Tragedie, inni sacri e odi/Illustrazioni e discussioni/VII. Manzoni maltrattato

Michele Scherillo

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MANZONI MALTRATTATO



Maltrattato, dichiaro subito, non già dai critici1. Chè anzi, dopo qualche decennio di aberrazioni, la critica ora è tornata sulla retta via, o s’è rifatta riverente e ossequiosa dinanzi alla mirabile e complessa opera manzoniana. Per ragioni, e con pretesti, che qui non è il caso di ricercare e rilevare, il coro dei critici minori, di quelli che aspettano l’intonazione dal corifeo per poi strillare e stonare a loro agio, era stato preso, nel trentennio cui accennavo, dalla manìa di quel tale ateniese, illustre ma ignoto, che votò l’espulsione di Aristide pel solo grosso motivo ch’egli era stufo di sentirlo continuamente proclamare «il giusto». Appunto: anche il Manzoni era venuto a noia presso certa gente, perchè il culto di che altri lo circondava era trasceso fino al feticismo; e nelle scuole (son tanto dannose le scuole al buon nome degli autori che vi son prescelti a tormentare gli adolescenti!) s’era giunti a pretendere che gli scolaretti ripetessero per filo e per segno le avventure di Renzo e di don Rodrigo, e recitassero, insieme con la Vispa Teresa, il Cinque maggio e la Pentecoste! Ho conosciuto un ragazzetto, precocissimo recitatore dell’Eifù, il quale interpretava che Napoleone «si nomò Due Tètoli»!2 Ma è bastato mettere un [p. 492 modifica]argine al dilagare dell’idolatria, perchè l’amore e l’entusiasmo tornassero più vividi e gagliardi. E non si tornerà indietro oramai; giacchè al Manzoni avviene come ai veri sommi: più si allontana nel tempo, più la sua figura ingigantisce. Il Monte Rosa non è compreso in tutta la sua massiccia grandezza se non da chi lo contempla dalla pianura lombarda.

Non intendo dunque parlare di maltrattamenti letterarii. Non si tratta nè di aguzzini cólti, nè d’innocui colpi tirati metaforicamente addosso al Romanzo o alle Tragedie, agl’Inni sacri o alle Odi patriottiche. Accenno invece alla rivelazione singolare e sbalorditiva, fatta or ora, trentotto anni dopo la morte del vegliardo venerando e venerato, da uno scrittore che vive da moltissimi anni a Milano e di cose milanesi si è sempre occupato con simpatia, e che ammira degnamente l’opera manzoniana.

Nel suo recentissimo volume, ove son raccolte e narrate Grandi e piccole memorie, Raffaello Barbiera, a proposito di altro, discorrendo cioè di Tommaso Grossi, il poeta, com’egli con frase manzoniana intitola il suo scritto, «cui

[p. 493 modifica]sempre ispirò il cuore», esce a dire: «Il Grossi fu amorosamente curato nella sua malattia mortale, non così il povero Alessandro Manzoni. Andrea Verga mi diceva convinto che, nelle smaniose inquietudini delle ultime ore del quasi nonagenario Poeta cittadino del mondo, vilissimi, crudeli infermieri gli devono aver menati pugni poderosi sui fianchi per ridurlo alla quiete: il celebre medico, che visitò il cadavere del Manzoni, lo arguì dalle larghe lividure notato da lui appunto sui fianchi».

Non so se codesta rivelazione, che viene così tardiva, riesca più incresciosa o più inaspettata. Possibile? Un uomo che tutto il mondo aveva ammirato, e riveriva quasi un monumento vivente dell’Italia rigenerata; il santo vegliardo che tutta l’Italia circondava d’un amore più che filiale, e questa sua Milano venerava con la devozione affettuosa e tenera ond’essa venera il suo Duomo: sarebbe dunque negli ultimi istanti rimasto alla mercè di goffi e crudeli infermieri, reclutati a casaccio? Possibile che proprio negli ultimi giorni, in cui quella mirabile intelligenza, rimasta così a lungo lucida e fulgida, si ottenebrava sotto il pondo immane degli anni, i familiari abbandonassero, con tanta incoscienza, in mani mercenario così lesto e vigorose, quella spoglia che tra poco sarebbe rimasta «orba di tanto spiro»? Ma il Manzoni non infermò e non si spense proprio in quella sua casa di via Morone, ch’egli aveva acquistata con tanto compiacimento, il cui giardino aveva curato con tanto studio e tanto amore, dove aveva allevati i suoi cari uccelletti canori ? in quella casa, dove gli eran nati i numerosi figliuoli, e gl’Inni e le Odi e le Tragedie e il Romanzo, e dove ora gli facevan corona le figliuole del suo primogenito?...

Si capisce come, davanti allo strano racconto, un lettore, cui manchi il tempo di ponderare e il modo d’appurare i fatti e le asserzioni, rabbrividisca. «Come non rabbrividire al racconto d’infami percosse che gl’infermieri infliggevano al grande poeta moribondo?...», esclama difatto Pompeo Molmenti, in una recensione del libro del Barbiera ristampata nell’Illustrazione popolare. Ma mi pare che si capisca ugualmente come uno studioso del Manzoni senta [p. 494 modifica]l’impeto — è un suo diritto e un dovere insieme — di scrupolosamente esaminare e controllare i particolari accennati o sottintesi, prima d’acconciarsi a reputar vera la notizia inverosimile.

Purtroppo, tanti di quelli che furon testimoni degli ultimi giorni del Manzoni, oramai han la bocca chiusa per sempre. Lo stesso Andrea Verga, l’alienista illustre che avrebbe confidata al Barbiera la sua convinzione, dorme da quindici anni l’inesorabile sonno; e anche Tullo Massarani, che al colloquio sarebbe stato presente, lo ha seguìto sotterra da cinque anni; e qualche mese dopo ve li raggiunse don Gino Visconti Venosta, che fu dei più assidui e graditi frequentatori della casa Manzoni dopo il 1860. Don Gino ebbe poi molta dimestichezza col Barbiera; e io non posso non rammaricarmi di non potere ora più provocare una conversazione tra il brillante narratore e il gentile e amatissimo valentuomo rimpianto, intorno all’aneddoto manzoniano, così tardivamente rifrugato nei ripostigli della memoria. Tuttavia qualche testimone sopravvive, e attendibilissimo. Prima, «la decana fra le nipoti del nonno Manzoni», come la chiama la signora Matilde Schiff Giorgini nelle sue recenti e interessantissime Memorie su Vittoria o Matilde Manzoni: voglio dire la signora Enrichetta Garavaglia, figliuola della Cristina Manzoni Baroggi, nel cui nome fu rinnovata la soave ricordanza della soavissima ispiratrice dell’Adelchi. E poi, la signora Margherita Bassi, figliuola della Sofia Manzoni Trotti; e poi, donna Vittoria Brambilla, la nobilissima e fida custode delle memorie manzoniane, in quella solitaria villa di Brusuglio così ancor piena di Lui, e le due sue sorelle, la Sandra e la Giulia Costantini, figlie di don Pietro, il primogenito. E vive ancora, in vegeta vecchiaia, il domestico devoto per cui don Alessandro è stato però sempre un grand’uomo, Clemente Vismara, ora cameriere nel collegio Calchi Taeggi3.

Io dunque mi son fatto premura d’interrogare, o di fare [p. 495 modifica]interrogare, tutte queste signore e il buon Vismara sulle vicende ultime del Manzoni. E, voglio dirlo subito a sollievo dei lettori, dalla mia inchiesta riporto la più sicura convinzione che il sospetto del Verga, riferito e propalato dal Barbiera, è assurdo e campato in aria. Ecco: non è ammissibile che vi siano stati quei pugni poderosi, anzi che pugni anche leggeri come carezze vi siano stati, pel fatto che a curare il Manzoni negli ultimi giorni non furon mai chiamati infermieri di mestiere. Non gli furono, e non gli rimasero intorno, fino all’ultimo, se non le nipoti, in ispecie la Vittoria, ch’era da un pezzo la sua segretaria e aveva il privilegio di fargli ingoiare qualche medicina o un po’ di cibo, e il domestico. E la natura del male non fu mai tale da richiedere un aiuto straniero, e meno che meno di pugnaci aguzzini. Il vegliardo si spegneva come fiamma «cui nutrimento a poco a poco manca». Egli che di solito era così metodico nelle ore dei pasti, dell’andare a letto, dello svegliarsi, nell’ultima settimana non riusciva più a raccapezzarsi. E anche, venne via via cessando in lui quella schifiltosa insofferenza d’ogni macchia che gl’insudiciasse l’abito. Non era mai, neanche in campagna, andato a tavola senza mutar di vestito; e ora invece, chiamato, vi andava senza altra preoccupazione. E una volta dimenticò perfino di esservi, e si levò di sedere, e andò in un angolo a inginocchiarvisi e pregare. Richiamato dalla nipote, tornò come se si svegliasso da un sogno.

Nè prima nè allora egli diede mai in escandescenze, o in quello «smaniose inquietudini» di cui parla il Barbiera. Era mansueto, docilissimo; e solo, nei momenti di maggiore sfinimento, egli ripeteva con un filo di voce al domestico fedele: «Stée chi, Clement, ’bandónem no!». Naturalmente, non vi fu mai bisogno di chiamare un alienista. Il Barbiera stesso narra che il Verga non visitasse che il cadavere. Il medico curante era il Todeschini; a cui, nello ultime ore, si aggiunse il Gherini.

E quelle «larghe lividure sui fianchi», che l’alienista avrebbe notate nel cadavere? Io son profano in necroscopia, e non m’arrischio ad avventurare una spiegazione. Voglio [p. 496 modifica]tuttavia rammentare un particolare, che può servire ad additarne una assai verosimile. Il Manzoni era stato sempre tormentato dallo spavento che potesse venir seppellito ancor vivo o non ben morto, e aveva perciò vivamente raccomandato ai suoi familiari di lasciarlo sul cataletto il più lungo tempo possibile. I familiari rispettarono scrupolosamente pur questa sua volontà. E perciò non fu concesso ai medici di procedere all’imbalsamazione se non dopo circa trentotto ore dalla morte. Egli aveva esalato l’ultimo respiro alle 6 e 15 della sera del 22 maggio, e quella macàbra operazione non fu iniziata se non alle 8.30 della mattina del 24. Un tale eccessivo ritardo, e il caldo grande di quei giorni, furon cagione che l’imbalsamazione non riuscisse perfettamente. Essa non terminò se non la mattina del 27: presenti i due medici curanti, e cinque altri. Operatore fu il dottor Pietro Ambrosoli. Il dottor Verga non può aver visitato il povero dilaniato cadavere se non tra il 24 e il 27 maggio. E dunque, davvero che a spiegare le larghe lividure sui fianchi di quel corpo, già più che avviato alla decomposizione, non si possa, o non si debba, ricorrere se non all’assurda ipotesi della brutalità d’infermieri immaginari? Un’ipotesi, peggio che sconveniente, sacrilega; e peggio che inopportuna, superflua.


Poscritto4. — Sono nemico delle polemiche, e ho in uggia le repliche e le controrepliche; ma questa volta mi incombe quasi l’obbligo di fare due brevissime chioserelle alla replica del Barbiera alle mie osservazioni circa i pretesi maltrattamenti che immaginari infermieri avrebbero inflitti al nonagenario moribondo. Occorre proprio che ogni dubbio e ogni equivoco sia dissipato. C’è troppo sacra la [p. 497 modifica]memoria del Manzoni, o sacro c’è il buon nome di Milano. A buon conto quei tali «pugni poderosi» lascerebbero il livido pur sulla rinomanza di città civile, a cui questa capitalo morale ha, fino a prova contraria, diritto.

Dunque anche il Barbiera dà alle «larghe lividure sui fianchi» una ragione molto più umana: umana in tutti i sensi. E non se ne parli più! Ma qualche dubbio gli rimane per una certa macchia riscontrata sullo zigomo sinistro. Credo che anche a quel residuo di dubbio avrebbe rinunziato, se avesse letto o trascritto meglio il documento, dond’egli cita. I medici scrivono precisamente: «Macchia ecchimotica oblunga, diretta dall’alto al basso, in corrispondenza dell’apofisi orbitale dell’osso zigomatico sinistro». Il Barbiera sopprime l’inciso, che ho riferito in corsivo; e a me pare che esso valga a rassicurare pienamente sulla causa dell’ecchimosi. Negli ultimi mesi della sua esistenza, il Manzoni era caduto due volte: sui gradini della chiesa di San Fedele, e nella sua biblioteca.

Il «Verbale del processo d’imbalsamazione», che il Barbiera crede inedito e presso che sconosciuto, fu pubblicato dal Comune stesso di Milano «nel primo anniversario della morte» del Manzoni, in un fascicolo di 104 pagine, dove furon raccolti tutti i documenti e i ragguagli concernenti le onoranze funebri rese al sommo cittadino. E giacchè il Barbiera non è riuscito a decifrare le firme di tutti i medici che alla imbalsamazione presero parte, eccole qui nette:

Luigi Bono, Felice dell’Acqua, Nardi Ernesto, Fortunato Cattò, Ambrosoli Pietro: medici, municipali; Ambrogio Gherini, Cesare Todeschini: medici curanti; Massimiliano Benati: ufficiale sanitario. Del prof. Verga nessun cenno. Solo, in un documento successivo, il suo nome figura tra i moltissimi firmatari del «Verbale dell’avvenuto trasporto della salma al cimitero maggiore», il 29 maggio 1873. L’elenco comincia con Umberto di Savoia, Amedeo, Eugenio di Savoia, Gabrio Casati collare della SS. Annunciata, e va oltre con Achille Mauri, Giuseppe Biancheri, Giuseppe Massari, Agostino Bertani, Emilio e Giovanni Visconti Venosta, Ubaldino Peruzzi, l’arcivescovo Di Calabiana, [p. 498 modifica]Francesco Brioschi, Carlo Prinetti, Andrea Maffei, Antonio Stoppani (scelgo qualche nome qua e là), il cameriere Clemente Vismara, il pittore Hayez, il prof. Gaetano Cantoni, il prof. Biondelli, il prof. Schiaparelli, l’abate Ceriani, il prof. Cornalia; e si chiude con l’architetto Mengoni, il prof. A. Verga e il prof. Ascoli. Il sindaco Belinzaghi, la Giunta e il segretario generale firmano in fondo.

Non ci dovrebbe esser poi bisogno di ricordare al Barbiera che, soprattutto per gli ultimi anni del Manzoni, l’autorità da lui addotta, delle Reminiscenze narrato dal Cantù, è meno che scarsissima. Da un pezzo il Cantù non era più ospite gradito in casa Manzoni, e non vi metteva più il piede. E non c’è studioso del Manzoni che non sappia com’egli — preferisco cedere la parola a un giudice non sospetto e critico eminente, Francesco D’Ovidio — si mettesse «a scriver del Manzoni con una disposizione d’animo anche più amara del solito, e pare non abbia avuto altro a cuore che di dare una mentita a quanti sinora avevano pubblicato fatti e pensieri del grand’uomo, e di gettare una luce fosca su tutti gli amici e parenti di lui»5.

Che il Barbiera consideri queste ultime parole, e si rassegni a ritenere anch’egli, senz’alcuna restrizione, assurda ogni voce o sospetto di maltrattamenti.

Note

  1. Questo scritto comparve la prima volta nel Corriere della Sera del 4 febbraio 1911.
  2. Ohimè, quanta tristezza! Questo «ragazzetto», di mento elettissima e cuore d’eroe, divonno presto uno studioso di magnifiche promesse. Ma nel fiore della vita e delle speranze, a 32 anni, quando aveva già dato molto alla scienza (insegnava Embriologia comparata nell’Università di Napoli) e assai più prometteva di darle, il 19 settembre del 1918, alla vigilia della grande agognata vittoria delle nostre armi, cadde sulle paludose rive del Semèni, in Albania, combattendo, con l’audacia e l’entusiasmo che gli erano proprie, insieme col secolare nemico d’Italia il terribile morbo insidioso che mieteva le giovani vite affidate al suo comando. È ora sepolto laggiù, presso l’infida Valona, tra una selva sterminata di croci. Ancora a capo e in riga coi suoi soldati che l’adoravano, pare ammonisca i sopravvissuti dell’opposta sponda: Ecco, noi abbiamo compiuto il nostro dovere fino all’estremo sacrifizio; non mancate voi di compiere il vostro! — Era figliuolo d’un mio fratello materno: si chiamava Paolo della Valle. Il prof. Francesco d’Ovidio, che lo commemorò poi all’Accademia dei Lincei, mi scrisse dal Senato il 23 ottobre ’18 queste righe, che lo ritraggono fedelmente: «Apprendo or ora la sciagura tremenda. Ne sono profondamente accorato. Che caro figliuolo, che brav’uomo, che bella promessa per l’avvenire, che forza già fin d’ora per gli studi italiani e per tutto! Non so che dirvi. Quando lo vidi l’ultima volta da me, tutto infervorato per gli studi che faceva in Macedonia sul rumeno, e per tanti interessi politici che egli intravedeva per noi in quel rimasuglio di romanità nelle giogaie del Pindo, io lo ammiravo, lo confortavo a proseguire, gli diedi i ragguagli che mi chiedeva per proseguire, ma insieme il cuore mi si stringeva, e nell’abbracciarlo da ultimo pensavo mestamente: lo rivedrò più? Ora ripensando a tanto fiore di gioventù spezzato, e a quel povero padre e a quelle buone sorelle, io ne resto smarrito. Mi condolgo vivamente anche con voi. Addio, addio».
  3. Ma ora sono scomparse anch’esse la Sandra e la Giulia Manzoni, e il fido cameriere Clemente.
  4. Il Barbiera rispose alle mie osservazioni, nel Corriere della Sera del 7 febbraio 1911; così che io fui costretto a riprender la parola, nello stesso giornale, il 9 febbraio. La replica è appunto questo Poscritto, che intitolai Ancora del Manzoni maltrattato, e diressi in forma di lettera al direttore del giornale.
  5. F. D’Ovidio e L. Sailer, Discussioni Manzoniane; Città di Castello, Lapi, 1886, p. 134.