Torquato Tasso (Goldoni)/Atto V

Atto V

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Atto IV Nota storica

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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Sior Tomio ed il Cavalier del Fiocco.

Tomio. La diga, caro sior, xe vero quel che sento?

Xe vero che Torquato i l’abbia messo drento?
Cavaliere. Non metto il becco in molle; vuole il dover ch’i’ ammutole;
Quello che ha fatto il Duca, reputo giusto ed utole.
Tomio. Utole? no v’intendo.
Cavaliere.   Bocabolo è antichissimo.
Dir utole per utile, è parlar toscanissimo.
Tomio. Tutto quel che volè. Domando de Torquato.
Me diseu dove el sia, sior Cavalier garbato?
Cavaliere. Per ordine del nostro Signor molto magnifico,
Credo sia allo spedale il poeta mirifico.

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Tomio. All’ospeal? per cossa?

Cavaliere.   Per esser cagionevole,
Babbeo, squasimodeo, bietolon miserevole.
Tomio. Coss’è sto strapazzar? Tasè, sior boccazzevole,
O ve dirò anca mi qualcossa in venezievole.
Torquato all’ospeal? creder nol posso ancora;
Ma se el ghe fusse, el Duca lo farà vegnir fora.
Lo pregherò per grazia lassarlo vegnir via;
Se el lassa sto paese, ghe passa ogni pazzia.
El goderà a Venezia zorni assae più felici,
E el farà magnar l’aggio a tutti i so nemici.
Cavaliere. Vadia dove gli pare, formato è il vaticinio;
Fia sempre scardassato de’ Toschi allo squittinio.
Non è per tal bucato il cencio suo lordissimo.
Mena l’oche a pastura: proverbio antiquatissimo.
Tomio. Anca nu dei proverbi gh’avemo in abbondanza.
Se dise: la superbia xe fia dell’ignoranza;
No se mesura ì omeni col proprio brazzolar;
Per esser respettai, bisogna respettar;
Travo in nu no se vede, se vede in altri el pelo;
Dei aseni, se dise, la ose no va in cielo.
Coi proverbi toscani vu ne l’ave sonada;
Respondo in venezian. Botta per zuccolada.1

SCENA II.

Don Fazio e detti.

Fazio. Scheavo de vossoria. Ditemi a me no poco:

Torquato dov’è ito? non c’è chiù in chisso loco?
Domanno a chisso, a chillo, nessun no me responne,
Chi chiacchiera, chi chiagne, chi tace e se confonne2.
Tomio. Mi no so gnanca mi cossa de lu sia stà;
Domandèlo a sto sior, che lu lo saverà.

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Fazio. Famme chisso piacere, dimmelo, bene mio;

Commaneme; se pozzo, te serviraggio anch’io.
Cavaliere. Domine! quai smodate parolaccie ridicole!
Castronerie cotali mi scroscian nelle auricole.
Per carità, tacete. Starmi non posso al pivolo,
Udendo chi non bebbe l’acqua del tosco rivolo.
Fazio. Che mallora de tiermene? (a sior Tomio)
Tomio.   El parla sdruzzolato,
Perchè co una verigola3 i gh’ha sbusà el gargato.
Fazio. Dimme dov’è Torquato; no me tormenta chiù.
Me lo bo dire a me?
Cavaliere.   Siete caparbio.
Fazio.   Ahù!
(con esclamazione)

SCENA III.

Don Gherardo e detti.

Gherardo. Padroni stimatissimi, m’inchino a questo e a quello.

Che si fa, che si dice, che parlasi di bello?
Tomio. Se cerca de Torquato. Da vu saverlo spero:
All’ospeal xe vero che i l’abbia messo?
Gherardo.   È vero.
Tomio. Poverazzo! per cossa?
Gherardo.   Perch’è un po’ pazzarello;
Perchè diè qualche segno di debole cervello.
Tomio. Se ognun che ha cervel debole, s’avesse da serrar,
Un ospeal grandissimo bisogneria formar.
Fazio. E, fra li pazzarelli, de tutti lo sovrano
Saria chisso citrullo che chiacchiera toscano.
Cavaliere. Parlate con rispetto d’un uomo che s’annovera
Fra quei che della Crusca il frullone ricovera;
D’uno che del buon secolo seguace zelantissimo,

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Farà le fiche al vostro poeta scorrettissimo;

E proverà ch’ei dice in tutti i venti cantici
Cose da dire a vegghia allo soffiar dei mantici.
Tomio. De defender Torquato sarà l’impegno mio.
Fazio. L’onor de sì Torquato defenderaggio anch’io.
Gherardo. Bravi. Starò a sentirvi con un piacere estremo.
Or or nelle mie stanze a rinserrarci andremo.
Cavaliere. Essi diran covelle; io parlerò coi termini:
Farò che il lor Goffredo si laceri, si stermini.
De’ fogli di colui, che ha rozzo scilinguagnolo,
Potrà pel salsicciotto servirsi il pizzicagnolo. (parte)

SCENA IV.

Sior Tomio, don Fabio, don Gherardo.

Tomio. Mo siestu maledetto! chi diavolo l’intende?

Coss’è sto pizzicagnolo?
Gherardo.   Quel che il salame vende.
Fazio. Chillo che vende in chiazza la carne d’annemale,
Salsiccia, cotecchino, prosciutto e capezzale.
Tomio. No se perdemo in chiaccole, che un bagattin no val:
Chi ha fatto che Torquato se metta all’ospeal?
Gherardo. L’ha comandato il Duca.
Tomio.   Perchè?
Gherardo.   Perchè Torquato
L’amor, ch’era dubbioso, finalmente ha svelato.
E al Principe, che freme perciò di gelosia,
Servito ha di pretesto quel po’ di frenesia.
Tomio. Donca, per quel che sento, sto amor s’ha descoverto?
Fazio. Lo core nnamorato de chi se sa de cierto?
Gherardo. S’è discoperto alfine; con fondamento il so.
Tomio. Conteme...
Fazio.   Dimme schitto.
Gherardo.   Tutto vi narrerò.
Saran due ore appena...

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SCENA V.

Donna Eleonora e detti.

D. Eleonora.   Siete qui?

Gherardo.   Che comanda?
D. Eleonora. In nome di Torquato, un messo vi domanda.
Gherardo. Andrò quando potrò.
Tomio.   Fenì ste do parole.
(a don Gherardo)
Gherardo. Ritornando al proposito... si sa che cosa vuole?
(a donna Eleonora)
D. Eleonora. Il messo non l’ha detto, ma so cosa vorrà.
Fazio. Scompeta. (a don Gherardo)
Gherardo.   Son con voi. (a don Fazio)
V’è qualche novità?
(a donna Eleonora)
D. Eleonora. Giunto è testè da Roma l’amico di Torquato,
Da lui, come sapete, da più giorni aspettato.
Seco parlò poc anzi...
Gherardo.   S’io l’avessi saputo!
Tomio. (Colla mano tira a sè don Gherardo, perchè parli.)
Gherardo. Zitto. (a sior Tomio) Dove si trova il forestier venuto?
(a donna Eleonora)
D. Eleonora. S’è portato dal Duca.
Gherardo.   Dal Duca? ed ei l’ascolta?
D. Eleonora. Parlano insieme.
Gherardo.   Parlano?
Tomio.   E cussì? (a don Gherardo)
Gherardo.   Un’altra volta.
(a sior Tomio, e parte sollecitamente)

SCENA VI.

Donna Eleonora, sior Tomio, don Fazio.

Tomio. Tolè su, co sto garbo l’è andà via, el n’ha impiantà;

L’ha sentio el forestier. Tutta curiosità.

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Fazio. Chisso è no lazzarone, chisso è no malcreato;

Co’ mico non ce parla. Pozz’essere afforcato.
D. Eleonora. Sparlar de’ galantuomini l’onestà non insegna.
S’egli da voi partissi, non fe’ un’azione indegna;
Fe’ suo dover partendo. La faccia a voi rivolta,
Vi salutò cortese, vi disse: un’altra volta.
Tomio. Sì ben, ma in do parole el ne podeva dir
Quello che ne premeva de saver, de sentir.
D. Eleonora. Ridere voi solete delli difetti altrui,
E siete, a quel ch’io vedo, curiosi al par di lui.
Ma che saper vorreste? parlatemi sinceri;
Se posso soddisfarvi, lo farò volentieri.
Tomio. Tanto gentil la xe, quanto graziosa e bella.
Fazio. Me peace, è de bon core. Viva la picciriella.
Tomio. Se dise che Torquato abbia svelà el so cuor:
Voressimo saver chi xe el so vero amor.
D. Eleonora. Vi dirò: non ha molto, v’era Torquato ed io,
Eravi la Marchesa, ei ci diceva addio.
Staccandosi da noi, dolente tramortì;
Pianse, svelò il suo affetto; ma non si sa per chi.
Fazio. Dice lo sì Gherardo, che smamara la gnora.
Tomio. Che l’ama la Marchesa.
D. Eleonora.   Ei non l’ha detto ancora.
Parve che nel sentirla vicina ad esser sposa,
Spiegasse i sentimenti dell’anima gelosa.
Ma rivolgendo i lumi nel tempo stesso a me,
Ei sospirando andava, nè si sapea perchè.
Tomio. Ma perchè don Gherardo dir che l’altra la sia?
D. Eleonora. Per adular se stesso nel gel di gelosia.
Fazio. Sì, sì, t’aggio caputo. È nnomo ch’è politeco;
Crede nella mogliera, non è marito stiteco.
D. Eleonora. Già la Marchesa canta per sè l’alta vittoria,
Dell’amor di Torquato facendosi una gloria.
Io potrei disputarle del buon poeta il cuore,
Ma d’una sposa onesta nol tollera l’onore.

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Dicasi pur ch’egli ami della Marchesa il volto,

Lo so che non è vero, lo so ch’ei non è stolto.
Ma è meglio che si dica, ama una vedovella;
Anzi che dir, egli ama una sposa novella:
Mentre, quantunque invano sperar da me si possa,
Dal mondo facilmente la critica s’addossa.
Non s’ha da dir ch’io gli abbia fiamma nel seno accesa;
Dicasi, anch’io lo dico, egli ama la Marchesa.
Sia giusto, o non sia giusto, dee credersi così.
Io so pur troppo il vero. Voi lo saprete un dì. (parte)

SCENA VII.

Sior Tomio e don Fazio.

Fazio. Maro me! no l’antienno. Me pare una sibilla.

Tomio. Mi, compare, l’intendo. No la xe una pupilla.
La sa el so conto; e vedo, da quel che la ne spazza,
Che ai gonzi la vorave vender pan per fugazza.
La vien co dei partidi, la fa la sussiegada,
Perchè no la gh’ha cuor de dir, son desprezzada.
A mi nol me convien, la dise, e ghe lo lasso.
Dirò de sta parona, co dise el nostro Tasso:
     «Vela il soverchio ardir colla vergogna,
     «E fa manto del vero alla menzogna.
Fazio. E a Napole dicimmo, in stil napoletano,
Chiù dolce e saporito, chiù bel dello toscano:
     Fa che ncesia lo scuorno a tanto pietto,
     E lo bero a lo fauzo faccia lietto.
(parte)
Tomio. In quanto a questo pò, per dir la veritae,
Tradotto in lengua nostra el xe più bello assae:
     E perchè no ti pari una sfazzada,
     Mostra de vergognarte, e sta sbassada.
(parte)

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SCENA VIII.

Camera di Torquato.

Torquato e don Gherardo.

Gherardo. Mi rallegro vedervi dallo spedale uscito.

Ehi, dite, della testa siete poi ben guarito?
Torquato. Qual sia la mente mia dirvi non so, signore;
So che persiste ancora la malattia del cuore.
Gherardo. Sono soggetti i dotti a malattie più strane;
Quanto studiano più, patiscono più rane.
Che hanno che far tra loro il cuore ed il cervello?
Lo stesso che han che fare le scarpe col cappello.
Torquato. Sapreste delle parti l’interna analogia,
Se fossevi piaciuto studiar l’anatomia.
L’origine de’ nervi, che si dirama e unisce,
Dal cerebro principia, nel cerebro finisce;
E se una corda istessa la macchina circonda,
Ragion vuol che toccata quinci e quindi risponda.
Ciò che dà moto e senso ai nervi principali,
Chiamasi sugo nerveo, o spiriti animali;
E questi di mal sorte resi dall’uom pensoso,
Si fa l’alterazione nel genere nervoso.
Chi studia, chi s’affanna, chi vive in afflizione,
I spiriti consuma con ria distribuzione;
E nel canal de’ nervi tal umor s’introduce,
Che stimola, che irrita, che alterazion produce,
Lassezza, convulsioni, tremor, paralisia,
Vapori ipocondriaci, apprensioni e pazzia;
Poichè gli uomini affetti da tal disgrazia orrenda,
Plus quam timenda timent, timent quae non timenda.
Gherardo. Per me non sarò mai ipocondriaco ed egro,
Son stato e sarò sempre senza pensieri e allegro.
Ditemi com’è andata, che il Duca mio signore
Dallo spedali sì presto v’ha fatto venir fuore?

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Torquato. Giunse testè da Roma Patrizio, amico mio,

Mandato per giovarmi dal ciel benigno e pio.
Venne a vedermi, e apprese ch’io non passava il segno:
Che m’avea chiuso il Prence non per pietà, per sdegno.
Mi confortò, mi disse che avea lettere tali
Da presentare al Duca de’ nomi principali;
Che ben sperar poteva di carcere esser tratto:
Indi alle sue parole ecco rispose il fatto.
Per ordine del Prence mi si aprono le porte,
Però mi si destina per carcere la Corte;
Finchè dal nuovo cenno di lui, che umile inchino,
In breve a me si faccia sapere il mio destino.
Gherardo. Voi parlate sì bene, sì franco, e sì sensato,
Che fuori di cervello non par mai siate stato.
Torquato. Della mania non giunsi, grazie al cielo, agli orrori.
Ascendono talvolta al cerebro i vapori;
Ma questi indi sedati dal tempo e da ragione,
Sgombran le nere larve de’ spirti la ragione,
Tornando l’intelletto più lucido e sereno,
Calmata la passione che m’agita nel seno.
Gherardo. Or che far risolvete? che dice il vostro cuore?
Come anderà la cosa del discoperto amore?
Torquato. Ah barbaro, ah crudele! A suscitar tornate
Le smanie del mio cuore dalla ragion calmate. (irato)
Gherardo. Non parlo più. (mostrando timore)
Torquato.   Ma, oh cielo! dunque vagl’io sì poco?
Dunque dovrà ragione cedere al senso il loco?
No, no, parlate pure. Svegliate in me la face:
V’ascolterò costante, sì, soffrirollo in pace.
Gherardo. Bravo, Torquato, bravo: così voi mi piacete;
Far veder che siet’uomo, che ragionevol siete.
Porta Eleonora, è vero, amor negli occhi suoi:
È bella la Marchesa, ma già non è per voi.
Il Principe l’adora, la vuol per sua consorte...
Torquato. Basta, ohimè!

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Gherardo.   Cos’è stato?

Torquato.   Voi mi date la morte.
Gherardo. Non si guarisce mai, quando il cervello è ito.
Torquato. Stolto mi reputate? (con sdegno)
Gherardo.   No, no, siete guarito.

SCENA IX.

Targa e detti.

Targa. Signor, una parola.

Torquato.   Parla.
Targa.   Da voi a me4
Torquato. Con licenza. (a don Gherardo, accostandosi a Targa)
Gherardo.   Padrone. (Che novità mai c’è?)
Targa. La Marchesa vorrebbe favellarvi in segreto.
(piano a Torquato)
Torquato. (A me?) (con qualche movimento)
Targa.   (A voi, signore).
Torquato.   (Quando?)
Targa.   (Adesso).
Gherardo.   (È inquieto).
(accostandosi un poco)
Torquato. (Che farò?)
Gherardo.   (Son curioso).
Targa.   (Risolvere conviene).
Torquato. (Dille...)
Gherardo.   (Dille!) (ripete la parola udita)
Torquato.   (Che venga).
Gherardo.   (Non ho sentito bene).
(s’accosta ancora un poco)
Targa. Verrà, ma è necessario scacciar quell’insolente, (parte)
Torquato. Che impertinenza è questa? (voltandosi improvvisamente)
Gherardo.   Non ho sentito niente.

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Torquato. Don Gherardo, vi prego partir per cortesia.

Gherardo. Non vuò lasciarvi solo.
Torquato.   Mi verrà compagnia.
Gherardo. L’ambasciata vi ha fatto?
Torquato.   M’ha fatto l’ambasciata.
Gherardo. Chi è?
Torquato.   Non posso dirlo.
Gherardo.   State sulla parata.
Non vi fidate, amico. Temer sempre conviene:
Lasciatemi con voi restar per vostro bene.
Torquato. Non ho bisogno; andate.
Gherardo.   Venga chi ha da venire.
Vi lascerò poi seco.
Torquato.   Vi prego di partire.
Gherardo. Di partir non ricuso, ma nel lasciarvi io dubito...
Torquato. Giuro al cielo, partite.
Gherardo.   Sì, signor, parto subito, (parte)

SCENA X.

Torquato, poi la Marchesa Eleonora.

Torquato. Quante pazzie nel mondo son della mia peggiori!

Che pazzi tormentosi son cotai seccatori!
Ma vien la donna. Oimè! saldo resisti, o cuore:
Prevalga la ragione a fronte dell’amore.
E nella ria battaglia sian pronte al mio periglio,
Del dover, dell’onore le massime e il consiglio.
Marchesa. Deh, l’ardir perdonate...
Torquato.   Vi prego accomodarvi.
Marchesa. Serio affar mi conduce.
Torquato.   Son pronto ad ascoltarvi, (siedono)
Marchesa. Vorrei, pria di spiegarmi, essere certa appieno
Che sia in vostro potere delle passioni il freno;
Vorrei mi assicuraste, che la virtù virile
Serbate fra i disastri d’un animo non vile.

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Torquato. Quel che prometter posso, a voi giuro e prometto;

Forza farò a me stesso, per soggiogar l’affetto.
Voi colla virtù vostra segnatemi la strada,
Onde trionfi appieno, onde in viltà non cada.
Marchesa. Uditemi, Torquato. Vano è celar l’amore,
Che voi per me nudriste con gelosia nel cuore.
Di perdermi sul punto, da fier dolore oppresso,
L’arcano custodito tradiste da voi stesso.
Ed io, nello scoprire la piaga vostra acerba,
D’esserne la cagione andai lieta e superba.
Piacquemi in faccia vostra una rivale ardita,
Scoperto il vostro foco, mirare ammutolita.
Piacemi, e in ogni tempo mi sarà dolce e grato,
Dir ch’io fui per mia gloria la fiamma di Torquato.
Ma più di ciò non lice sperare a me da voi.
Voi, che sperar potete? corrispondenza? e poi?
E poi ambi infelici noi ridurrebbe amore,
Senza conforto all’alma, senza mercede al cuore.
Di me dispor non posso: altrui mi vuol legata
Quella maligna stella, sotto di cui son nata;
E se di sciorre il nodo fossi soverchio ardita,
Potrei a me la pace, a voi toglier la vita.
Onde, qualor da voi penso disciormi e ’l bramo,
Segn’è che vi son grata, che più vi stimo ed amo:
Sì, vi stimo, v’apprezzo, di voi non vo’ scordarmi,
Ma deggio a pro comune per sempre allontanarmi.
Se voi di qua partite, io con onor qui resto;
Se qui restar vi piace, quindi partir m’appresto.
Può la partenza mia formar l’altrui martoro;
Può la partenza vostra salvar d’ambo il decoro.
Troppo di voi mi cale; voi nel mio cuor leggete.
Scusatemi, Torquato, pensate, ed eleggete.
Torquato. Ho pensato, ho risolto, ho nel mio cuore eletto.
Partirò. (s’alza)
Marchesa.   Partirete? (s’alza)

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Torquato.   Vinca ragion l’affetto.

Quel ragionar... quei lumi... quella virtute... ohimè!
Marchesa. Ah Torquato!
Torquato.   Ove sono?
Marchesa.   Che fia?
Torquato.   Son fuor di me.
(si getta sopra una sedia)
Marchesa. Ahi, dal dolore oppresso il misero è svenuto.
Sola, che far poss’io? Gente, soccorso, aiuto.

SCENA XI.

Eleonora e detti

Eleonora. Che c’è, signora mia?

Marchesa.   Bisogno ha di conforto
Il povero Torquato.
Eleonora.   (Vorrei che fosse morto), (da sè)
Marchesa. Cerca chi lo soccorra. Presto, il meschino aiuta.
Eleonora. Io non saprei che fargli. Per voi son qui venuta.
Il Duca a voi, signora, manda questo viglietto.
Marchesa. Lo leggerò. Tu resta. (si ritira per leggere)
Eleonora.   Restar non vi prometto.
Crepa, schiatta, briccone, pieno d’inganni, astuto,
Perfido, senza fede... (strillando contro Torquato)
Torquato.   Chi mi soccorre?
(destandosi impetuosamente)
Eleonora.   Aiuto.
(fugge paurosa)

SCENA XII.

La Marchesa Eleonora, Torquato; poi sior Tomio e don Fazio.

Marchesa. Che fu? (accostandosi)

Torquato.   Dove son io?
Tomio.   Coss’è? cossa xe sta?

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Fazio. Che ave lo sì Torquato?

Marchesa.   Ei merita pietà.
Tomio. Tornelo a dar la volta?
Fazio.   Tornammo en ciampanelle?
Torquato. Amici, il morir mio minacciano le stelle.
Tomio. Andemo via de qua.
Fazio.   Annamo in altro stato.
Marchesa. Al cuor de’ veri amici arrendasi Torquato.
Torquato. Se arrendere mi deggio al doloroso esiglio,
Valgami di voi sola la voce ed il consiglio.
Questa è colei, amici, questa è colei che adoro:
Lascio in lei la mia vita, in lei lascio un tesoro.
Ella, che all’onor suo, che all’onor mio provvede,
Al partir mi consiglia. Freme il mio cuor, ma cede.
Tomio. Bravo...
Fazio.   Mo me fa chiagnere.
Marchesa.   Questo viglietto aggiunga
Ragion che alla partenza vi stimoli e vi punga.
Il Duca vi minaccia; parla a me da Sovrano;
Vuol che sugli occhi vostri a lui porga la mano.
Dunque...
Torquato.   Non più, Madama; non più, sì, me n’andrò.
Fazio. Dove vo ir Torquato?
Tomio.   Dove andereu?
Torquato.   Non so.

SCENA XIII.

Targa e detti; poi il Cavalier del Fiocco.

Targa. Viene, signor padrone, un altro forestier.

Torquato. Venga, sarà Patrizio. (Targa parte)
Tomio. (Al Cavalier che viene) Addio, sior Cavalier.
Cavaliere. Ecco, qual le bertucce cinguettano a proposito:
Dicesi addio, partendo; giugnendo, è uno sproposito.
Tomio. Sior correttor de stampe, mi parlo a modo mio;

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Se cussì no ve comoda, tire el saludo indrio.

Ande quando volè, vegnì quando ve par,
No ve saludo più, ve mando... a saludar.
Torquato. Ma il forestier dov’è?
Cavaliere.   Or or verrà Patrizio:
Quel ch’appo il Duca nostro reca per voi l’auspizio.
Verrà, ma se Torquato non è al partir celerrimo,
Diverrà il Prence allotta col tracotante acerrimo.
Marchesa. Sì, partirà Torquato. Sì, partirà a momenti;
Saranno i suoi nemici, saran tutti contenti.
Cavaliere. Vada a purgar la lingua dove i suoi par si cribrano;
Dove le doppie lettere col doppio suon si vibrano;
Dove farina e crusca con il frullon si scevera;
Dove nel latte gongola, chi d’Arno mio s’abbevera.
Tomio. El vegnirà a Venezia, e el se consolerà.
Fazio. Napole è deliziusa.
Tomio.   Venezia è una città
Bella, ricca, amorosa; tutti el sa, tutti el dise.
Fazio. Napole è dello munno lo chiù bello paise.
Cavaliere. Firenze ha consolevole l’acqua, la terra e l’etera.
Fazio. Vedi Napoli, e mori.
Tomio.   Vedi Venezia, etcetera.

SCENA XIV.

Patrizio e detti.

Patrizio. Torquato, a voi ritorno. Amici, a voi m’inchino.

Torquato. Che mi recate, amico?
Patrizio.   Forse miglior destino.
Roma, de’ letterati conoscitrice e amica,
Che nell’amar virtute supera Roma antica,
Se a coltivar in essa le scienze e le bell’arti
Sogliono i rari ingegni venir da mille parti,
Roma Torquato apprezza, loda lo stile eletto,

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Il nobil genio ammira, il facile intelletto.

Piace la gentil arte, onde i suoi carmi infiora;
Piaccion le scelte prose, onde l’Italia onora;
E l’opera, per cui giugne alla gloria estrema,
E la Gerusalemme, vaghissimo poema,
In cui de’ più famosi non va soltanto appresso,
Ma supera gli antichi, e supera se stesso.
Merito sì sublime, che al Tebro alto risuona,
Giust’è che abbia de’ vati degnissima corona.
Questa de’ nomi illustri certa gloriosa marca,
Or due secoli sono, incoronò il Petrarca.
Tasso, che al par di lui reso famoso è al mondo,
Dopo il lirico vate, abbia l’onor secondo;
Anzi, se in metro vario ciascun di loro è chiaro,
Cinti d’egual corona seder veggansi al paro.
Ecco, Torquato, amico, ecco l’onore offerto
A te da Roma tutta, che ti prepara il serto.
Vieni di tue fatiche a conseguire il frutto;
Cigni la nobil fronte in faccia al mondo tutto;
Che più d’ogni mercede, più dell’argento e l’oro,
L’alme bennate apprezzano il sempre verde alloro.
Fremano i tuoi nemici, cessi l’invidia l’onte;
Maggior rispetto esiga l’onor della tua fronte.
Vieni del Tebro in riva a ornar la bionda chioma.
Chi ti promove è il mondo, chi vuol premiarti è Roma.
Torquato. Ah sì, veggami Roma grato a sì dolce invito.
Gloria, mio dolce nume, rendimi franco e ardito.
Di due passion feroci, che m’han ferito il cuore,
Una vinca, una ceda; ceda alla gloria amore.
Donna gentil, sa il cielo se nel lasciarvi io peno,
Ma il bel desio d’onore tutto m’infiamma il seno.
Muoresi alfine, e morte toglie il bel che s’adora;
Vive la gloria nostra dopo la morte ancora.
Ah che di fama il pregio, ah che di Roma il nome
Tutte le mie passioni ha soggiogate e dome:

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Una serbata solo a pro del mio decoro,

Che anela, che sospira l’onor del sacro alloro.
Vadasi al Tebro augusto. Sappialo il Signor mio.
Corte, Ferrara, amici, bella Eleonora, addio.
Marchesa. (M’esce dagli occhi il pianto).
Torquato.   Parole più non trovo!
Fazio. Mo, mo, me vien da chiagnere.

SCENA ULTIMA.

Don Gherardo e detti.

Gherardo.   Che cosa c’è di nuovo?

Cavaliere. Vada Torquato a Roma al suon di fischi e nacchere;
Coronisi il poeta di pampini e di bacchere.
Del romanesco alloro più vaglion due manipoli
Di foglie di gramigna, raccolta in pian di Ripoli.
Cozzar coi muriccioli i Romaneschi sogliono;
Mordere le balene credono i granchi, e vogliono.
Sanno il loglio dal grano solo i Toscani scernere:
Il prun dal melarancio Roma non sa discernere.
Codesti barbassori si stacciano e crivellano;
Fanno baldoria altrove, e da noi si corbellano, (parte)
Gherardo. Bravo! questi proverbi, questi bei paragoni,
Fan gli uomini talora comparir omenoni.
Tomio. Donca vu avè risolto? (a Torquato)
Torquato.   Sì, non più dubitate.
Gherardo. Ehi, che cosa ha risolto? (alla Marchesa)
Marchesa.   A lui ne domandate.
Fazio. Roma è la via che mena allo paese mio.
Annamo, sì Torquato, che veniraggio anch’io.
Gherardo. Che? vuol andare a Roma? (a Patrizio)
Tomio.   Co sarè incorona,
La lite della patria Roma deciderà:
Se de Bergamo in grazia sia el Tasso venezian,

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O in grazia de Sorriento se el sia napolitan.

Intanto no ve lasso, vegno con vu anca mi.
Gherardo. Dunque il Tasso va a Roma? (a sior Tomio)
Torquato.   (Che seccator!) Sior sì.
Gherardo. È ver che andate a Roma? (a Torquato)
Torquato.   Tempo è ormai che tacciate.
Gherardo. Per che cosa va a Roma? (alla Marchesa)
Marchesa.   Nol so. (adirata)
Gherardo.   Non vi scaldate.
Parlo con civiltà, non rubo, ma domando.
(Tanto domanderò, che saprò come e quando).
Patrizio. Torquato, ho già fissata l’ora del partir mio;
Sollecitar vi piaccia.
Torquato.   Sì, con voi sono. Addio.
Addio, bella Eleonora, che foste un dì mia pena,
Che ognor sarete al cuore dolcissima catena.
Vado alla gloria incontro, mercè il consiglio vostro;
Per rendervi giustizia pien di valor mi mostro.
Ma, ohimè, che nel lasciarvi il piè vacilla, e l’alma
Perder a me minaccia... del suo valor la palma...
Sentomi al capo ascendere dal fondo, ohimè, del cuore,
Dell’ipocondria nera un solito vapore...
Ma no, passion si vinca, no, non si faccia un torto
Alla virtù di lei, che recami conforto.
Begli occhi, se partendo più non degg’io mirarvi...
(don Gherardo ascolta)
Uditemi, curioso, voglio alfin sodisfarvi.
Amo costei, la lascio per forza di virtù;
Parto col dubbio in seno di non vederla più.
Combattere finora sentii gloria ed amore;
Or la passione è vinta dai stimoli d’onore.
Imparate, ed impari chi n’ha d’uopo qual voi,
Alla virtù nel seno svelar gli affetti suoi:
Che alle passion nemiche campo facendo il petto,
Perdere arrischia l’uomo il senno e l’intelletto:

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E che il rimedio solo, per acquistare il lume,

È la ragion far guida dell’opre e del costume.
Parte per Roma alfine il misero Torquato,
Sperando dell’alloro esser colà fregiato.
Chi sa quel che destina di me la sorte ultrice?
Ma se l’onore ho in petto, vivrò, morrò felice.

Fine della Commedia.

  1. «Botta e risposta. - Render la pariglia»: Boerio, Dizion. del dial. venez.
  2. Leggesi invece nell’ed. Zatta: e chisso se confonne.
  3. Succhiello.
  4. Pitteri: e me.