia.
Allora, Niccolò divenne affettuoso; la sua voce quasi supplichevole e dolce; e sarebbe stato capace di fargli anche le moine:
— Se non ci si volesse bene tra noi, vorrei doventare una bestia.... un rospo!
Giulio lo guardò con tenerezza; ma, il fratello gli disse:
— Non mi guardare!
— Quelle bambine hanno bisogno di vestiti da inverno.
— Glieli farai comprare. Subito! Per loro, faccio anche a meno delle scarpe! Di tutto! Mi lascio morire di fame!
Quando aveva di questi propositi, che gli duravano poco, si drizzava con tutta la persona; mandando in fuora il petto, camminando in su e in giù per la bottega, che allora per lui pareva troppo stretta. Egli era soddisfatto di sè stesso e dava occhiate di orgoglio affettuoso; ansando come se avesse dovuto difendere precipitosamente le due nipoti. Pareva che non potesse stare fermo mai più.
— Per noi, quelle bambine devono essere sacre. Non è vero?
— L’ho sempre detto anch’io.
— Ma Enrico.... Ti pare che Enrico sia del nostro sentimento?
— Diamine!
Ma Niccolò cambiò subito discorso:
— O quando torna con le frutta?
— Sono dieci minuti soli che è andato via!
E Giulio sbirciò il suo orologio.
— Io vado a casa, e vi aspetto là tutti e due. Vieni presto!
Ma Giulio, restato solo, si mise a preparare alcune fatture da riscuotere. Mentre scriveva, entrò, come faceva tutte le mattine, venendo dall’Archivio di Stato, un giovane francese, critico d’arte, stabilitosi a Siena per studiare certi pittori del quattrocento. Era vestito sempre bene; con i baffi biondi e un bastone con il pomo d’avorio cerchiato d’oro. Aveva gli occhi turchini, e i baffi parevano un peso sul sorriso.
— Buon giorno, signor Nisard.
— Buon giorno.
— Che mi dice di nuovo?
— Ho trovato una cosa molto importante su Matteo di Giovanni. Una cosa straordinaria! Una scoperta che farà effetto! Sono molto contento!
Giulio domandò:
— Si può sapere?
— Mi servirà per il libro che sto preparando!
— Allora non voglio essere indiscreto: non voglio che me la dica.
Il libraio aveva una specie di ammirazione per tutto ciò che facevano gli altri: e aveva piacere se glie lo dicevano. Era perciò un buon amico, uno di quelli da confidenze. Gli pareva che gli altri, non compromessi come lui e i suoi fratelli, appartenessero a un mondo che per lui esisteva soltanto prima delle firme false. Ora si sentiva, sempre di più, costretto a subire anche le conseguenze morali della sua colpa. Non avrebbe ardito nè meno di chiedere a un altro che gli si mostrasse pronto a stimarlo. Anzi, non voleva. Si schermiva, doventava timido; faceva in modo che gli altri non gli dessero mai nulla dei loro sentimenti; perchè non voleva ingannarli.
Giudicatosi da sè, accettava soltanto la consapevolezza dei fratelli. Perciò il suo sorriso restava sempre impacciato e riservato; e quelle erano le occasioni della sua tristezza. Niccolò non voleva amicizie e lo rimproverava tutte le volte che era stato affabile con qualcuno. Gli diceva:
— Tu sai che tra noi e gli altri c’è una cosa, che nessuno ci perdonerà. Anche noi, perciò, con gli altri non dobbiamo avere tenerezze.
Giulio ascoltava il Nisard con le mani nelle tasche della giubba, senza alzare gli occhi, come un povero riesce ad essere più contento se sta insieme qualche mezz’ora con un ricco. Non avrebbe voluto nè meno che il Nisard gli dèsse la mano!
Quel giorno il Nisard, pensando che a Siena spendevano pochi denari per comprare i libri, gli chiese per dirne male con lui:
— Va bene la bottega?
Giulio scosse la testa; e, poi, disse:
— Non so come facciamo a andare avanti!
E, allora, il piacere sentito ascoltando il Nisard, lo fece soffrire. Gli pareva una grande ingiustizia e una privazione acuta, che egli non potesse come lui lavorare, senza imbarazzi, a qualche cosa. Gli venivano in mente parecchi progetti, e vi rinunciava a pena li aveva pensati; sebbene, qualche volta, gliene restasse il ricordo nel suo amor proprio. Il Nisard, gli disse:
— Per fortuna ella ha guadagnato in altri tempi, e ora ha i denari per vivere!
Giulio restò un poco perplesso, e poi rispose:
— Già: non è una fortuna da vero! Ma io non me ne voglio preoccupare! Sarà quel che Dio vorrà.
Il Nisard, credendo che esagerasse per spilorceria e per grettezza, si mise a ridere. Giulio socchiuse gli occhi e seguitò:
— Lei non mi crede.
— Ma, signor Giulio, vuol darmi ad intendere....
— Io non dico mai bugie; cioè, non vorrei mai dirle!
E restò soprapensiero. Il Nisard lo guardava in viso come se avesse capito lo scherzo; e gli domandò:
— Crede che io vada a raccontarlo all’agente delle tasse, perchè gliele cresca?
In quel mentre, aprì la porta Enrico, senza richiuderla; tenendo con ambedue le braccia tutte le frutta comprate. Egli disse, allegro:
— Ora, ci manca il gorgonzola! Non inventerete che io penso prima a me e poi a voi! Dite sempre che io sono un egoista!
Il Nisard si divertiva a vedere come Giulio era restato male e imbarazzato. Ma Giulio esclamò:
— Le pere son belle da vero!
Enrico chiese:
— Posso andare a casa? C’è altro da comprare?
Il fratello gli accennò la porta, e quegli uscì.
Enrico, quando aveva comprato qualche cosa, non salutava nè meno: doventava più arrogante e rispondeva male.
Allora, Giulio disse:
— La tavola bene apparecchiata è una nostra debolezza. Siamo tutti eguali: anche la mia cognata. Modesta, l’abbiamo avvezzata male.
Egli ora era impaziente di essere a casa; perchè non lo avrebbero aspettato; e sapeva che i primi sceglievano sempre i bocconi più buoni. Se non ci fosse stato il Nisard, avrebbe chiuso subito la bottega; quantunque un signore gli avesse detto che sarebbe passato a comprare alcuni libri. Egli, pentito, soffriva anche di essersi impegnato ad aspettarlo; e, perciò, si dolse:
— Non capisco come si possono buttare via i denari per comprare la carta stampata! Io sto qui dentro, sacrificato tutto il giorno; non vedo mai di che colore è il cielo; m’è venuto a noia perfino a toccarli, i libri! Bella cosa sarebbe mandarli tutti al macero!
— Ma lei è così intelligente, e parla sul serio a questo modo?
— Sono stato intelligente. Ora, è finita. Ho quarant’anni, e mi sembra di averne ottanta o cento. Lei non mi crede nè meno ora!
Il Nisard allargò le braccia; e, sorridendo, disse che si rassegnava a credergli. Ma Giulio cercava di ricordarsi se avevano comprato il parmigiano da grattare su i maccheroni; e, dentro di sè, diceva: «chi sa come resta male Niccolò quando sente che non è di quello come piace a noi!» E gli pareva di vedere il fratello che se la prendeva con la moglie, senza smettere più, per tutto il pranzo. Era capace di alzarsi da tavola, quando aveva finito di mangiare, e di escire senza, voler parlare più alla moglie fino al giorno dopo; mentre le nipoti, Chiarina e Lola, ci ridevano; ed Enrico diceva che era una sconvenienza da pazzo. Queste cose deliziavano Giulio; che si fermò nel mezzo di bottega, con il viso ubriaco di godimento.
Ad un tratto, si sentirono suoni di parecchie campane insieme. Era mezzogiorno. Giulio, per esserne più sicuro, escì nella strada; ascoltando. L’orologio municipale batteva le ore, con una cadenza placida; e anche San Cristoforo, la chiesa più vicina alla libreria, in Piazza Tolomei, si dette a suonare. La gente era meno rada, e cominciavano a passare gli impiegati. Allora egli disse, con dolcezza:
— Posso chiudere!
Il Nisard, che doveva andare alla villa presa in affitto fuor di Porta Camollia, lo salutò frettolosamente.
Dopo cinque minuti, l’orologio replico le ore; e a Giulio parve che rispondessero proprio a lui, e fossero saporite e allegre come una leccornia.