Tragedie, inni sacri e odi/Illustrazioni e discussioni/VI. Manzoni intimo
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MANZONI INTIMO.
Indiscrezioni d’eruditi e malignazioni di amici1
Gli anni dal 1833 al 1835 furono dei più angosciosi pel Manzoni. Nell'autunno del ’33, la moglie adorata, e veramente adorabile, l’angelica Enrichetta Blondel, gli si ammalò a morte. Il pio Alessandro esclamava costernato: «Ogni dì l’offro al Signore, e ogni dì gliela domando!». Ma proprio il giorno del Natale, essa lo abbandonava per sempre. Al poeta balenò un istante il desiderio d’un nuovo Inno alla «Culla beata», da cui solo, in quell’ambascia, gli veniva «un alito di vita»; ma l’inno s’arrestò a quel primo spunto: oramai la sua già sì larga e limpida vena di poesia s’era essiccata. Meno d’un anno dopo, il 20 settembre del 1834, una nuova e non meno grave sventura lo colpiva: la morte della sua primogenita, la Giulia, da soli tre anni maritata a Massimo d’Azeglio. Non aveva che venticinque anni, ed era intelligente, piena di attrattive, bella di viso, bellissima di persona, alta, con un portamento da regina, come diceva suo padre. Il D’Azeglio, non appena vistala, desiderò di sposarla, e riuscì a vincere le ritrosie che ella aveva da principio dimostrate; poi, con volubilità di artista, era passato visibilmente ad altre simpatie, cho avevano accorata la giovanissima moglie. La quale, morendo, lasciava una bambina, l’Alessandrina, che doveva poi andar sposa al marchese Matteo Ricci, nel settembre del 18522.
«Al Manzoni muore in casa la figlia maritata in Azeglio», scriveva da Firenze Gino Capponi a Niccolò Tommasèo, esule volontario a Parigi. «Dicono ch’era matrimonio infelice. E il Manzoni morirà presto, se Dio vuole!». La strana espressione era usuale al Capponi, che anche di sè, nei momenti più difficili, soleva dire: «Pregate Dio che mi ammazzi!». E la frase era forse una inconsapevole reminiscenza biblica. Expedit enim mihi mori magis quam vivere, è scritto nel libro di Tobia (III, 6). E il Tommaseo, male informato dal Cantù, replicava: «Povera Giulia! E povero Manzoni! Non era, credo, matrimonio infelice: egli la amava, ella lui. S’era sfatta nei parti [?]; e aveva l’anima un po’ triviale, e prosaiche le forme. Buona però. Ma il nascere di letterato è disgrazia grande». Oh sì; anche perchè si hanno di codesto irriverenti, inesatte e calunniose commemorazioni funebri!
Gli amici e i tanti ammiratori del sommo scrittore lombardo temettero ch’ei non soccombesse a quegli schianti. La marchesa Costanza Arconati, che il Manzoni venerava e il Tommaseo definiva «una grazia che ignora sè stessa, una nobile semplicità, un’armonia d’affetto in ogni movenza: cosa italiana, insomma»; questa «rara donna» e amica affezionatissima scriveva di lui a miss Clarke, il 22 novembre: «J’ai donc vu à mon tour ces pauvres Manzoni. Je suis tout à fait de votre avis sur lui. Quoi qu’il cause avec autant de plaisir et autant d’agrément qu’autrefois, il suffit de le voir pour comprendre qu’au fond il est pénétré de douleur. C’est une douleur dissimulée avec tant d’effort qu’elle fait une peine terrible, quand elle se revèle comme un éclair». Donna Giulia, la nonna, trovava un sollievo piangendo. «Je vais souvent», scriveva ancora l’Arconati, il 15 gennaio del ’35, «passer une heure tête à tête avec elle dans la matinée. Alors elle pleure beaucoup et parle toujours de Julie. Elle dit que cela lui fait du bien.» Ma per il padre desolato le cose andavano diversamente. «Manzoni au contraire détourne sa pensée de là, c’est là je crois ce qui lui a fait entreprendre un grand travail. Mais sa mère me dit qu’il n’est plus en état de faire des vers, qu’il l’a essayé, mais qu’il ne peut pas. Sa vue m’afflige toujours, parce que il y a au travers de son sourire ce quelque chese de profondément triste que vous avez remarqué».
Tuttavia a poco a poco pareva si rasserenasse. E il 27 di quel mese l’Arconati poteva riscrivere:
Depuis quelques semaines il est mieux, il a repris par moment cette gâité douce, qui a un si grand charme chez lui. Sa mère me dit qu’il ne lui fait jamais autant de peine que lorsqu’il sourit. L’idée de le laisser seul, sans compagne, la préoccupe continuellement, mais heureusement elle est si forte et si bien portante qu’elle lui sera conservée longtemps. Quelle personne séduisante, comme elle est jeune encore! J’ai eu plusieurs fois la bonne fortune de les trouver seuls le soir. Je n’ai jamais pû me défaire d’un peu d’embarras en présence de Manzoni; il m’en impose, et sûrement sans le vouloir.
Ebbene, come se tanti dolori non bastassero, ecco che nel marzo cominciano a diventare insistenti le voci che il D’Azeglio pensava a rimaritarsi, e proprio con la bella zia vedova della povera sua Giulia! Al Capponi — che il 20 febbraio gli scriveva: «E ho avuto per terza mano nuove ed imbasciate del Manzoni, e ordine di segnare nel Marco Visconti le improprietà di lingua, che sono molte. Ed ho ubbidito al Manzoni. Sento con piacere ch’egli è tutto addosso alla storia della lingua, che vuol dire ch’egli è uscito intero da tante disgrazie. S’egli mai venisse a Genova, vuo’ andare a vederlo questa estate, perchè so ch’egli ha caro discorrere della lingua con un fiorentino. Almeno si parrà buoni a qualche cosa!» — il Tommaseo, questa volta pur troppo bene informato, rispondeva il 14 marzo: «Se il Manzoni va a Genova, andate a trovarlo; parlategli anco di me. E tutte le volte che gli parlate, dite tra voi: quest’è uno de’ più nobili e de’ più sacri momenti della mia vita. L’Azeglio si rimarita; e piglia la vedova Blondel, della quale la Giulietta dicono fosse gelosa. Miserie!». E la marchesa Arconati, il 26 di quel mese, scriveva da Bonn a miss Clarke:
Mon jugement sur Azeglio n’est pas libre, parce que le peu de regrets qu’il témoigne m’indigne. Cependant il me parait aimable, mais je l’ai si peu vu! M.me Manzoni m’a parlé de ce qu’on disait qu’il allait épouser M.me Blondel, mais elle n’on croit rien. Comme on les voit souvent ensemble, on a imaginé ce mariage. Je crois que voilà tout ce qu’il y a...
No, no, c’era dell’altro; e i pettegolezzi non eran questa volta malignazioni! Il 28 agosto, sempre da Bonn, l’Arconati riscrive:
...Les Manzoni ont une nouvelle douleur. Le gendre épouse véritablement la veuve Blondel, et aussitôt qu’il aura reçu les dispenses nécessaires. Cela leur déchire lo cœur, et il ya, outre tout le reste, un manque d’égards envers eux, impardonnable. Donna Giulia me disait qu’elle ne croyait pas à la possibilité de ce mariage, mais elle était offensée qu’on pût seulement le supposer. C’est celle qui en souffrira le plus. Elle adorait Julie. Et puis est-ce que ce prompt mariage, que l’amour a précédé de quelque temps, ne fait pas soupçonner que cette pauvre Julie n’avait jamais été chérie?
Povera donna Giulia, nulla le sarebbe stato risparmiato! E alla cognata Antonietta Beccaria si vedeva costretta a scrivere, il 15 settembre, da Brusuglio:
...L’ultimo sacrificio ha avuto il suo compimento: la mia povera innocente e tanto diletta Alessandrina non è più con noi! Tutto è finito; non se ne parli più, perchè sono costretta a dire che non sono più in istato di sopportare ancora nuove conseguenze di un tristissimo passato e del pari tristo presente.
E il 7 ottobre il Tommaseo scriveva al Cantù, da Parigi: Godo che il Manzoni stia bone almen di salute. Non dico che mo lo salutiato, che mi rammentiate a Miaman, Comprendo e compiango i loro dolori. Li sento ne’ miei... Dell’Azeglio mi dispiaco, più per lui che per gli afllitti dalla sua sconoscenza. L’ingogno è sì raro, che quando lo si vede scompagnato dall’affetto, gli è come trovare un torso di bella statua senza capo e senza sno.
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Un anno dopo — «così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano»! — , la sera di domenica 18 dicembre 1836, l’ancor giovane vedova del nobilomo veneziano Stefano Decio Stampa, donna Teresa Borri, scriveva a sua madre, anch’essa a Milano, questa letterina, ch’è stata ora riesumata e pubblicata, perfino fotograficamente. Ne rispettiamo la grafia, non molto ortodossa.
Chère maman, ne dites à personne à personne [sic] qu’à mes frères seulement — soyez-moi bien fidelle è ne pas dire à d’autres, que dans un mois d’ici, je serai, à ce que je crois, la femme d’Alexandre Manzoni. Que mes frères en gardent un profond secret, quand même on irait leur en domander.
J’irai vous voir au plutôt, j’éspère, qu’il pourrait arriver que ce ne fut qu’au plus tard; car depuis une heure jusqu’à 4, Manzoni est chez moi; avant une heure je suis au lit; et après 4 heures il fait beaucoup trop froid pour moi, pour ma pauvre santé, qui n’a pas été assez pauvre encore pour détourner ni dégoûter Manzoni, qui me veut avec tout ce que j’ai de pauvre au phisique et au moral. Il est inutil de vous dire che j’ai voulu savoir de mon Stefano avant tout si cela ne l’aurait pas affligé non seulement, mais s’il aimait de recevoir Manzoni pour son père. C’est Grossi qui a tout fait pour moi, et qui suivant ce que je disais au sérieux, est coupable d’une impieté, et d’une trahison envers son ami; maintenant, je ne l’accuserai coupable que de haute trahison.
Alexandre n’ira pas faire de visites; il ne fait de visite à personne au monde de toute l’année; pas meme à son oncle Beccaria, quoiqu’il passe des semaines à la campagne chez lui è Gessate. Quand je viendrai vous voir, vous verrez donc en mois votre fille et votre nouveau fils Alexandre; car Alexandre ne sort jamais avec une femme, mais il se fait accompagner toujours par ses plus intimes amis, qu’il ne va jamais trouver. Je vous dirai de sa part tout ce qu’il m’aura dit, et tout ce qu’il aurait voulu me dire pour vous.
«Mon Stefano», s’intende, era l’unico figliuolo ch’essa aveva avuto dal primo marito. Lo chiamavan pure «Stefanì»
Senza dubbio, nè questa lettera lascia supporre che la buona signora celasse nella sua modestia una madama di Sévigné, nè il ritratto a matita dello Zùccoli, esso pure riprodotto nell’opuscolo del collega De Marchi, permette d’intravedere nelle linee del suo volto,
Qual raggio di sole tra nuvoli folti,
«quella bellezza molle a un tempo e maestosa», che don Alessandro aveva vista brillare nel sangue lombardo. Ma insomma, Galeotto Tommaso Grossi (egli non si guardò da questo suo amico carissimo, e Iddio non lo guardò!), a lui piacque «avec tout ce» che essa aveva «de pauvre au phisique et au moral»; e nessuno avrebbe dovuto trovarci a ridire. Difatto, la madre di lei, Marianna Borri Meda, trovò solamente da applaudire; e il giorno dopo, rispose alla figliuola, in quel goffo quanto presuntuoso francese domestico che usava allora nella buona società milanese:
La haute estime que j’ai depuis long temp pour Manzoni, me fait trésaillir de joie en pensant que ma chère Thérèse va devenir son épouse et Stefani son fils. — Je prie Dieu qu’il bénisse cette belle union, et que je puisse avoir la consolation de te voir heureuse et contente, ce qui ne peut pas manquer d’arriver avec un tel époux.
E si capisce. Più curioso può parere che non trovasse se non da lodare e approvare quella mala lingua del Tommaseo; per lo meno in quel primo momento. Rispondendo al Cantù, che gli aveva riferiti Dio sa quali commenti che si bisbigliavano in Milano (com’eran pettegoli quei letterati d’allora!), egli scrive da Parigi l’11 gennaio 1837:
Del secreto da voi confidatomi, grazie; ma non ne incolpate me se altri ne parla già. Intesone la prima volta come di romore non certo, io feci lo gnorri. Data che la mi fu come nuova, non potei più a lungo dissimulare; tanto più che mi dicono la cosa fatta, e quanto a’ particolari la sanno più lunga di me. Tutto brache di donne. Io per me ne lo lodo; e sua madre ne sarà, senza dubbio, contenta; e la famiglia n’avrà nuova vita, e scossa forse l’ingegno di lui. Qui la dicono non eredente, e galante già. Ditene di grazia il vero.
Non credente e galante? Non pare possibile! Comunque, il figlio ebbe poi ragione di dolersi vivacemente col Cantù, che nelle malispirate sue Reminiscenze si fece propalatore, senza giustificazioni nè chiose, di questo brano di lettera dell’illustro suo corrispondente parigino. Era «bassa voglia» udire e raccogliere e diffondere quelle ciarle. E Gino Capponi ne toccava già, con signorile accoramento, al Tommaseo, il 29 aprile: «Il Manzoni ristampa il Romanzo corretto, con l’aggiunta della Colonna Infame e con vignette di Hayez a mezzo la pagina. La moglie lo fa lavorare. Pover’uomo, ne aveva proprio bisogno! Cessi ogni ria parola. Chi s’arrogherà d’intendere un uomo?».
Oh sì che il Tommaseo e il Cantù eran buoni di tenere a freno la loro lingua! Il 7 aprile, il primo aveva chiesto al secondo: «Godo che il Manzoni s’apparecchi a stampare. S’egli sapesse quanto bene e quanto piacere fanno le cose sue, aprirebbe le ali delle mani con meno ritegno. È egli vero che D. Giulia è un po’ in broncio con la nuora? Se la reggeva tanto!». Non so cosa rispondesse il Cantù; ma so che il Tommaseo ripicchiava, l’11 maggio: «Di don Alessandro mi dispiace proprio. Che il Grossi e altri non possano almeno impedire i pettegolezzi grossi? E come passa egli il tempo, se non iscrive?». E intanto è felice di rassicurare il Capponi, che, como s’è visto, si doleva che il povero Manzoni fosse dalla nuova Santippe costretto a lavorare. Il 14 gli scrive: «Il Manzoni, signor mio, non fa nulla. La nuora è un capettaccio, la suocera fiotta, le figliastre imbronciate». E gli amici ed ammiratori, vicini e lontani, che erano di grazia e che facevano?...
Ma anche la pazienza di don Alessandro aveva un limite; e un bel giorno, al domestico che gli annunziò la visita del così detto amico milanese, egli impose di dirgli che per lui non era più in casa. L’amico se l’ebbe per detto. Ma certe scenette rincresce narrarle, anche se per lamentarsene. E il Tommaseo, non sospettando di nulla, continuava a incaricare di piccole commissioni il corrispondente milanese. Una volta lo esorta a salutare don Alessandro e donna Giulia, e «pregar lei di non dimenticare il dolce nome che la mi permise già». Un’altra gli scrive:
Dite al Manzoni ch’io gli debbo confessare un peccato. Vendei per gl’Italiani poveri, all’incanto della Belgioioso, due biglietti di lui, i quali non contenevano però cose ch’egli potesse volere celate: se pure di questo ce n’è, altro che il bene da lui fatto o dotto. Ditegli che mi voglia un po’ bene o parceque o quoique, che si traducono in avvegnadiochè tutt’o duo.
A buon conto, qualcosa bisognava dirgli, e fargli intendere che a casa Manzoni egli non bazzicava più. Come se la cavasse non so, e non credo che siano state conservate queste lettere del Cantù al Tommaseo. Il 26 giugno tuttavia il Tommaseo scatta: «Ma che! Il Manzoni non riceve più la mattina visite d’intimi? E quando lo vedete voi?». E il 6 luglio: «Mi dicono che D. Giulia in campagna è come sola, e il figliuolo tutto moglie»; e giù la citazione dei versi oraziani, dove del Tevere che straripa per amore d’Ilia corrucciata, è detto uxorius amnis. E il 29 agosto: «Sento che il Manzoni s’apparecchia a stampare. Iddio signore lo benedica. Salutatemi donna Giulia». E soggiunge: «Dicono che de’ vecchi amici di casa Manzoni parecchi si son ritirati. Ed egli che dice? Il Grossi non istà più seco?».
S’indovina che il Cantù non s’intratteneva più volentieri su quell’argomento. Ma egli insiste, pertinace. Il 13 febbraio del 1838, da Nantes: «E il Manzoni che fa? di lui mi dite sempre le cose ammezzate». E il 3 marzo: «Quante volte al mese vedete voi Alessandro? E il Torti ci va egli sovente? Si rammenta egli il Manzoni di me? Salutatemelo e scrivetemene in dettaglio (come dicono qui) senza forbici». E il 22 marzo: «Dal Manzoni non ci andate voi più? Salutatemi donna Giulia; e parlatele del mio filiale rispetto». E il 23 soggiunge: «Il Coeur è qui» (era un famoso predicatore, emulo di Lacordaire). «M’avevate promesso parlarmi del suo colloquio col Manzoni, il quale già so che si manifestò più cattolico del bravo prete. Ditemene qualcosa».
Il 13 aprile ripiglia: «E riguardo a me, è egli mutato il Manzoni? Ma che? tutti i suoi maschi pigliano cattiva piega?». E il 16 giugno: «Donna Giulia è lasciata un po’ in un cantone; non maltrattata, spero. Salutatemela sempre. Le figliuole debbono aver già passati i vent’anni. Altre fisonomie dalla Giulia ch’è morta. Almeno parevano da bambine. Dell’anima del padre nulla a nessuno. Gli è un destino, si vede». Giudizio avventato e malignazione gratuita; come provano luminosamente le bellissime lettere della Vittoria Giorgini e del Giorgini a lei, che la loro figliuola, Matilde Schiff, ha con nobile e pietoso pensiero permesso che fossero, per un ristrettissimo numero di amici, stampato3.
Si direbbe che il relativo riserbo del Cantù solleticasse anche più la curiosità del Tommaso. Il quale da Bastìa, il 18 agosto, gli riscrive: «Salutatemi donna Giulia e il Manzoni; e parlatemi a lungo di lui». E il 5 settembre: «Il Cristoforis era veramente buon uomo. Morto cristiano? S’era egli da ultimo intepidito anch’esso verso don Alessandro ?... Qual è la sposa del Grossi? Ricca, giovane, bella? Egli quant’anni? E la Cramer? S’è egli già levato di casa Manzoni? Lavora egli come notaro? Addio versi!» Il 14 novembre, a proposito delle feste celebrate a Milano per l’incoronazione dell’imperatore Ferdinando, chiede:
Qual contegno ebbero nelle recenti feste i nobili milanesi? Quale opinione lasciò il Metternich di sè proprio? Del rifiuto del Manzoni è egli vero? Il Thiers qual vi parve alla lunga? E quale è Alessandro? Quali i suoi pregiudizi circa l’Italia?... Salutatemi donna Giulia; se don Alessandro riceve freddo i miei saluti, non oso pregarvene. Io non sono mutato; nè sarò mai.
Che il Manzoni si fosse annoiato di tanto affannoso interessamento del dalmata illustre per le faccende sue intimo?
Ovvero che quella freddezza, della quale però abbiamo le prove solo qualche anno più tardi, fosse un pretesto messo avanti dal Cantù perchè il terribile amico smettesse di dargli di simili imbarazzanti commissioni? Ma il Tommaseo non s’arrende; e avendo saputo delle nozze della Sofia, la più bella delle figlie del Manzoni, soggiunge: «Bene la Sofia e bene il Trotti; che sarà meglio del figliuolo dell’avvocato. Tra un avvocato e un patrizio, piglio il patrizio». E il 22 dicembre, più petulante che mai: «Eravate voi degl’invitati alle nozze della Sofia? Che ragazza è ella?... E il Manzoni che male ha egli?». E non senza amarezza, a proposito, pare, delle sue Memorie poetiche: «Quel volume al Manzoni dunque non piacque! Me ne dispiace». Egli vi aveva ricordati, e in parte riferiti, i colloqui avuti col grand’uomo a Milano; e si sa e si capisce come ciò non garbasse punto al Manzoni. Ma si capisce pure come il mancato compiacimento di lui ferisse l’amor proprio del critico ammiratore. Che l’8 maggio 1839, da Montpellier, chiede ancora: «E in casa Manzoni c’è egli più pace?». E da Beaucaire, il 17 luglio: «La madre del buon Rosmini viv’ella ancora? E col Manzoni si veggono eglino spesso?».
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Il De Marchi assicura che chi vorrà, e potrà, frugare in questo nuovo tesoretto di carte Manzoniane, «ne caverà certamente numerose notizie intorno alla vita e alle vicende domestiche» del Manzoni; e, soggiunge, «correggerà qualche ingiusto giudizio troppo leggermente esposto e troppo facilmente accolto». Auguriamoci dunque che venga presto chi voglia e possa4.
Intanto getta non poca luce sulle incresciose condizioni in cui venne a trovarsi la famiglia Manzoni dopo il ritorno degli Austriaci, nel ’48, una lettera di donna Teresa da Brusuglio, il 23 aprile ’49, al suo procuratore. Come è risaputo, nella prima delle cinque giornate, il sabato 18 marzo, al Broletto, Filippo, il più giovane dei figli Manzoni, ventiduenne, era stato catturato. «Povero Filippo; poveretti quei giovani, in mani degne di quelli che hanno fatto gli orrori di Tarnoff! [Tarnow, nella Galizia, insanguinata nel ’46 da feroci repressioni]», aveva esclamato il 24 donna Teresa, fremente d’entusiasmo pei suoi concittadini. «O che Milanesi bravi, eroi!», diceva; «unici al mondo, superiori, cento volte, ai Parigini des 3 journeés! Popolo di eroi, degno dell’Italia romana! Ma noi..., ma il povero mio Alessandro... che ha Filippo nelle sue [sic] mani!». Non c’era tuttavia da temere, a giudizio della signora. Che soggiungeva: «Ma io credo però fermamente che non solo non gli vorranno offendere, ma che capiranno di doverli poi tenere il meglio possibile per il loro maggior interesse, avendo noi tanti dei loro!». Anche Alessandro era calmo. «Siamo nel mezzo della crisi, ma tranquilli», assicurava sotto un frettoloso bigliettino che la moglie dirigeva al suo Stefano, rimasto a Brusuglio. Sopraggiunta la reazione, essi s’erano rifugiati nella villa Stampa a Lesa, sulla sponda piemontese del Lago Maggiore. Ma ve li scovò l’imperial regia imposizione di pagare la così detta tassa di emigrazione, in 20.000 lire, con la minaccia, in caso d’inadempimento, del sequestro della casa in Milano. E fu allora che donna Teresa scrisse al suo procuratore la lettera dianzi accennata, dimostrando l’impossibilità in cui si trovava, per la malferma salute, d’intraprendere il viaggio di ritorno a Milano o peggio a Brusuglio, dove, «per l’incendio quasi generale, una quantità di contadini, co’ loro carri e bestiame, sono raccolti in casa». I fondi, soggiungeva, son già gravati d’ipoteche, un nuovo debito si dovrà faro per ricostruire la villa, «e il Manzoni si trova senza mezzi per pagare, e, bisogna dirla tutta, senza mezzi anche per andare avanti a fare la piccola nostra spesa di cucina e di casa, la quale, per ora, la viene fatta col mezzo d’una piccola somma presa a prestito da Stefano». Le cose s’accomodarono alla meglio, per l’intervento del Grossi, e con l’aiuto generoso del procuratore, devotissimo alla casa. Ma a buon conto donna Teresa, «malaticcia e bisbetica», come la definisce nelle sue Memorie la buona Vittorina Manzoni che ne fu vittima, volle per l’avvenire salvaguardar meglio la fortuna sua e del figliuolo; e pretese che il marito (glorioso sì, ma indebitato!) le rilasciasse, in iscritto, la seguente stranissima dichiarazione («e non è la sola!», avverte il De Marchi). La qualo non attenua, purtroppo, certi giudizi che al De Marchi paiono severi!
Lesa, 1 maggio 1849.
- Mia cara Teresa,
Poichè tu desideri per tua quiete ch’io attesti che la cassa o i due bauli sognati del tuo nome e trasportati da Milano a Lesa, non contengono che roba tua; e poichè questa è la pura verità, l’attesto nel modo più esplicito e più assoluto; dichiarando cioè, in un modo egualmente assoluto, che non ammetto la possibilità che persona veruna di mia conoscenza possa mai avere il più leggero e lontano sospetto del contrario.
Il tuo Alessandro Manzoni.
Con uguale saggezza, o con la stessa rassegnata e indulgente ironia, avrebbe parlato Socrate! Donna Teresa morì nel ’61, «dopo aver tribolato», annota la Vittorina, «e fatto tribolare assai tutti quanti, per oltre quindici anni». Quindici soli, o non anche tutti i ventiquattro che seguirono al colpo di testa di don Alessandro del 1837?
Note
- ↑ Attilio de Marchi, Dalle carte inedite Manzoniane del Pio Istituto dei Figli della Provvidenza in Milano, Milano, 1914; N. Tommaseo e G. Capponi, Carteggio inedito, per cura di I. del Lungo e P. Prunas, vol. I, Bologna, Zanichelli; E. Verga. Il primo esilio di N. Tommaseo, lettere di lui a Cantù, Milano, Cogliati; G. Gallavresi, Fonti sconosciute o poco note per la biografia di A. Manzoni, Milano. — Questo mio saggio comparve la prima volta nel Corriere della Sera del 19 giugno 1914.
- ↑ Alle nozze, celebrate a Cornegliano, sulla Riviera di Ponente, assistette anche il nonno. Che ne scrisse così alla sua seconda moglie, il 16 settembre: «Il felice matrimonio fu fatto stamane, e io feci il testimonio della sposa, non senza una viva e tenera emozione. Davvero Rina non poteva essere più fortunata. Oltre l’altre ottime doti dello sposo, c’è tra loro una perfetta uniformità di gusti. Per dirtene una che ne fa sottintendere molte, vanno pazzi l’uno e l’altra per i festini, per i teatri, per le feste clamorose, come tu e io! — Dunque per farti la storia della mezza giornata (sono le tre e tre quarti), ti dirò che dopo la ceremonia, e la colazione, alla quale io assistetti come il povero Lazaro alla tavola dell’Epulone (avevo però fatta la mia colazione solita un par d’ore prima), gli sposi partirono; e noi rimasti s’andò a fare una passeggiata lungo il mare turbato, sconvolto, messo in furia da un magnifico libeccio, da far confessare a Stefano che il lago non ha a che far nulla col mare. — La storia degli altri giorni è fatta in quattro parole: mangiare, bere, passeggiare e chiacchierare. Vengono qui ogni giorno a desinare e a passare la sera, Emanuele d’Azeglio nipote di Massimo, e incaricato d’affari a Londra, Villamarina incaricato finora a Firenze, e ora nominato a Parigi, Ricasoli, toscano come te lo dice il nome, e uffiziale nelle truppe sarde — eccellente compagnia, che non lascia mai al tempo il tempo di parer lungo».
- ↑ Vittoria e Matilde Manzoni; Pisa, Nistri, 1910. E cfr. il mio Proemio alle Prose e poesie di G. Giusti, illustrate da E. Marinoni; Milano, Hoepli, 1918.
- ↑ Ha avuto la fortuna di rimettervi lo mani la sig.na Teresa Grassi; e con la scorta di alcune interessantissime lettere di Alessandro alla moglie, da Siena, ottobre ’52, e da Viareggio, agosto e settembre ’56, ha potuto ricostruire in ogni sua parte la storia delle commoventi amichevoli relazioni, e degl’incontri nella villa di Varràmista e a Viareggio, del Poeta con Gino Capponi (Milano, Figli della Provvidenza, 1921).