Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1911, XI.djvu/511


TORQUATO TASSO 497
Una serbata solo a pro del mio decoro,

Che anela, che sospira l’onor del sacro alloro.
Vadasi al Tebro augusto. Sappialo il Signor mio.
Corte, Ferrara, amici, bella Eleonora, addio.
Marchesa. (M’esce dagli occhi il pianto).
Torquato.   Parole più non trovo!
Fazio. Mo, mo, me vien da chiagnere.

SCENA ULTIMA.

Don Gherardo e detti.

Gherardo.   Che cosa c’è di nuovo?

Cavaliere. Vada Torquato a Roma al suon di fischi e nacchere;
Coronisi il poeta di pampini e di bacchere.
Del romanesco alloro più vaglion due manipoli
Di foglie di gramigna, raccolta in pian di Ripoli.
Cozzar coi muriccioli i Romaneschi sogliono;
Mordere le balene credono i granchi, e vogliono.
Sanno il loglio dal grano solo i Toscani scernere:
Il prun dal melarancio Roma non sa discernere.
Codesti barbassori si stacciano e crivellano;
Fanno baldoria altrove, e da noi si corbellano, (parte)
Gherardo. Bravo! questi proverbi, questi bei paragoni,
Fan gli uomini talora comparir omenoni.
Tomio. Donca vu avè risolto? (a Torquato)
Torquato.   Sì, non più dubitate.
Gherardo. Ehi, che cosa ha risolto? (alla Marchesa)
Marchesa.   A lui ne domandate.
Fazio. Roma è la via che mena allo paese mio.
Annamo, sì Torquato, che veniraggio anch’io.
Gherardo. Che? vuol andare a Roma? (a Patrizio)
Tomio.   Co sarè incorona,
La lite della patria Roma deciderà:
Se de Bergamo in grazia sia el Tasso venezian,