Trattato del piede/Parte prima/Sezione terza/Malattie del piede
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Traduzione dal francese di Carlo Cros (1838)
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MALATTIE DEL PIEDE.
Queste affezioni, numerose e variate, possono essere determinate dal camminare continuo su terreni aridi, duri, sassosi e scabri; dall’urto, dal contatto dei corpi esterni, ed anche dai piedi fra di loro; dalla deviazione d’alcuni raggi superiori o giunture; infine, dalla ferratura1. Le une, siccome i nocchi e le su gellazioni, non si stabiliscono che in certe regioni del piede: mentre le altre, come la riprensione, possono non solo occupare tutto il piede, ma estendersi alla corona ed alla pastoja. Molte guariscono prontamente, e non sono pericolose che quando vengono trascurate o mal curate; alcune ostinate non spariscono che dietro cure ben regolate ed a lungo continuate; alcune altre infine resistono a tutti i mezzi che si possono mettere in pratica, e finiscono col deteriorare intieramente il piede. Certe lesioni restano latenti più o meno a lungo, mentre altre si fanno scorgere al principio stesso del loro sviluppo.
Riesce sovente difficile, anzi alle volte impossibile, riconoscere la sede delle malattie del piede. Tutte le volte che il male risiede in questa regione del membro, il cavallo, tenuto alla mano ed esercitato ora al passo ora al trotto, non fa un appoggio franco ed uguale su tutta la superficie plantare dello zoccolo; alcune battute sono subitanee, o si effettuano principalmente sulla punta, oppure hanno luogo su d’un quarto piuttosto che sull’altro. Alle volte l’animale può appoggiare più forte nel tallone, come ciò succede nel caso di riprensione. Essendosi ottenuta questa conoscenza primitiva, resta ancora a scuoprire il punto doloroso e la natura dell’affezione. Per giungere a questo scopo, si sferra dapprima il cavallo, poi si guarda se il ferro che portava non produceva compressione od incomodo capace di cagionare la zoppicatura; dopo tale esame, si prende un pajo di tanaglie, colle quali si comprime, si esplora tutto il piede2. Se si vuole esplorare più scrupolosamente, bisognerà cominciare coll’abbattere l’ugna e pareggiare più o meno,secondo l’intenzione che si avrà, o di mettere allo scoperto tutta la parte offesa, o solamente assottigliare l’ugna, sino a che sia flessibile e si possa di nuovo esplorare con maggiore vantaggio. Tutte queste ricerche riescono alle volte infruttuose, e non si trova alcuna traccia di lesione; in questo caso, conviene abbandonare il piede per due o tre giorni, ed applicargli durante questo tempo un cataplasma emolliente, affine di rammollire l’ugna e rendere più sicure le nuove indagini.
Quasi tutte le alterazioni richieggono il sussidio della mano, l’uso degli stromenti di ferratura, soprattutto quello dell’incastro, del quale servesi non solo per pareggiare e disporre il piede a ricevere il ferro ed a subire un’operazione qualunque, ma ancora per abbattere l’ugna esuberante, la quale, nelle piaghe in conseguenza di operazioni, non stabilisce che assai di sovente compressioni parziali, fa nascere fistole, diversi bottoni carnosi, e ritarda così od impedisce compiutamente la cura. La maggior parte di queste affezioni richiede una ferratura particolare, tanto per assicurare il più che si può la marcia del l’animale, quanto per facilitare le medicazioni; alcune, non potendo guarire senza grandi disfacimenti, richiedono operazioni chirurgiche, le quali esigono molta destrezza e conoscenze anatomiche alquanto estese ed esatte.
Le operazioni bisognevoli per le malattie del piede in generale non vengono mai eseguite troppo presto; le punture, le ritirate, le inchiodature, i chiodi da strada, esigono sempre pronte aperture, affine di prevenire l’infiammazione interna, evitare le raccolte purulenti, o dare scolo al pus già formato ed il di cui soggiorno può cagionare guasti estesissimi. In quanto alle avvertenze che richieggono le scalfiture3, possono dividersi in quelle che precedono l’operazione, in quelle che si devono avere operando, in quelle infine che devono essere continuate sino al compiuto ristabilimento del piede. I riguardi da aversi, prima d’ogni operazione, si estendono all’animale, come agli oggetti diversi dei quali bisogna anticipatamente essere premunito. In generale, le operazioni leggieri e poco dolorose possono essere praticate in ogni ora della giornata, senza che siavi bisogno preparar il cavallo. Ogni volta che la malattia deve cagionare un’ampia ferita, suscettibile di produrre febbre, far soffrire l’ammalato, dibattersi e difendersi, è indispensabile per operare, sia l’animale digiuno e preparato da un regime di alcuni giorni.
Certi cavalli torpidi e generalmente poco sensibili, subiscono le più gravi operazioni senza esservi stati preparati e senza risentire alcun incomodo notabile nell’esercizio delle loro funzioni. Non succede lo stesso nei giovani animali, soprattutto nei cavalli ardenti e talmente irritabili, che non possono sentirsi contenuti da legami, e molto meno ancora sopportare le ferite dello stromento tagliente. Le piaghe ampie, eseguite senza previe precauzioni, quelle soprattutto che si praticano nelle parti ove la sensibilità è molto esaltata, sono sempre pericolose, e non divengono che troppo sovente funeste. Non si saprebbero adunque usare sufficienti riguardi per disporre i soggetti di simile temperamento alle operazioni che devono subire. I bagni ed i cataplasmi emollienti sulla parte ammalata, combinati con un regime diluente, che si fa osservare all’animale durante i due o tre giorni che precedono quello dell’operazione, sono mezzi efficaci coi quali si previene ordinariamente la febbre locale. Questa reazione, sempre da temersi, può divenire generale, impedire la suppurazione e dar luogo ad accidenti funesti. In tutti i casi, è prudente e di buon metodo disporre dapprima, ed anzi alla vigilia, se ciò è possibile, il piede ammalato; bisogna pareggiarlo, ferrarlo secondo lo richiede l’operazione che proponesi praticare; dopo di che, lo si involge con un cataplasma emolliente, sino al momento d’eseguire l’operazione.
Una precauzione di un altro genere, che non deve essere dimenticata dal veterinario prima di mettersi all’opera, si è di disporre e preparare tutto ciò che deve comporre l’apparecchio da applicarsi, come pure gli stromenti ed altri oggetti necessari. Quasi tutte le piaghe di cui trattasi esigono per la zione, 1° un ferro apposito; 2° stoppe disposte in faldelle, stuelli, rotoli di diverse grandezze; 3° sostanze medicamentose colle quali si caricano il più di sovente le prime stoppe, o che si applicano immediatamente sulla piaga; 4° una lunga benda o fa scia, rotolata alle due estremità e destinata a fermare le piumacce4. Nella semplice dissuolatura, si tengono fisse le faldelle per mezzo del ferro detto a dissuolatura (Tav. III, fig. 21), e due stecche di legno mantenute dal lato del tallone da una traversa che passa sotto i gambi del ferro. Nel caso di estirpazione della suola e del quarto nel medesimo tempo, si fa uso di stecche e di fasciatura. Per compiere la medicazione, è necessario disporre un pezzo di tela grande sufficientemente per coprire tutto il piede su cui si opera, e bisogna anche premunirsi d’una legatura per mantenere tale involto.
Per quanto lo permettino le circostanze, è bene operare gli animali in piedi, attaccandoli semplicemente al muro, o facendoli tenere a mano: mediante questa pratica, si sbarazzano più prontamente, e si evitano loro soprattutto gli sforzi violenti, i quali hanno sempre il grave inconveniente d’aumentare i dolori e rendere le operazioni più pericolose. Si può operare così pel salasso in punta, per la setola ad imboccatura di flauto, per le sobbattiture, pei chiodi da strada, scheggie e rottami diversi, che non penetrano al di là del tessuto reticolare. Può anche la semplice dissuolatura effettuarsi nello stesso modo, soprattutto quando la suola è in parte sollevata dalla materia purulenta. La cavezza ordinaria o da forza, la lunghina, le pastoje, il torcinaso, la capotta o capuccio, gli occhiali, la morsa, il collare in corona od a rosario e l’imbaglio sono gli stromenti ordinari dei quali si fa uso per fermare e contenere gli animali. L’uso di questi stromenti è abbastanza conosciuto perchè sia necessario entrare in particolarità a loro riguardo; particolarità che d’altronde si riscontreranno in differenti opere stampate.
Si potrebbero eziandio francare gli animali in una macchina o travaglio, costrutto a questo scopo; ma tal specie di macchine, delle quali trovasi una storia molto circostanziata negli Élémens de pathologie vétérinaire di Vatel, sono oggigiorno poco usitate, tanto a causa della loro complicazione, quanto perchè queste sono stabili e non ponno essere trasportate da un luogo all’altro che con maggiore o minore imbarazzo e spesa. Diremo anche che i cavalli ardenti e cattivi, essendo contenuti in una macchina, non si trovano certamente al coperto da tutti gli accidenti5. Molti cavalli non potrebbero operarsi in piedi senza i più gravi pericoli tanto per essi, quanto per l’operatore e gli assistenti: è convenevole e prudente cosa coricarli, rovesciarli cioè ed assicurarli sur un letto di paglia, o su di un suolo molle, in modo che il cavallo non possa ferirsi; bisogna agire così in tutte le operazioni che esigono ampie lacerazioni e molte precauzioni. Si giunge a rovesciare il cavallo sul letto a ciò disposto, impiegando o le pastoje sole, oppure le pastoje colla lunghina, o la lunghina sola, od un laccio solo, o semplicemente il bridone senza altro legame.
1.° Impiego delle pastoje sole. Le pastoje, delle quali troverassi particolare descrizione nella precitata opera di Bourgelat, sono in numero di quattro, con un laccio solo. Questi diversi pezzi servono ad avvicinare le quattro estremità ed a far perdere l’equilibrio all’animale; ma per effettuare il rovesciamento del cavallo è necessario il soccorso di alcuni assistenti, uno dei quali collocato alla testa è destinato a sostenerla in modo che non abbia ad urtare sul suolo; un secondo, tenendo la coda, tira sul letto l’animale appena comincia a perdere l’equilibrio; due o tre altri tirano il laccio ed avvicinano le membra; l’operatore, situato contro la spalla, spinge con una mano l’animale sul letto, mentre coll’altra afferra il laccio e coadiuva all’avvicinamento delle quattro mità. Tale è in succinto la maniera ordinaria di coricare i cavalli colle pastoje. Non entreremo in nessun’altra particolarità su di una maniera d’agire generalmente usitata; non l’abbiamo anzi ricordata, che per spiegare il metodo col quale l’operatore può, quando si trovi solo e senza assistenti, giungere a rovesciare e contenere l’animale. Condotto l’ammalato ed attaccato vicino al letto, gli mette le pastoje, come per l’ordinario, ed annoda il laccio passato nelle anella delle pastoje ad un palo,ad un anello, od a tutt’altro corpo. Eseguite queste prime disposizioni, si posta contro il cavallo dal lato sul quale ha intenzione di coricarlo, gli avvicina più che può le membra; afferra in seguito con una mano la coda, coll’altra la criniera, e dà nello stesso mentre un calcio all’animale, per determinarlo a portarsi avanti. Cercando operare questo movimento, il cavallo si trova avvinto nelle pastoje, negli sforzi che fa per sbarazzarsi perde l’equilibrio, e l’operatore coglie quest’istante per rovesciarlo. Allorchè l’animale corre pericolo d’urtare la testa contro il muro od il palo al quale è fermato, è cosa prudente, dopochè si sono messe le pastoje e fermato il laccio, staccarlo, anzi allontanarlo da ogni corpo contro del quale potrebbe farsi del male. Si sostiene la testa colla mano, che impugna la criniera e la redina del bridone nello stesso mentre. La manovra di cui trattasi può eseguirsi impiegando solamente tre pastoje, due al bipede anteriore, ed una terza alla quale è attaccato il laccio, al piede posteriore, del lato sul quale devesi coricare l’animale. Quest’ultimo processo mi sembrò più speditivo e più sicuro per co ricare il cavallo.
In molte circostanze non si hanno pastoje a propria disposizione, e trovasi nella necessità di rimpiazzarle in un modo qualunque. Si ricorre in allora a dei lunghi tessuti di canapa o ad altre corde di eguale natura e forza, colle quali si formano delle specie di pastoje. Una fune della lunghezza di cinque piedi o cinque piedi e mezzo è sufficiente per attaccare ogni bipede anteriore e posteriore; ma ne abbisogna una terza per servire da allacciare; mentrechè con due lacci di sette ad otto piedi ciascheduno, si possono impastojare le quattro estremità e rovesciar l’animale.
2° Impiego delle pastoje colla lunghina. Il soccorso della lunghina per attirare il cavallo sul letto, nel momento in cui comincia a perdere l’equilibrio, è d’un vantaggio incontrastabile, e può schivare vari accidenti; alcuni cavalli sensibili, inquieti od inpazienti, si abbandonano a movimenti violenti tosto sentonsi le membra colte da lacci; s’alzano lanciandosi fuori del letto, si gettano sul terreno o sul selciato con una forza che nulla può vincere; di sovente urtano, strammazzano contro i muri, oppure cadono sulla testa, e si lussano l’incollatura. La lunghina è un possente mezzo per contenere questi animali, spaventati o cattivi, coricarli sul letto ed evitare gli accidenti precitati; diremo anzi che il suo impiego riesce di savia precauzione in tutti i casi. Dopo vere applicate le pastoje, si abbraccia la metà del corpo colla lunghina, la quale viene confidata ad assistenti, che tirano dal lato del letto, quando viene dato il segnale, mentre quelli che stanno al laccio ed alla coda agiscono nel medesimo tempo.
3° Impiego della lunghina sola. Vi sono dei cavalli talmente cattivi e selvaggi, che non soffrono lasciarsi toccare, nemmeno avvicinare, ed ai quali sarebbe impossibile il mettere le pastoje. Con due lunghine si giunge a rovesciarli sul letto a ciò preparato, poscia si applicano loro le pastoje e si fissano come conviene per l’operazione che devono subire. L’una di queste lunghine deve essere impiegata, come già si disse, per impedire che l’animale si lanci fuori del letto; l’altra è destinata ad impadronirsi, mediante un nodo corsoio, del pastorale anteriore del lato sul quale si desidera coricare l’animale. Quest’ultima lunghina viene dapprima stesa a terra, ed il nodo corsoio formato dal lato dell’ansa è spiegato in cerchio d’una certa grandezza. Accompagnato il cavallo sul luogo da uno o più assistenti, a seconda della sua cattiveria e di sua impetuosità, viene condotto sulla lunghina, e lo si fa muovere finchè metta il piede anteriore a ciò destinato nel modo corsoio. Tirando prontamente dal basso all’alto l’altra estremità della lunghina, si fa rimontare e stringere il nodo corsoio al disopra dello zoccolo, ed il membro trovasi così prese nel laccio. La seconda lunghina è in seguito passata a traverso del corpo con o senza nodo corsoio. Trovandosi l’animale vicino più che si può al letto, l’operatore dà il segnale affinchè tutti gli assistenti agiscano simultaneamente. La lunghina che abbraccia il corpo verrà tirata dalla parte del letto, mentre quella della pastoja sarà diretta indietro ed in senso contrario alla prima, affine di piegare il membro e fargli perdere l’appoggio. Allorchè questa manovra è eseguita con destrezza ed unione, si giunge a rovesciare nel primo colpo il cavallo ed a farlo cadere senza accidenti, ma se si è obbligati rinnovarla perchè non riescita dapprima, il cavallo diviene più impetuoso e più furibondo, quindi è assai difficile che si lasci abbattere, stando esso in avvertenza.
4° Uso del laccio solo. Durante il corso de’ suoi studi alla Scuola veterinaria d’Alfort, nel 1829, l’allievo Rohard ci comunicò il modo che un pratico gli aveva insegnato per coricare i cavalli, servendosi solamente di un laccio. Dopo avere spiegata tutta la teoria del modo di procedere ed avere stabilito che il laccio impiegato deve avere una lunghezza di venti a ventiquattro piedi pei cavalli grossi, e di venti a ventidue per quelli di mezzana statura, Rohard fece in nostra presenza e di molti altri professori ed allievi l’applicazione del metodo, che ebbe la compiacenza rinnovare ogni volta vi veniva invitato e sempre coll’eguale celerità e felice successo. Abbiamo anche noi provato,ed a molte riprese, questa manualità che richiede bensì una certa forza, ma esige più particolarmente una destrezza e prontezza tale, che l’abitudine sola può comunicare. Questo metodo semplice in quanto che si pratica con un solo laccio, parve dovere riuscire vantaggioso specialmente nelle campagne, ove mancano sovente i mezzi necessari per coricare e contenere i cavalli da operarsi. Consigliammo Rohard di compilare una descrizione di questo processo e di far stampare la sua notizia, inserita nel Recueil de médecine vétérinaire, tomo ottavo, 1831.
Il cavallo essendo tenuto a mano e dovendo coricarlo sul lato destro, deve l’operatore, secondo Rohard, collocarsi contro la spalla destra dell’animale. Prende l’estremità del laccio, sprovvista di ansa, misura una lunghezza di circa sette piedi e mezzo, ed effettua a questa distanza un primo nodo, il quale non deve essere stretto che debolmente, ed in modo da presentare un anello. Per questo mezzo, il laccio trovasi diviso in due parti ineguali, l’una di quindici a sedici piedi di lunghezza e l’altra di sette ad otto piedi solamente. L’estremità corta destinata a cingere la base del collo è gettata dal lato sinistro, pel dissopra del garrese, da dove è ricondotta al dissotto ed in avanti del petto, contro la spalla destra, ove passa nell’anello precedente, al basso del quale si attacca al lungo capo e vi è fermata per mezzo d’un anello d’arresto. Formando questo secondo nodo, l’operatore sorveglierà che il primo nodo situato immediatamente al dissopra sia disceso a sufficienza, per trovarsi alquanto inferiormente alla punta del braccio (angolo scapolo-omerale); non perderà di vista che il collare stabilito alla base del collo deve avere una certa ampiezza, senza la quale produrrà, allorchè il cavallo sarà attaccato sul letto, una compressione troppo forte, capace di impedire la respirazione e produrre anche il soffocamento. La restante parte del laccio, la più lunga, è impiegata ad incordare6 i membri per avvicinarli gli uni agli altri e fissarli allorchè l’animale è coricato. L’estremità del piccolo capo del laccio essendo francata, come fu detto qui sopra, si comprendono i due avambracci in un nodo corsoio che si forma colla lunga estremità del laccio passata dapprima sotto il petto, poi sopra l’avambraccio sinistro, in seguito a traverso sulla faccia anteriore dei membri, e ricondotto contro il braccio destro sino al nodo d’arresto. L’estremità dello stesso capo è allora passata per dissopra la parte proveniente dal nodo-anello, ed il nodo corsoio trovasi formato. Si avvicinano lentamente i due membri anteriori l’uno all’altro, affine potere convenientemente serrare il giro che li circonda, e che si mantiene all’altezza del terzo superiore dell’avambraccio. Dopo ciò, il laccio portato indentro sotto il ventre, va a cingere la pastoja sinistra passando dal l’infuori all’indentro; e per ultimo viene ricondotto in avanti e dal lato destro, contro il garrese. L’operatore che eseguisce tutte queste manualità, deve allora collocarsi dal lato sinistro dell’animale, un poco indietro della spalla; appoggia le due braccia sul dorso vicino al garrese, tiene nelle due mani l’estremità del laccio, e si dispone in modo che il suo ventre trovisi applicato contro il corpo del cavallo, affinchè questo vi trovi un punto d’appoggio, allorchè sarà per perdere l’equilibrio. Il tutto così disposto,si procede al rovesciamento dell’animale, cominciando col tendere il laccio che proviene dall’indietro, e ch’egli tira in avanti; dopo di che, percuote leggermente col suo piede destro il membro posteriore sinistro, il quale non tarda ad alzarsi. Tirando allora sul laccio con precauzione e senza scosse, porta lo stesso membro il più avanti possibile; e mentre l’animale si sforza per riprendere l’appoggio sul piede preso nel laccio, l’operatore comunica all’assistente destinato a sostenere la testa il segnale d’agire, mentre egli stesso tira con forza e prontezza l’estremità del laccio, affine di raccorciare il più possibile la parte appiccata alla pastoja. L’assistente e l’operatore agendo simultaneamente, il cavallo sdrucciola, per così dire, sul corpo di questo e cade senza alcun pericolo.
Pei movimenti che fa l’animale, il nodo che cinge gli avambracci si ristringe, discende sino ai canoni e contiene in modo invariabile i due membri anteriori. L’operatore non ha dunque che ad occuparsi delle estremità posteriori, che francherà una dopo l’altra al collare; ed il membro già preso nel laccio è sempre il primo fissato. Dopo avere tirato sufficientemente in avanti questo membro, eseguisce coll’estremità libera del laccio un secondo giro alla pastoja, lo contorna in seguito colla parte di corda che proviene dal nodo corsoio, e passa il laccio definitivamente nel collare ove viene assicurato con un nodo imitante quello del salasso. Il rimanente del laccio è ancora sufficientemente lungo per poter afferrare l’estremità destra, legarla e fissarla nello stesso modo alla collana dell’incollatura.
«Il cavallo che si atterra, dice Rohard, mediante il processo che ho indicato, non cade mai tutto ad un tratto. Allorchè l’operatore, tirando sul laccio porta il membro posteriore sinistro in avanti e dal lato opposto alla diagonale, l’animale abbassa poco a poco la groppa, cade sempre lentamente e senza farsi male, anche su di un suolo duro ed ineguale; ma è facile farlo cadere su di un suolo unito, poichè non può indietreggiare che ben poco, e cade quasi sempre sul posto.» Riconoscendo al processo in quistione tutti i vantaggi che gli attribuisce Rohard, non gli accorderemo certamente la preferenza all’impiego delle pastoje, diremo anzi che presenta degli inconvenienti notabilissimi. Siccome si è quasi sempre obbligati, per ottenere la lunghezza richiesta, d’annodare lacci o corde le une in seguito alle altre, il nodo intermedio produce compressioni ed impedisce lo sdrucciolamento del legame. D’un altro canto, lo sfregamento del laccio nel pastorale del primo membro afferrato può produrre gravi incapestrature. Abbiamo eziandio rimarcato che, se nell’istante del rovesciamento l’estremità presa dal laecio non venne sufficientemente portata avanti, il cavallo può ferirsi tirando calci, ed anche distaccare la corda dalla pastoja. Aggiungeremo, per ultimo che, per rendere l’animale libero e sbarazzarlo dai giri del laccio che lo ritengono coricato, abbisogna troppo tempo e molte precauzioni per evitare gli accidenti che potrebbero nascere. Rohard cercò bensì scansare queste obiezioni, ma le ragioni da lui fornite non parvero sufficienti per distruggere le nostre osservazioni, e determinarci a non produrle.
5° Uso d’un semplice bridone o capezza ordinaria. Quest’ultimo mezzo non può essere messo in pratica che pei puledri ancora giovani ed indomiti; consiste nel piegare l’incollatura indietro e dal lato opposto a quello sul quale si vuol far cadere l’animale; si tira fortemente la testa verso il garrese e si forza l’animale a girare su suoi garretti. Esso non tarda ad arretrarsi (à s’acculer) e si rovescia dopo alcuni giri, e sovente anche nel primo. Un solo uomo basta per questa ardita manovra. Collocasi contro la spalla, afferra le due redini del bridone, o il laccio della capezza passata pel lato opposto ed agisce come si disse qui sopra. Questo mezzo molto speditivo sembra vantaggioso, perchè il giovane animale cade adaggio e può anzi, senza farsi alcun male, atterrarsi sul selciato o sopra un terreno ineguale; ma questo metodo presenta il grave inconveniente di forzare i garretti e le reni; non potrebbe al certo convenire pei cavalli pesanti, come pure per quelli di alta statura.
Dopo essersi reso padrone dell’animale ed avergli levati tutti i mezzi di difesa, l’operatore fissa il membro ammalato in modo che possa agire liberamente e con tutta sicurezza, tanto per incidere ed esportare, quanto per applicare il conveniente apparecchio; distacca il ferro, se non l’ha già fatto, prima di coricare l’animale; taglia i crini, se ciò è necessario, e passa attorno al pastorale una legatura od una grossa cordicella bastantemente stretta perchè possa servire di tornichetto ed intercettare la circolazione del sangue. Prese queste precauzioni, procede al l’operazione, cominciando col separare sino al vivo la porzione d’ugna che si propone estirpare, e che distacca tosto dopo col soccorso dell’elevatore, d’un pajo di tanaglie e con uno stromento fatto a guisa di foglia di salvia. L’esportazione di questa porzione d’ugna basta alle volte per mettere allo scoperto tutto il male, senza che siavi bisogno di più innoltrarsi, sovente non è che il preludio di grandi guasti cagionati dall’estensione o dalla profondità della lesione. Esportata l’ugna, trovasi obbligato prolungare le incisioni, fare nuovi tagli ed amputare molte delle parti rinchiuse nello zoccolo; è alle volte anzi necessario sbrigliare, e giungere sino all’osso del piede o sino al sessamoideo minore, che si rastia o che cauterizzasi nei punti intaccati.
Quasi tutte le operazioni del piede esigono l’impiego di una forza più o meno grande e sufficiente per superare la resistenza che oppongono alcune parti, siccome il corno e le cartilagini laterali del l’osso del piede. Questa resistenza venendo a cedere tutta ad un tratto, produce lo sviamento dello stromento tagliente, il quale, essendo portato nelle parti molli, può produrvi lunghe e profonde ferite. L’operatore deve avere la precauzione di mantenere costantemente lo stromento limitato, come pure non mai spingerlo con forza, senza avere precedentemente preso un punto d’appoggio che la metta nel caso d’esserne sempre padrone, di potere limitare la sua azione a volontà e ritenerlo tosto che cessi la resistenza. L’esportazione della porzione d’ugna che cuopre il male esige eziandio cure ed attenzioni. Se, dopo avere afferrato il pezzo corneo colle tanaglie, lo si tira con molta forza e precipitazione, invece di staccarsi uniformemente dalle parti sottostanti, le trae seco, le esporta e spoglia così l’osso del piede; alle volte, come nella dissuolatura, l’ugna si divide e si lacera da sè medesima; forma degli avanzi, che restano attaccati al tessuto reticolare e che si è poi obbligati amputare. Questi inconvenienti non hanno luogo allorchè l’operatore, dopo avere staccato il pezzo d’ugna che fa tenere da un assistente colle tanaglie, raccomanda d’agire adagio rovesciando l’ugna e torcendola leggermente, ora da un lato, ora dall’altro; mentre egli stesso, armato dell’elevatore e della foglia di salvia, ajuta a sollevare, recide tutti i laceramenti che cominciano a formarsi, e bada che lo staccamento si continui in modo uniforme. In tutte queste circostanze, il veterinario si abituerà alle precauzioni proprie a prevenire gli accidenti d’ogni genere, a non mai sembrare imbarazzato e ad agire sempre con celerità e destrezza. Prendendo il tempo e le disposizioni necessarie per risparmiare certe parti la cui sezione potrebbe riescire nociva e pericolosa, non perderà di vista che nascono sommi inconvenienti prolungando inutilmente le operazioni, tanto per rapporto agli esiti funesti che possono risultarne, quanto per rapporto all’animale che non bisogna far soffrire senza necessità. Bisogna sovrattutto porre attenzione a non irritare le piaghe, sia passandovi continuamente le dita sopra,sia lavandole lungo tempo coll’acqua.
Dopo avere terminata l’operazione, il veterinario ricuoprirà la piaga con un po’ di stoppa, riattaccherà il ferro piantando i chiodi nei vecchi fori, affine di non scuotere lo zoccolo, il quale, non godendo più di sua integrità, richiede molta circospezione; tergerà leggermente la piaga e procederà in seguito alla medicazione; avrà cura di applicare gradatamente le piumacce, ed in modo tale che non vi resti alcun vuoto e che la pressione possa esercitarsi dovunque eguale, fisserà poscia la stoppa colla benda rotolata, stringerà egualmente ogni giro, avvertendo di non passarne alcuno sulle parti molli, temendo portarvi una compressione pericolosa. In questa prima medicazione si fa uso abitual mente d’un liquore spiritoso diluito in una certa quantità d’acqua; le prime stoppe inzuppate in questo liquore verranno molto meglio applicate. Quando il soggetto operato è di temperamento molle e poco sensibile, è preferibile e più vantaggioso applicare le piumacce secche; conviene anzi alle volte caricarle d’essenza di trementina o di tintura d’aloe. Per la loro natura o pel loro stato, alcune piaghe esigono l’impiego di sostanze essiccanti, o caustiche, delle quali moderasi od aumentasi l’attività secondo le circostanze. L’uso di queste sostanze è indicato nel caso di fungo, di carie, di carni bavose, che non poteronsi amputare e che è necessario distruggere. Dopo l’applicazione dell’apparecchio e del suo involto, si scioglie la legatura dalla pastoja, si strofina alquanto la parte, per ristabilirvi la circolazione, si slega il cavallo e lo si fa alzare. L’animale operato può trovarsi in sudore, provare leggeri tremiti nei muscoli, essere svenuto, vacillante, spaventato, ec. Bisogna incominciare dal rincorarlo e fregarlo forte con un tortoro di paglia; si conduce poscia in iscuderia, e lo si attacca alla rastelliera allontanando da lui ogni sorta d’alimento. Dopo qualche tempo, ed allorchè ha ripresa la sua tranquillità, gli si pratica una sanguigna, affine di prevenire ulteriori accidenti, sovrattutto la febbre: questa precauzione non deve trascurarsi nei cavalli fini, molto irritabili e che hanno molto sofferto; mentre diviene inutile negli animali i quali pel loro temperamento sopportano quasi senza pena le operazioni e tormentano poco. Il primo apparecchio, disposto e fissato come si disse, deve levarsi allorquando siasi stabilita nella parte un processo particolare, e che la suppurazione sia in attività, ciò che riconoscesi dalla materia purulenta che penetra e trapela a traverso la stoppa. Il pus mette più o meno tempo a formarsi, se condo la natura dei tessuti, secondo la gravità della piaga, secondo l’età e la costituzione dell’individuo, infine secondo la stagione e la temperatura atmosferica. Ne’ forti calori della state, incomincia ordinariamente dal terzo al quinto giorno, mentre nel verno questa secrezione si effettua alquanto più tardi; non è comunemente stabilita che dal quinto all’ottavo giorno, ed alle volte anche più tardi7. Il levare delle stoppe alla seconda medicazione deve eseguirsi con precauzione, affine non disestare le ultime piumacce, ancora sovrapposte alla piaga. Bisogna lasciare queste piumacce al posto, applicarne delle secche al disopra, e terminare questa medica zione come la prima. Di sovente trovasi obbligato derogare da questa regola generale, e lasciare minore intervallo tra le prime due medicazioni: ciò avviene tutte le volte che il cavallo soffre considerevolmente, e tiene levato costantemente il piede operato, senza poter prendervi sopra appoggio alcuno. Questo stato doloroso, determinato da una compressione troppo forte, o da una febbre locale suscettibile di produrre la mortificazione, indica la necessità di allentare alquanto la fasciatura, o levare tutto l’apparecchio, onde impiegare i mezzi propri a prevenire la gangrena, e limitarne i progressi se già vi esiste. In quest’ultimo caso si recidono le parti mortificate, e si possono anche cauterizzare col ferro rovente; ma questa cauterizzazione non deve praticarsi che con molta circospezione e soltanto nei cavalli vecchi e di costituzione floscia. Dopo avere distrutto, collo stromento tagliente tutto ciò che è conveniente amputare, si ricuopre la piaga con piumacce cariche di sostanze capaci di richiamare le forze vitali ed opporsi alla mortificazione.
Che che ne sia di queste affezioni e di molte altre, che troppo lungo sarebbe il qui rapportare, l’esito il più ordinario delle piaghe risultanti da operazioni del piede è di tendere alla guarigione. Al rinnovamento del primo appaecchio, la parte è sempre più o meno bernoccoluta, livida e coperta d’un umore purulento, biancastro. Questo stato, che può imporre al giovane veterinario ed essere riguardato siccome di cattiva natura, trovasi totalmente cambiato alla terza o quarta medicazione; la superficie della piaga diviene vermiglia ed uniforme; il pus prende un colore bianco ed una consistenza viscosa. I mezzi propri a mantenere e favorire questa salutare elaborazione dipendono dalle susseguenti cure, bene intese, e continuate fino a perfetta cicatrizza zione. Finchè la piaga presenta le apparenze di cui parlossi, le medicazioni devono praticarsi colle stoppe secche, e colle precauzioni richieste pel primo apparecchio, ed essere rinnovate in ragione della quantità di pus che s’accumula sotto la stoppa. Nel tempo in cui la suppurazione è ben determinata, riesce alle volte utile medicare una volta al giorno, soprattutto se la materia purulenta è secreta in grande abbondanza. Allorchè il male tende a prossima guarigione e che la suppurazione diminuisce, le medicazioni devono essere meno frequenti e divenire insensibilmente più rare, fino a che cessino del tutto, e possa la parte essere abbandonata a sè stessa.
Per praticare le diverse medicazioni colla conveniente regolarità, ed affine di potere stabilire una pressione uniforme, bisogna sempre cominciare col riempiere tutte le cavità, dapprima le più profonde e gradatamente le più superficiali; si applicano poscia le piumacce, impiegando sempre le più piccole e servendosi successivamente delle più grandi, fino all’ultima che deve coprire tutte le altre. Si comprimono queste stoppe colla fasciatura, o colle stecche, a seconda dell’operazione che ebbe luogo.
Non basta il ben disporre tutto questo apparecchio, bisogna eziandio avere la massima avvertenza di guarentire la parte ammalata da tutte le funeste impressioni. Una serie di circostanze ponno irritare la piaga e farla cambiare di natura: ciò avviene allorchè rimane scoperta e troppo a lungo esposta al l’azione immediata dell’aria; allorchè, per ripulirla, sbarazzarla dal pus od altre materie straniere, si ha l’imprudenza di lavarla e di versarvi sopra molt’acqua, ovvero allorchè nelle medicazioni, si impiegano inconsideratamente sostanze che stabiliscono un altro modo d’azione. I colpi, le percosse portate su questa scalfitura, come le morsicature che l’animale stesso può darsi, apportano effetti egualmente funesti. Le compressioni esercitate tanto dalla stoppa male applicata o male disposta, quanto da qualche porzione d’ugna, sono di tutte le cause nocive le più frequenti e più da temersi. Danno ordinariamente origine a produzioni linfatiche (cerase) od altre escrescenze di simile natura; alle volte producono fistole, ovvero fanno diventare la piaga livida, nerastra ed ulcerosa. La prima indicazione da soddisfare, in questo caso, consiste nel far cessare la causa occasionale, ed esportare od assottigliare l’ugna che costringe le parti molli. Siccome l’estirpazione dell’ugna produce costante mente una forte irritazione, non deve praticarsi che quando sia urgente, e che non si trovino altri mezzi per far cessare la compressione. Le cerase recenti, quelle che si sono formate da una medicazione all’altra, spariscono quasi sempre con una forte pressione; quando invece di decrescere, aumentano e prendono una tinta livida, conviene amputarle collo stromento tagliente, mettere tutta la superficie della piaga al medesimo livello, ed applicare un apparecchio le cui piumacce sieno graduate in modo che la pressione si trovi portata ad un grado maggiore. Tutti questi mezzi sono alle volte inutili; nuove escrescenze carnose ripullulano senza interruzione e l’ugna continua a comprimere ed irritare; allora bisogna esportare la parte ungulata che comprime; se l’ugna è novella ed ancora tenera, basterà assottigliarla fintanto non formi che una crosta molle; è alle volte necessario cauterizzare queste vegetazioni, tanto col cauterio attuale, che coi caustici potenziali.
Le piaghe complicate da fistole non guariscono che quando queste sieno sparite radicalmente; e che la loro cicatrizzazione proceda dalla radice. Questi seni, più o meno profondi, retti o tortuosi, possono dipendere ed essere mantenuti da un cattivo stato della piaga, da una compressione esterna, da un punto interno d’irritazione, ed il più sovente ancora da una carie tendinosa, legamentosa, cartilaginosa od ossea. Far cessare ogni compressione, rianimare la piaga quando sia livida o nerastra, calmarla allorchè sia infiammata, rossa ed accompagnata d’intumidimento e da calore; tali sono le indicazioni da soddisfare nei due primi casi. Le fistole che dipendono da una alterazione particolare, dalla carie di un osso o d’una cartilagine, oppure d’un corpo straniero ritenuto tra le carni, introdotto dal difuori o formatosi internamente, come le esfoliazioni ossee, esigono costantemente la distruzione della causa occasionale. Ogni volta che le circostanze il permettono, è utile sbrigliare, spaccare da ogni lato, mettere allo scoperto il fondo della fistola, affine d’interessare il punto d’irritazione, distruggerlo in un modo qualunque, e determinare così una buona cicatrizzazione. Allorchè non si può, senza gravi pericoli, impiegare lo stromento tagliente, o che non riesca possibile portarlo fino ad una certa profondità, si cerca dilatare la rimanente fistola, ed aggrandirla bastantemente per introdurvi stuelli carichi di sostanze essiccanti o caustiche. Si avrà la massima attenzione di mantenerla dilatata sino alla sortita o completa distruzione del corpo irritante, il quale, una volta ricoperto dalle carni, fa nascere nuove fistole e necessita nuove operazioni.
La piaga complicata essendo ricondotta allo stato semplice, basta mantenervi questo stato, e la guarigione non tarderà a succedere. Allorchè la cicatrizzazione è avvanzata, il dolore dissipato, e che il cavallo comincia a servirsi liberamente del piede ammalato, conviene ferrarlo stabilmente8, metterlo ai lavori campestri, od a tutt’altro lavoro leggiero, sopra un terreno dolce. Lungi dall’essere pregiudicevole, questo esercizio diviene al contrario molto salubre; mantiene l’animale in salute, risarcisce le spese di nutrimento e di cura; progredisce con vantaggio, e rende anzi più certa la cura della malattia. L’esperienza giornaliera prova che ogniqual volta un cavallo rimane nella scuderia sino a compiuta disparizione della malattia è soggetto ad essere preso da diverse altre affezioni: guarisce più difficilmente dal piede ammalato che quando rende qualche servigio, o che sia abbandonato in un pascolo. L’animale messo al lavoro esige ancora delle attenzioni, e deve essere medicato ogni due o tre giorni sintanto che non vi sia più piaga e che l’ugna siasi bene consolidata. La cura è di sovente lunga e difficile ad ottenersi, rimane per lungo tempo un piccolo punto dal quale trapela un umore sieroso o purulento; e questo resto di piaga, essendo trascurato, può dar luogo alla formazione di una fistola, e stabilire nuovi disordini. Dal momento in cui cessa lo scolo o l’uscita della materia, si avrà cura di ricoprire l’apertura esterna della cavità con polveri essiccanti, resinose, coll’allume ec., e si continuerà l’uso di queste sostanze fintantochè la cicatrizzazione sia compiuta. Finchè lo zoccolo non ha ripreso lo spessore e la consistenza naturale, è necessario preservare il piede da ogni accidente ulteriore, con una bene applicata ferratura, e coll’uso di sostanze grasse, delle quali si spalma l’ugna, affine di mantenerla molle, ed impedire che si ristringa.
Le malattie del piede, che potrebbero ridursi ad alcune principali, vennero moltiplicate da una serie di denominazioni volgari, molte delle quali non fanno che indicarne la sede o la causa; altre non esprimono che un grado particolare d’un’alterazione menzionata sotto altri nomi. Queste espressioni, benchè improprie, sono le sole che si conoscono nel commercio e nella medicina degli animali domestici; per operarne i cangiamenti e sostituirvi espressioni scientifiche, al livello delle attuali conoscenze di medicina umana, avrebbesi dovuto tutto rifondere, ed il Trattato del piede non sarebbe più alla portata dei pratici; anzi non presenterebbe più il prezioso vantaggio di mettere gli allievi veterinari in rapporto colle nozioni pratiche possedute generalmente dalle persone che conservano, allevano, o commerciano di cavalli. Ma, mi si dirà, la riforma di cui trattasi è compiuta da gran tempo e trovasi negli Elémens de pathologie vétérinaire, pubblicati nel 1828 da Vatel, già professore nelle scuole di Lione e d’Alfort. Quest’opera rinchiude, in vero, una nomenclatura scientifica delle malattie degli animali domestici, modellata sulle nosografie dell’uomo. Ignoriamo però se questa nuova nomenclatura, della quale Vatel ha potuto servirsi nelle sue lezioni, ebbe considerevoli vantaggi per l’istruzione; ciò che possiamo assicurare si è, che non si propagò fuori delle scuole, dove sarebbe solo rimasta concentrata. D’altronde, è forse presumibile che espressioni tolte tutte dal greco e sostituite a nomi sanzionati dal tempo, possano mai venire ammesse nella lingua volgare? Diremo inoltre, che un libro deve sempre essere compilato collo scopo di utilità diretta, pel maggior vantaggio della scienza, e che deve essere messo alla portata del maggior numero dei lettori; tale è lo spirito che ci diresse. Se, mettendo da parte ogni timore d’innovazione generale nella patologia veterinaria, cerchiamo riconoscere l’utilità che potrebbe risultare dall’adozione del nuovo metodo nominale per le malattie del piede, molte ragioni si presentano per convincerci che gl’inconvenienti sorpasserebbero i vantaggi.
Non si può disconvenire che certe parti della medicina veterinaria, siccome le malattie, non sieno seminate di nomi barbari, di termini bassi ed ignobili; ma che cosa importa che i termini usitati sembrino mancare di nobiltà, se non hanno seco alcuna idea falsa, e se possono impiegarsi senza gravi inconvenienti? I nuovi vocaboli non dovrebbero essere creati che quando idee nuove, male indicate dagli antichi, li rendessero quasi indispensabili; una nuova espressione dovrebbe sempre essere il segnale, il geroglifico d’una scoperta, e non essere che da questa legittimata. Anche per la loro mancanza di significazione, le antiche espressioni poterono piegarsi ai progressi della patologia, e prendere ad ogni epoca il valore delle idee che si attaccavano alle cose che servivano ad esprimere. Ammettendo la necessità d’una riforma nella nomenclatura patologica, pensiamo che questi cambiamenti dovrebbero operarsi a misura che nuove conoscenze venissero aggiunte al dominio della medicina veterinaria. Il linguaggio venendo ad essere così gradatamente ristabilito, diverrebbe più istruttivo, più facile, più utile e più sicuro.
- ↑ Dimostreremo altrove come la ferratura sia origine della maggior parte di queste alterazioni, e cagioni quasi sempre le più gravi.
- ↑ L’espressione di esplorare, sondare il piede, molto usitata in mascalcia e nella chirurgia veterinaria, è impiegata al figurato; rigorosamente significa comprimere, premere il piede con tutti i mezzi possibili, e più particolarmente stringendolo colle tanaglie, affine di scuoprire il punto doloroso, e per conseguenza, la sede del male.
- ↑ Questa espressione, benchè poco usata in letteratura, ma fre quentemente impiegata in chirurgia, indica gli effetti dell’azione di scalfire; il suo significato deve intendersi nel medesimo senso delle parole scottatura, da scottare; puntura, da pungere, ec.
- ↑ Per maggiori particolarità su questi oggetti di medicazione, vedere l'Essai sur les appareils et les bandages, di Bourgelat.
- ↑ Per le diverse specie di macchine, si può ricorrere alle opere seguenti:
1° Essai sur les appareils et les bandages, par C. Bourgelat; Paris, de l’imprimerie royale, 1770.2° Correspondance sur les animaux domestiques, par Froma ge-Defeugré; tomes 3 et 4, 181 1.3° Les Mémoires et Observations sur la chirurgie et la médecine vétérinaire, par J–B. Gohier; Lyon, 1813.4° Les Elémens de pathologie, de M. Vatel; 1828.
- ↑ Termine volgare, che significa afferrare con molti giri di corda. Così si incorda la vacca soggetta alle procidenze d’utero, ec
- ↑ Le piaghe leggeri, siccome quelle cagionate dai chiodi da strada, operate di buon’ora, e praticandovi solamente un’apertura infondibuliforme, guariscono senza suppurare: la cicatrizzazione si annuncia: 1° dal colore vermiglio della piaga, 2° da un umuore puriforme il quale, facendosi strada distacca la stoppa.
- ↑ Si ferra stabilmente tutte le volte che il ferro deve rimanere sotto al piede sino ad avvanzata o completa logoranza.