Trattato di archeologia (Gentile)/Arte romana/II/Primo periodo/Architettura
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I. ― ARCHITETTURA
A. — Parte Iª del Primo periodo.
1. I monumenti di Roma monarchica. — Per maggior chiarezza, divido lo studio di ogni singolo periodo nei tre rami principali dell’arte antica, l’architettura, la plastica e la pittura, come è stato fatto per la storia dell’arte greca. Le comunità del Lazio, quali Alba e Roma, erano nelle prime origini villaggi di capanne. Questo è detto nella storia e dimostrato dalle ricerche archeologiche. Le capanne, secondo il tipo delle urne-capanne laziali, erano rotonde; questa antichissima forma fu poi consacrata nei tempî di Vesta come forma architettonica rituale del sacro focolare. Abitavano queste capanne genti pastorizie ed agricole, che usavano di strumenti di selce e di bronzo, e di suppellettili d’argilla, quali si rinvengono nelle antiche stazioni laziali. Da questa popolazione agricola fu fondata Roma. La prima sua grande costruzione fu la cerchia di mura, che cingeva il Palatino e storicamente si disse, dalla conformazione di quel colle, Roma quadrata, con le due porte Mugionia e Romanula (ved. tav. 43).
Romolo eresse i primi templi romani a Giove Feretrio ed a Giove Statore. Altri luoghi sacri a italiche divinità edificò Tito Tazio, quando furono in Roma congiunte le due stirpi latina e sabina. Sul Quirinale, dopo la morte di Romolo, eresse Numa il tempio a Quirino; questo re consacrò il tempio rotondo a Vesta (ved. tav. 44) ed altri templi alla Fede pubblica e a Giano. Altre costruzioni dei primi re furono il carcere Mamertino di Anco Marzio, la Curia di Tullo Ostilio; ma fu specialmente con la stirpe dei Tarquinî, secondo la tradizione d’origine greco-etrusca, che Roma s’ampliò e si abbellì di grandiose costruzioni.
Tarquinio Prisco pose i principî di molte opere che solo dopo di lui furono compiute. Servio Tullio, come aveva in nuova forma composta la cittadinanza romana nell’ordinamento civile e militare delle classi e delle centurie, così in nuova cerchia di mura raccolse la città, già ampliatasi, sui sette colli del Palatino, Aventino, Celio, Esquilino, Viminale, Quirinale, Capitolino. L’agger servianus era una cinta di grandi e robuste mura (ved. tav. 45), interrotta da torri, di cui alcuni avanzi si vedono recentemente scoperti tra il Viminale e l’Esquilino. Eresse Servio Tullio anche il tempio alla Fortuna virile (ved. tav. 46).
Le costruzioni incominciate dal primo Tarquinio furono condotte a compimento da Tarquinio Superbo, ultimo re di Roma, con molto sudore di popolo, secondo la tradizione narra. Fu allora finito il tempio alle maggiori trinità pagane di Giove, Giunone e Minerva sul Capitolino, detto prima Colle Saturnio; fu prosciugata la bassura di Roma con condotti affluenti nel gran canale della cloaca maxima, che dal Foro romano per il Velabro sbocca nel Tevere, come si vede nella parte che dopo tanti secoli ancora oggi sussiste (ved. tav. 47). L’avvallamento fra il Palatino, il Capitolino e il Quirinale, già da Romolo e da Tazio diboscato e in parte prosciugato perchè servisse di convegno alle due congiunte comunità romulea e sabina, fu dai Tarquinî recinto di edifizî; onde ebbe propria forma ed abbellimento quello che si disse il Forum, centro della vita politica di Roma.
A piedi del Palatino fu eretto il circus maximus per gli spettacoli e i giuochi romani (ved. tav. 49), i quali diconsi introdotti, insieme forse con le forme dell’edifizio a ciò destinato, dall’Etruria; da dove, sempre secondo la tradizione, vennero le insegne reali e il costume della pompa trionfale. Ma il Circo non fu allora probabilmente un vero e proprio edifizio, bensì solamente un terreno spianato e reso adatto alle corse, con intorno preparati i posti per gli spettatori. La tradizione, che fa i Tarquinî di origine etrusca, è a sè consentanea quando loro attribuisce opere di costruzione che, per indicazioni antiche e per loro carattere, sono da ritenere di lavoro etrusco. E noi non possiamo contraddire una tradizione così verosimile.
2. Il tempio di Giove Capitolino. — Etrusco di fondamento, di disposizione e di ordinamento architettonico era certamente il tempio Capitolino, che, incominciato da Tarquinio Prisco per voto nella guerra Sabina, fu costruito per mezzo di ingegneri ed operai chiamati dall’Etruria1 da Tarquinio Superbo, consacrato solo dopo la cacciata di lui, dal console M. Orazio Pulvillo (510 av. C.). Similmente erano etruschi gli aruspici, che dal capo trovato nel porre i fondamenti del tempio avevano vaticinato la futura grandezza di Roma2.
Sorgeva il tempio sul Capitolino, la cui sommità si divide in due vette, una rivolta a sud-ovest (dove ora è il palazzo Caffarelli) l’altra a nord-est (dove sorge la chiesa di S. Maria in Aracoeli). Le due vette sono separate da una interposta bassura, che oggi è la piazza del Campidoglio. Fu lunga controversia su quale delle due vette fosse posto il tempio, il più degli archeologi italiani inclinando a collocarlo sulla parte di nord-est, gli archeologi tedeschi invece su quella di sud-ovest; oggi si tiene generalmente questa ultima opinione3. Era il tempio disposto secondo l’orientazione templare etrusca, coll’ingresso o pronao volto a mezzodì. Nella sua forma primiera stette per più di 400 anni, fino al 671 di Roma (83 av. C.), nel quale anno fu distrutto da grande incendio, ma da Silla poi interamente rifabbricato sui medesimi fondamenti. Incendiato nuovamente al tempo della rivoluzione sotto Vitellio imperatore, fu restorato da Vespasiano; e danneggiato poi nuovamente, fu una terza volta rifabbricato e riconsacrato da Domiziano. Sebbene nelle età di queste ricostruzioni il sistema del tempio romano fosse grandemente mutato per l’influenza greca, pure il Capitolino, per rispetto religioso, stette mantenuto nelle antiche sue forme, salvo che fu adornato con più ricco materiale (Tacit. hist. III, 72 e IV, 53), come già s’era cominciato nella ricostruzione di Silla, che l’ornò di colonne tolte dal tempio di Zeus Olympios d’Atene. Una descrizione del tempio, qual’era dopo la restorazione sillana, ci ha lasciato Dionigi (IV, 61), ed è principal fondamento all’ideale ricomposizione dell’edifizio. Basato sopra una costruzione di grossi blocchi a più ordini di gradini, dentro una area di forma quasi quadrata (cioè con proporzione fra la profondità e la fronte come di sei a cinque, mentre pel tempio greco era di sei a tre) constava di due parti: una anteriore formante il pronao, ornato di un triplice colonnato, cioè con sei colonne sulla fronte, e perciò exastilo, e tre in profondità; l’altra parte posteriore formava la cella della divinità. Da due punti estremi della fronte si stendeva un’ordine di colonne sull’uno e sull’altro lato, in numero di sette. La parte del tempio propriamente detto, ossia la cella, era divisa dal pronao per una grande parete con tre porte conducenti a tre celle, delle quali la mediana e maggiore era quella di Giove, le due laterali minori erano sacre una a Giunone, l’altra a Minerva. Le colonne d’ordine toscanico, disposte a larghi intercolunnî sostenevano la trabeazione, su cui elevavasi il frontone. L’aspetto risultava alquanto greve e tozzo. Il timpano del frontone, secondo l’uso etrusco, era ornato di rilievi di terra cotta; di cotto erano anche una quadriga posta sul culmine del frontone, gli acroterî, e le stesse statue delle divinità nell’interno del tempio. Giove era raffigurato sedente col volto dipinto di minio, e probabilmente vestito con la tunica palmata e con la toga picta, costume dei trionfatori. Le altre due statue di Giunone e di Minerva erano figurate entrambe stanti, come almeno appare da rappresentazioni del tempio sopra monete di Vespasiano e di Domiziano4.
Come il tempio di Giove Capitolino è la più antica opera architettonica di Roma, così anche quelle statue starebbero fra i primi monumenti plastici che dall’Etruria furono portati in Roma. Autore della statua di Giove e forse della rimanente ornamentazione fittile del tempio dicesi Turanius di Fregelle5 (ma è assai contrastata lezione), il quale avrebbe fatto pure d’argilla una statua d’Ercole, detta appunto Hercules fictilis.
Si suppone che d’ordine toscanico fosse il tempio di Diana, eretto, secondo la tradizione, da Servio Tullio sull’Aventino come sacrario della lega romano-latina, dove le originali tavole del foedus latinum erano ancora conservate al tempo di Dionigi di Alicarnasso6.
3. Il tempio e i tre ordini architettonici secondo l’uso romano. — Non si può ben comprendere l’architettura romana quale si presenta dopo queste prime costruzioni toscaniche senza intrattenersi a parlare tosto della forma del tempio quale i Romani riprodussero, modificando quello toscanico con l’influenza greca.
La forma del tempio greco pei Romani più rispondente alle condizioni del rito e della prima forma templare italica, è il prostylos, con questa modificazione che la parte anteriore (pronao) fu avanzata assai più, spingendosi oltre la cella di due od anche di tre ordini di colonne, in guisa che lo spazio occupato dal pronao, misurato dalla parete d’ingresso della cella alle colonne esterne della fronte, eguagliasse in estensione quasi la cella stessa, e la porta della cella, come luogo dell’augure nell’intersezione del templum, si trovasse quasi nel mezzo dell’edificio (ved. Atl. cit., di Arte romana tav. XXXV, n. 1 e n. 2). Questo può dirsi il tipo proprio del tempio romano. Tuttavia il prostilo di schietta, semplice forma greca, col pronao sporgente d’un solo colonnato, non è raro; come anche si ebbero esempi di prostilo pseudoperiptero, cioè con finto colonnato intorno al muro della cella, (ved. Atl. cit. tav. XXXVI) cfr. Parte 1ª Storia dell’arte greca, pag. 37-38; Atl. di Arte greca, tav. XXV-XXVI; LV.
Il tempio rotondo, che presso i Greci non trova ricordo se non di qualche esempio assai raro, fu invece una forma usata presso i Romani, giovando a ciò la volta, l’elemento architettonico proprio italico, che i Romani svolsero in tutta l’estensione del suo valore, come vedremo fra poco nell’applicazione di cupole, semicupole ed absidi. Il tempio rotondo sembra essere stato destinato non solo a Vesta, ma anche a Diana, ad Ercole, a Mercurio. Due specie ne distingue Vitruvio, il monoptero, formato da un semplice colonnato circolare sorreggente una trabeazione pure circolare, sulla quale posava il tetto a forma di cupola; e il periptero, formato d’una cella rotonda di muratura, sormontata dalla cupola, o di un colonnato che girava a porticato intorno alla cella stessa. Di tal forma erano il tempio di Vesta a Roma e quello bellissimo di Tivoli, dei quali esistono ancora ammirabili rovine (ved. Atl. cit., tav. XXXV, 3 e tav. XXXVII; cfr. la nostra tav. 44).
Una terza forma di tempio rotondo, che però da Vitruvio non è indicata, è quella di un corpo d’edifizio circolare, sul cui davanti sporge un atrio a somiglianza del pronao di un tempio prostilo. È in questa forma che il genio architettonico romano sembra aver toccato il suo apogeo con la meravigliosa costruzione del Pantheon (ved. Atl. cit., tav. XLII-XLIV).
I diversi ordini di colonne e di membrature architettoniche greche furono dai Romani adottati nei templi di stile etrusco o greco, e in altri edifizî; ma quei greci elementi ebbero modificazioni quali il gusto della nazione richiedeva, con senso artistico inferiore a quello dei Greci. Il dorico ed il jonico nella loro semplice eleganza poco furono pregiati, o vennero in qualche parte alterati, prendendosi il dorico probabilmente non dalla Grecia ma dall’Etruria con le modificazioni, che nei frammenti di dorico-etrusco si vedono compite, mettendo sotto la dorica colonna una base, variando con aggiunzioni di fregi e fiorami i capitelli, e producendone forme interamente nuove (ved. Atl. cit. tavola XXXIII n. 1 e 2).
Più assai del dorico o del jonico fu usato con predilezione il corinzio, che, più ricco e pomposo, meglio rispondeva al gusto d’una società ricca e fastosa, quale era la romana nell’età fra la Repubblica e l’Impero, ed era anche più adatto come ornamento d’una architettura fondata sulla grandiosità. Ma anche l’ordine corinzio, applicato nel maggior numero d’edifizî romani esistenti, non è più il corinzio genuino dei Greci, bensì con più ricchi viluppi di foglie d’acanto ed anche d’ulivo, frammischiativi altri ornati. Si combinò poi il corinzio con elementi del capitello jonico, cioè con le volute, le quali, nascendo dal ricco fogliame dell’acanto, uscivano, e si ripiegavano sopra questo, producendo quella nuova forma romana che si disse ordine composito (ved. Atl. cit. tav. XXXIV, n. 1 e 2). La colonna poi si combinò coll’arco, cessando d’essere essenzialmente un mezzo di sostegno, una parte organica dell’edifizio; perchè, essendo l’arco intimamente connesso con l’ossatura dell’edifizio, unito e sorretto da forti pilastri o da robuste murature, la colonna perdeva il suo ufficio di fulcro e prendeva solo carattere esterno ornamentale (ved. Atl. cit. tav. XXXVI, e la nostra tav. 46).
Cessarono quindi gli ordini greci d’avere nel corpo dell’edifizio la loro ragione logica, cioè d’essere struttura ed ornamento insieme, per convertirsi in semplice decorazione, e si adattarono con esterna apparenza all’ossatura della fabbrica. Gli ordini di stile poi in un medesimo edifìcio vennero accoppiati e sovrapposti a più piani, facendo più serie di colonne con trabeazione, specialmente ad ornamento esterno di teatri e d’altri edifizi di pubblico spettacolo.
4. Monumenti funerarî e di pubblica utilità in Roma. — Monumento di carattere etrusco in suolo latino oggi ancòra esistente è quello volgarmente designato col nome di tomba degli Orazî, o, secondo altri, tomba di Arunte figlio di Porsenna, e che, senza essere di tanta antichità quanto la leggenda vorrebbe, è tuttavia probabilmente del tempo della Repubblica. Consiste di un basamento di forma cubica di belle pietre squadrate di peperino, su cui si elevavano cinque coni, uno per ciascun angolo ed uno centrale di maggiori proporzioni; due coni sussistono ancora; gli altri sono diroccati. L’interno è una camera sepolcrale. Questo monumento nelle sue linee generali ricorda la descrizione della tomba di Porsenna7.
Se ora passiamo dalla considerazione dei monumenti sepolcrali a quella degli edifici di pubblica utilità, osserviamo che, nell’ultimo tempo della monarchia, Roma già sorgeva a grande città, aveva dominio su gran parte del Lazio; teneva testa contro gli Etruschi; aveva largo commercio, stendeva lontane le sue relazioni, come prova il ben noto trattato con Cartagine8, che spetterebbe al primo anno della Repubblica; e ornavasi di grandi costruzioni.
Ma questo suo grandeggiare come centro di forte e prosperosa monarchia s’interrompe con la rivoluzione, che istituisce la Repubblica, e che mette Roma in gravi condizioni per ribellione di città soggette ed assalti di comunità vicine. In questo antichissimo periodo l’architettura in Roma era etrusca, com’erano etrusche le prime opere di plastica, almeno secondo le poche notizie conservate nella tradizione.
Così nei primi tempi come nel corso dell’età repubblicana, il genio pratico romano volse l’arte ad opere grandiose di pubblica utilità piuttostochè ad opere belle. Nessuna altra classe d’edifizî quanto quelli di pubblica utilità porta evidente, indelebile l’impronta di grandezza e di forza del carattere romano. La miglior parte delle ricchezze dello Stato non furono impiegate in costruzioni splendide e care all’orgoglio di un principe, ma bensì usate ad utile del pubblico, ai bisogni delle città e delle provincie, con grandi strade, acquedotti, ponti, porti, arsenali, terme. A tali grandi costruzioni si prestavano gli elementi architettonici italici, l’arco e la vôlta, la cui invenzione sembra propriamente italica.
5. L’introduzione dell’arco e della vôlta nell’architettura romana. — L’arco fu in uso in Etruria e in Roma nei primissimi tempi, mentre in Grecia dicesi introdotto nell’uso da Democrito filosofo e matematico in età relativamente tarda, cioè circa il 420 a. C. L’arco e la vôlta sono elementi fondamentali dell’architettura romana; per essi si ottenne lo sviluppo delle grandi proporzioni negate dalle leggi statiche e per limitazione di materiali alla disposizione orizzontale degli edifici greci. Con l’arco e con la sua combinazione a formare la vôlta, specialmente nelle costruzioni di mattoni, ottenevasi facilmente la solida congiunzione di opposti lati di vasti edificî, piloni o muri, che in nessuna altra guisa avrebbero potuto esser uniti; e quindi compivasi la conseguente riunione di parti d’edificio in un gigantesco complesso. Per questi fondamentali elementi si poterono coprire, senza bisogno di troppi sostegni mediani, vasti spazî murati, dove nessuna copertura a sistema piano avrebbe potuto bastare. In questa guisa gli spazi vuoti poterono acquistare una maggiore ampiezza, aumentando d’assai il comodo uso degli edifizî; di qui nell’arte romana uno sviluppo dell’architettura interna, quale la Grecia non aveva conosciuto. Aggiungi ancora che le serie degli archi, variate con le linee verticali e orizzontali d’altre membrature architettoniche, producevano anche un bell’effetto estetico, cosicchè si produssero nuove forme di edifizî della vita romana, quali i grandi acquedotti, i monumenti onorari e trionfali, e le terme.
6. La derivazione delle acque; acquedotti, terme, fontane. — Roma difettava d’acqua potabile; le prime cure dell’ingegno costruttivo romano si volsero a provvedere la città di copiose e buone acque. L’arduo problema fu con tal sapienza risolto che Roma divenne ed è ancora la città più ricca d’acque salubri, divise per le pubbliche e private fontane, per laghetti, bagni e piscine. Le derivavano da luoghi lontani per mezzo di grandi condotti sotterranei, oppure acquedotti ad arco, talvolta anche a più arcate sovrapposte; così le acque venivano portate sui punti più elevati della città. I canali mettevano capo a serbatoi (castella), dove le acque dividevansi poi per le fontane pubbliche e per le private. In vicinanza della città le arcate di un acquedotto erano talvolta usate a sostenere due ed anche tre canali, provenienti da luoghi diversi, e parte dell’acquedotto prendeva forma monumentale di arco di trionfo o di porta, come vedesi ancora a Porta Maggiore; erano opere gigantesche, delle quali gli antichi a ragione gloriavansi, affermando non esservene altre maggiori al mondo, ed oggi ancora colle loro rovine sembrano umiliare la civiltà moderna (cfr. Atl. cit., tav. XXXVIII).
Il primo acquedotto fu costrutto nell’anno 312 a. C. dal censore Appio Claudio Cieco, e prese nome di Aqua Appia. Seguì nell’anno 272 a. C. un altro, fatto incominciare dal censore M. Curio Dentato e finito da Fulvio Flacco, che portava in Roma le acque dell’Aniene prendendole a Tivoli, e si trova designato col nome di Anio vetus, a distinzione dell’Anio novus, che è altra derivazione d’acqua da Tivoli, fatta ai tempi degli imperatori Caligola e Claudio.
Terzo fu quello dell’aqua Marcia, così detta dal nome di Q. Marcio Re, che nell’anno 146 a. C. fece costruire l’acquedotto; è questa fra tutte l’acqua più copiosa, più limpida e salubre: clarissima aquarum la dice Plinio, annoverandola fra i doni che gli Dei concessero a Roma. Altri acquedotti si costruirono di poi fino al numero di nove, chè tanti ne conta Frontino, ingegnere dell’imperator Nerva, messo alla sopraintendenza delle acque, e scrittore del trattato de aquaeductibus. Ben osserva Frontino che innanzi ad opere di tanta mole e di tanta utilità perdono pregio le fastose piramidi egizie, e le opere più famose della Grecia. Procopio poi novera fin a quattordici acquedotti.
7. La sistemazione delle strade e della viabilità. — I Romani videro assai per tempo la necessità di numerose e comode strade per ragione dei commerci, ma più assai per ragion militare. E dalla città diramarono molte vie, che conducevano a varî punti d’Italia, e coll’estendersi dell’Impero si prolungarono oltre le Alpi nelle regioni occidentali e settentrionali d’Europa, vincendo ogni guisa di difficoltà coll’alzare terrapieni, coll’assodare terreni paludosi, colmando valli, buttando ponti robusti sui fiumi. Le grandi vie erano spesso tutte lastricate di massi poligonali di dura pietra, ed erano tutte segnate per mezzo di pietre miliarie che computavano le distanze. Sono ora queste pietre miliarie, che rinvenute in gran numero e controllate con i documenti dati dagli itineraria pervenuti fino a noi, ci permettono di ricostruire in gran parte le antiche stationes e mansiones dei Romani. Nelle prime di queste v’era fermata e cambio, se occorreva, di cavalli, per corrieri e per la posta sopratutto, nelle seconde v’era modo di manere, cioè pernottare, facendo riposare i cavalli.
B. — Parte IIª del Primo periodo.
I. — L’arte in Roma sotto l’influenza greca.
1. Osservazioni generali. — Quanto Roma avesse preso dai Greci nell’applicazione e nella trasformazione degli ordini architettonici si è già poco prima veduto. Ma la conquista agevolò e diffuse l’imitazione dell’arte greca in un periodo ancora relativamente antico.
Roma, incendiata dai Galli nell’anno 390 av. C. fu ricostrutta, ma senza regolare disegno, in gran fretta, senza ricchezza di edifizî pubblici e religiosi; i quali non incominciarono a sorgere se non coll’allargarsi dello Stato, con la conquista delle città d’Italia e più ancora poi di Sicilia e di Grecia, che Roma arricchivano di pingue bottino. Nel periodo che precede l’anno 146 a. C. furono inalzati molti templi, nei quali la fondamentale disposizione etrusca, o nazionale italica, certamente già era variata coi principî dell’architettura templare greca. Veramente la influenza greca si faceva sentire non pure nelle forme architettoniche dell’edifizio consacrato al Nume, ma anche nella stessa religione romana, variando la semplice religione italica con la ricca mitologia ellenica; onde probabilmente le modificazioni delle forme templari furono promosse da un’interna mutazione della religione stessa, o almeno seguirono compagne a tale mutazione, la quale è tanta che nel procedere di tempo si confondono miti greci e romani, e in Roma sono rappresentate tutte le forme dell’architettura templare greca.
Era però ancora di forma etrusca il tempio che Spurio Cassio dittatore dell’a. 493 a. C. dedicò a Cerere, Libero e Libera, presso il Circo Massimo, e che Vitruvio ricorda come esempio dell’ordine toscanico. Ma nella medesima occasione la greca influenza segnò pur essa un nuovo passo, perchè ad adornare quell’edifizio di pitture e di opere plastiche d’argilla furono chiamati dalla Magna Grecia Damofilo e Gorgaso, artisti di gran fama come pittori e scultori 9.
L’arte in Roma è importata per mezzo della conquista. Di opere greche, che M. Marcello aveva tolto alla splendida città di Siracusa, da lui espugnata, fu ornato il tempio della Virtù e dell’Onore, eretto nell’anno 207 a. C. fra il Celio e l’Aventino, presso Porta Capena, con disegno di Caio Muzio, che pare il più antico architetto romano, ma che certo lavorava ormai sui principî dell’arte greca, essendo quel tempio ricordato da Vitruvio, come esempio di peripteros. Marcello stesso poi, secondo Plutarco, amava l’arte greca e si gloriava d’averla con le sue vittorie insegnata ai Romani. Nè solo toglievansi statue per ornare templi e nuovi edifizî in Roma, ma perfino si distruggevano templi per usarne il materiale. Così fece il censore Q. Fulvio Flacco nell’anno 173 a. C., che, per erigere un tempio alla Dea Fortuna, fece diroccare il bellissimo tempio di Giunone Lacinia, sorgente fra Crotone e Sibari sul promontorio che dalle rovine è detto oggi Capo delle Colonne (od anche Capo di Nau dal ναός antico)10. Di statue di bronzo rappresentanti le Muse, tolte ad Ambracia nella guerra etolica, fu ornato il tempio di Ercole con le Muse, fatto erigere da M. Fulvio Nobiliore; col bottino della Guerra Macedonica Q. Metello nell’anno 149 a. C. eresse due templi, uno a Giove Statore, di forma peripteros, l’altro prostylos a Giunone, con disegno e lavoro d’architetti e di artisti greci. Autore di questi tempî era Ermodoro (o Ermodio) di Salamina; lavoratori delle colonne e di altre parti dell’ornamentazione erano Sauros e Batrachos lacedemonî, i quali, non potendo a quelle opere apporre il loro nome, lo significarono per un simbolo sculpendovi una lucerta (σαῦρος) e una rana (βάτραχος). Lo stesso architetto Ermodoro è ricordato come autore di un tempio di Marte presso il Circo Flaminio, eretto dopo l’anno 140 a. C. Gli stessi architetti romani in questo tempo erano tanto formati al gusto greco che uno di loro, Cossuzio, fu incaricato da Antioco, re di Siria, di compiere il tempio di Giove Olimpico in Atene, lasciato interrotto fin dall’età di Pisistrato.
Sono proprî di Roma e corrispondenti al suo carattere militare i monumenti onorarî e trionfali, che per decreto del popolo e del senato erano posti a ricordo di un fatto o ad onore d’un cittadino. Antichissimo e forse primo esempio di colonna onoraria è quella rostrata eretta nel Foro a ricordo della prima vittoria navale romana ottenuta a Milazzo contro i Cartaginesi dal Console C. Duilio nell’anno 260 a. C. e che stette come modello delle molte colonne rostrate o navali erette nei tempi seguenti. La base della colonna con la iscrizione, bel documento di latino arcaico, che conservasi ancora oggidì, non credesi sia l’originale, ma bensì una riproduzione posteriore11.
2. Colonne ed archi onorarî in Roma. — L’arco trionfale potrebbe ad alcuno parere monumento di importazione etrusca, essendo di etrusca origine la pompa trionfale; ma non avendosi memoria od indizio d’arco trionfale etrusco, meglio è dire questa forma propriamente romana. La sua origine forse deriva da decorazioni provvisorie del festoso ricevimento di un generale vincitore, cioè trofei d’armi, ornamenti, festoni e ghirlande appesi con iscrizioni ad una porta d’ingresso della città, od anche ad un arco posticcio. Non però sempre gli archi furono eretti veramente per trionfo, molti furono posti come ricordo di altri avvenimenti anche non guerreschi; nè d’altra parte gli archi servivano tutti e sempre veramente alla pompa trionfale, ma il più delle volte venivano eretti dopo la celebrazione del trionfo, in ricordo di esso.
Quanto più cresceva la potenza, la grandezza e la popolazione di Roma, tanto più richiedevansi all’arte nuove forme d’edifizî corrispondenti alle nuove condizioni della vita, più ampie di quelle della vita greca. Luoghi di riunione per il popolo, per il senato, per i varî collegi dei magistrati; archivî, sedi per l’amministrazione della giustizia e per la trattazione degli affari di commercio; luoghi di convegno e dilettevole ritrovo, costruzioni per gli spettacoli pubblici aprivano un campo sempre più largo all’attività edificatrice ed artistica dei Romani.
3. Le basiliche. — Una classe speciale di edificî destinati al commercio, all’amministrazione della giustizia ed a ritrovo d’uomini d’affari fu quella delle basiliche, così dette non tanto dall’analogia con la βασιλική στοά ateniese, quanto dall’aggettivo basilicus «sontuoso, reale». Di tali edifizî nessuno fino all’anno 210 a. C.12 era stato eretto in Roma; la prima basilica fu fatta edificare dal censore M. Porcio Catone (184 a. C.), nel Foro presso la Curia, e la si chiamò Basilica Porcia13.
4. I teatri e i circhi. — Gli spettacoli pubblici non erano limitati alle corse dei cavalli e dei cocchi od alle lotte atletiche, che già dal tempo dei re erano state introdotte dall’Etruria e celebrate nei Circhi; e gli spettacoli teatrali non si riducevano a rozze rappresentazioni teatrali e a danze mimiche, etrusche o italiche, ma in Roma era sorta una letteratura drammatica d’imitazione greca14.
E come di derivazione greca è il drama, così greca fu anche la forma dei teatri (ved. tav. 48). La costruzione di un teatro stabile in Roma data però solo dai tempi di Pompeo; nei tempi anteriori non si avevano se non temporanee costruzioni destinate a formare scena alla rappresentazione, mentre la folla degli spettatori intorno raccoglievasi in piedi. Fu nell’anno 154 a. C. che i censori Valerio Messala e Cassio fecero erigere un teatro stabile (theatrum perpetuum) con vari ordini di sedili; parve cosa dannosa al severo costume antico, e i sedili furono tolti e proibiti. Ma più tardi, dopo la presa di Corinto, introdotti drami greci con greci attori, s’imitarono le forme del teatro greco, costruendo scene e impalcati con sedili per gli spettatori; costruzioni posticcie e disfatte dopo la rappresentazione delle feste (ved. Atl. cit. di Arte romana, tav. XL-XLI).
5. I monumenti sepolcrali. — Scarse sono le reliquie di questi monumenti dell’antico periodo repubblicano; uno dei più insigni dove si vedono applicati gli elementi greci ma con mescolanze etrusche, è il Sepolcro degli Scipioni, importante così nella storia dell’arte come in quella della lingua latina per le sue epigrafi arcaiche. Un monumento sepolcrale della famiglia degli Scipioni, ramo della gens Cornelia, è menzionato in Cicerone, in Livio e in altri autori come posto sulla via Appia, fuori porta Capena. E là fu trovato nell’anno 1780 un ipogeo sepolcrale, e in esso un sarcofago contenente i resti di L. Cornelio Scipione Barbato console nell’anno 298 a. C., con un’iscrizione in versi saturnî che ne ricorda le imprese15. Il sarcofago rettangolare di peperino è ornato nella parte superiore da un fregio dorico di triglifi con rosette inserite nelle metope, e sormontato da una cornice a dentelli e con le estremità a volute, come nell’ordine jonico. Il sarcofago è al Vaticano con altre iscrizioni e un busto, forse del poeta Ennio, rinvenuto nel medesimo ipogeo16 (ved. Atl. cit., tav. XXXIX).
Tavole
Il Colle Palatino e i suoi edifici con gli ampliamenti fatti durante il periodo imperiale.
(Pianta degli scavi fino ai nostri giorni).
Tavola 43. ― Ved. L. Borsari, Topografia di Roma antica, Milano, Hoepli 1897, pag. 328 e 329. (Cfr. A. Melani, Architettura, Milano, Hoepli, IIIª ediz., tav. XX).
Il tempio di Vesta al Foro Romano.
Tavola 44.
Ricostruzione del prof. Auer in A. Schneider, Das alte Rom, tav. III, (Cfr. Denkschr. d. k. Akad. d. W. zu Wien. phil.-histor. Kl. vol. 36, tav. VIII).
Ruderi delle Mura Serviane
(parte interna con segni di scalpellino).
Tavola 45.
Ved. A. Schneider, Das alte Rom, tav. II, 3; cfr. O. Richter, Baumeister, alte Denkm. III, p. 1445 fig. 1591.
Tempio della Fortuna virile a Roma.
Dedicato da Pio V. a S. Maria Egiziaca.
Tavola 46.
Ved. A. Melani, Architettura, Milano, Hoepli, III^ ediz. pag. 91, tav. VII.
La Cloaca Maxima al punto di confluenza nel Tevere col rivestimento seriore di pietra.
Tavola 47.
Ved. A. Schneider, Das alte Rom, tav. II, n. 13. (Cfr. Levy- Luckenbach, Das Forum Romanum, pag. 6, fig. 2.
Note
- ↑ Ved. Livio, I, 56: Fabris undique ex Etruria accitis.
- ↑ Livio, I, 55: Arcem eam imperii caputque rerum fore.
- ↑ Ved. intorno al tempio di Giove Capitolino la descrizione di Dionigi d’Alicarnasso, IV, 61, 3, 4, e la ricostruzione in Durm, Baukunst der Etrusker und Römer. Cfr. un suo disegno in un rilievo di Aureliano (Durm, op. cit., pag. 45); B. v. Köhne, Der Tempel des kapitolin. Jupiter nach den Münzen, Berlino, 1870.
- ↑ Donaldson, Architect. num., pag. 6-11, tav. 3; Cohen, Méd. impér. I2, Vespas. n. 409; Domiz. n.174 (?); cfr. Ephem. epigr. VIII 1892, tav. II, 5 (Dressel).
- ↑ Su Turanius ved. Plinio, XXXV, 45.
- ↑ Sul foedus latinum ved. Dionis. IV, 26: cfr. S. Ricci, Epigrafia latina. Milano, Hoepli, 1898, pag. 160-161.
- ↑ Ved. per la tomba di Porsenna, Guhl-Koner-Giussani, op. cit. II, pag. 116.
- ↑ Il trattato ci è conservato da Polibio nella sua storia romana, III, 22.
- ↑ Cfr. pag. 196; ved. Plin., N. H., XXXV, 154.
- ↑ Ved. Livio. Stor. rom., XLII, 3, Populum romanum ruinis templorum templa aedificantem.
- ↑ Ved. S. Ricci, Epigrafia latina, Milano, Hoepli, 1898, pag. 144 e segg., tav. XXVI.
- ↑ Ved. Livio, Stor. rom., XXVI, 27.
- ↑ F. v. Quast, Die Basilika der Alten, Berlino, 1845; O. Mothes, Die Basilikenform bei den Christen der ersten Jahrhunderte. Lipsia, 1865; Holtzinger, Die römische Privatbasilika (in Repertorium für Kunstwerke); K. Lange, Excursus, II: Basilica Ulpia. — Lesueur, La basilique Ulpienne (Roma), Parigi, 1877; cfr. Donaldson, Architectura numismatica, 1859; utilissimo per lo studio delle monete rappresentanti basiliche romane.
- ↑ Ved. Tacito, Annali, XIV, 21.
- ↑ Ved. S. Ricci, Epigrafia latina, cit., p. 141 e segg. e tav. XXIII-XXV. A tav. XXV e pag. 143 si corregga “quonoro per quorum„ sfuggiti per errore, in “duonoro per bonorum„.
- ↑ Cfr. Sui sarcofagi romani in confronto coi greci e coi cristiani, ved. Guhl-Engelmann, Matz, Über den Unterschied der griech. und römischen Sarkophage, dall’Archäol. Zeitung, XXV, pag. 16 e segg.; René Grousset, Étude sur l’histoire des sarcophages chrétiens.