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II. Plastica

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II. - PLASTICA.


1. Osservazioni generali. — Presso gli Italici, come pure presso i Greci, le prime forme d’espressione del concetto divino furono semplici simboli, come pietre, alberi, armi, creduti avere in sè del divino1. Le prime vere imagini, secondo la tradizione e per effetto della civiltà più progredita, vennero in Roma dall’Etruria.

I simulacri fittili di Giove, Giunone, Minerva, e la quadriga sul frontone, e tutta la [p. 220 modifica]ornamentazione del tempio Capitolino, fu opera etrusca. Mancò ai Latini la creatrice potenza fantastica dei Greci, presso i quali, nella fantasia dei poeti e nella mente popolare il tipo divino, nelle varie sue attribuzioni, si formò e si porse bello all’arte figurativa. Se stiamo alle più antiche indicazioni di opere plastiche menzionate nelle fonti letterarie, troviamo già nell’età più antica opere di plastica raffiguranti persone e tipi individuali; la qual cosa sembra conforme allo spirito romano pratico anche nell’arte figurativa, e dà prova che quelle opere, o almeno l’arte che le compiva, non erano nate dal processo formativo dell’arte popolare, ma bensì erano prodotti di una nazione che l’arte già aveva bene sviluppata, cioè degli Etruschi. Tali opere non si possono ascrivere ai tempi a cui la tradizione le riferisce, ma da queste la tradizione fa incominciare l’arte plastica romana. Nessuno penserà di porre fra le opere dell’arte primitiva di Roma le statue d’Evandro, di Giano, di Romolo, di Tazio, di Numa, d’Anco Marzio, di Atto Navio, di Giunio Bruto, di Orazio, di Porsenna, e quella equestre di Clelia, ricordate da Dionigi, da Livio, da Plinio e da altri scrittori, statue certamente esistite e dagli scrittori vedute, ma opere di tempi posteriori.

L’arte figurativa per lungo periodo dell’antica età romana fu esercitata assai scarsamente. Mancò a Roma una religione che fosse come la greca un ricco centro poetico ed estetico. Le divinità propriamente italiche espresse nella statuaria sono poche, molte invece quelle italiche o romane grecizzate, e le divinità veramente greche introdotte in Roma. E l’insinuarsi del mito greco in Roma diveniva esso pure un mezzo efficace all’introduzione dell’arte greca. L’arte figurativa romana si [p. 221 modifica]sviluppò a poco a poco coll’ampliarsi della vita politica, della potenza dello Stato, quando o per nobile orgoglio delle famiglie, o per riconoscenza del senato e del popolo si ponevano in privato od in pubblico imagini d’uomini insigni.

Le imagines maiorum, che i nobili Romani conservavano negli atrî delle loro case, con aggiunte, inscrizioni, a forma quasi d’alberi genealogici, non erano statue, ma volti o maschere di cera, non opera d’arte ma tale da contribuire allo sviluppo dell’arte. Di statue poste a uomini insigni in tempi anteriori all’incendio gallico e di simulacri di divinità consacrati nei templî, e formati, all’uso greco, con il ricavo del bottino di guerra, troviamo ricordi negli scrittori. Ma del concetto, del carattere artistico degli autori di tali opere mancano le notizie. Memorie d’una scuola di scoltura non troviamo, ma invece alcuni nomi latini su monumenti del VI secolo; per primo, p. es., quello di Novios Plautios inscritto sulla rinomata Cista Ficoroni2, rinvenuta a Preneste (Palestrina) nel secolo passato e illustrata più volte (ved. la nostra tav. 34).

2. La plastica romana applicata alle ciste istoriate. — Appartiene quest’opera a quella classe di monumenti detti ciste, il cui numero oggi si è venuto aumentando, e che, essendo abbondante nelle [p. 222 modifica]tombe di Preneste, diede nome alle ciste Prenestine; se ne noverano ben settantacinque. Come già s’è accennato, queste ciste sono vasi, o cofanetti di forma cilindrica, e talvolta anche ovali, fatti di bronzo, d’argento, o di bronzo con rivestitura d’una lamina d’argento, od anche infine d’una lamina di legno rivestita di metallo od anche di cuoio; muniti di coperchio con manico e sostenuti da tre peduncoli; quasi sempre forniti di catenelle per chiudere il cofanetto e portarlo. Vi si trovano specchi, strigili, balsamarî, aghi crinali, pettini, suppellettili di toletta. Il corpo della cista è ornato di disegni, graffiti nel metallo, come sugli specchi etruschi. Strano è che nel corpo del cofanetto così istoriato sono infìssi di solito quattro o sei, ma talvolta fino ad otto o dodici anelli da tenere le catenelle, ma che, così disposti, spezzano e guastano il disegno. Sarebbero posteriori aggiunzioni?

I disegni di queste ciste hanno in generale un valore artistico assai ristretto, sono di carattere italico, cui manca il vivo spirito estetico greco; si ascrivono ad un’età non posteriore alla metà del VI secolo di Roma.

Per rilevare il posto che occupa la cista Ficoroni nella storia della plastica bisogna studiare le tre piccole figure con forme tozze e grossolane di stile italico formanti il manichetto, mentre sul corpo della cista sono disegni di ottimo stile greco, rappresentanti favole greche, quale l’approdar degli Argonauti alle spiaggie di Bitinia: abbiamo nella Cista Ficoroni, pertanto, due indizi di diverso indirizzo dell’arte in Italia: uno stile greco ed uno stile nazionale; doppio stile che appare spesso manifesto anche in monumenti dell’arte etrusca (ved. tav. 34).

Novios Plautios, greco, od osco di Capua, liberto [p. 223 modifica]della gens Plotia avrebbe lavorato in Roma e vi sarebbe divenuto celebre3.

Altro nome d’artista latino è quello di Caius Ovius della tribù Ufentina, aggiunto ad un piccolo busto di Medusa in bronzo di alto rilievo, con l’inscrizione C. Ovius Oufentina fecit. La forma delle lettere accenna ad un alfabeto proprio di città meridionali, delle quali molte spettavano alla tribù Ufentina, che sembra essersi costituita nell’anno 317 av. C. Forse l’autore è di questa regione prossima alla Magna Grecia, e quindi più aperta alla greca influenza, manifesta in questo lavoro.

Un Caius Pomponius della tribù Quirina è autore d’una statuetta di bronzo, cui si diede nome di Giove, raffigurante un giovine imberbe col petto ignudo; e un mantello sul dorso; l’iscrizione dice C. Pomponi Quiri(na) opus, e dai caratteri paleografici si giudica dell’età intorno alla seconda guerra punica. Non mostra però questa statuetta tracce d’influenza greca, ma è di stile prettamente italico, o forse etrusco, se si giudica anche dalla sua provenienza da Orvieto.

Di artisti latini antichi non si hanno altri nomi, se non forse quello di un C. Rupius, nome inscritto sopra una statua di terra cotta, raffigurante giovane uomo (Ercole?) seduto, coperto d’una pelle di leone. Lo stile ha molto del carattere etrusco, ma è già libero e sciolto. [p. 224 modifica]

Opera dell’arte latina doveva essere certamente la statua di Giove imperante, tolta a Preneste e portata a Roma nel tempio Capitolino da Tito Quinzio dittatore, che vinse i Prenestini nell’anno 380 av. C. A questa statua era apposta un’iscrizione in verso saturnio4.

Indizio dell’arte antica latina dànno anche le monete, massime dopo l’anno 271 av. C., in cui si cominciò a coniare l’argento; e specialmente le monete dette consolari, o le familiari, segnate coi nomi e coi tipi dei tresviri monetales, con l’effigie di Roma galeata, dei Dioscuri, ovvero con altri tipi. L’arte di questi conî è ancora rozza; l’impronta stanca; le figure tozze, il profilo di Roma non bello; ma i tipi a poco a poco vanno migliorando in progresso di tempo.

Note

  1. Ved. Gentile, Storia dell’arte greca cit., pag. 43.
  2. Cfr. S. Ricci, Epigrafia latina cit, tav. LII. È ora nel Museo Kircheriano al Collegio romano in Roma. L’iscrizione in carattere del VI sec. di R. dice: Dindia Macolnia filea|i| dedit | Novios Plautios med Romai fecid. La dama prenestina Dindia Macolnia passò in regalo la cista alla figlia. Si corregga quindi al luogo cit. dell’Epigrafia latina la voce filea in filea|i|, come richiede il senso. Ved. per la Cista Ficoroni inoltre: E. Braun, Die Ficoronische Cista, Lipsia. 1830; O. Jahn, Die Ficoronische Cista, 1852; cfr. Schöne, in Ann. Istit. Corr. Arch., 1868, pag. 150; e inoltre Annali, 1864, pag. 356; 1866, pag. 357; 1876, pag 105.
  3. Le tombe prenestine sono abbondanti di ciste e d’oggetti d’ornamento muliebre. Fra le varie ciste una per la rappresentazione sua singolarmente importante è quella in cui pare raffigurata l’unione di Enea con Lavinia, onde sarebbe indicata la piena e diffusa esistenza della leggenda già nel VI secolo di Roma. Degli oggetti di toletta muliebre contenuti nelle ciste molti sono orientali, cioè vasetti d’alabastro, smalti, oreficerie, e provano le relazioni commerciali che fra il Lazio e i paesi transmarini erano mantenute da mercanti fenicî.
  4. Ved. Livio, Storia rom., VI, 29.