Torquato. Giunse testè da Roma Patrizio, amico mio,
Mandato per giovarmi dal ciel benigno e pio.
Venne a vedermi, e apprese ch’io non passava il segno:
Che m’avea chiuso il Prence non per pietà, per sdegno.
Mi confortò, mi disse che avea lettere tali
Da presentare al Duca de’ nomi principali;
Che ben sperar poteva di carcere esser tratto:
Indi alle sue parole ecco rispose il fatto.
Per ordine del Prence mi si aprono le porte,
Però mi si destina per carcere la Corte;
Finchè dal nuovo cenno di lui, che umile inchino,
In breve a me si faccia sapere il mio destino.
Gherardo. Voi parlate sì bene, sì franco, e sì sensato,
Che fuori di cervello non par mai siate stato.
Torquato. Della mania non giunsi, grazie al cielo, agli orrori.
Ascendono talvolta al cerebro i vapori;
Ma questi indi sedati dal tempo e da ragione,
Sgombran le nere larve de’ spirti la ragione,
Tornando l’intelletto più lucido e sereno,
Calmata la passione che m’agita nel seno.
Gherardo. Or che far risolvete? che dice il vostro cuore?
Come anderà la cosa del discoperto amore?
Torquato. Ah barbaro, ah crudele! A suscitar tornate
Le smanie del mio cuore dalla ragion calmate. (irato)
Gherardo. Non parlo più. (mostrando timore)
Torquato. Ma, oh cielo! dunque vagl’io sì poco?
Dunque dovrà ragione cedere al senso il loco?
No, no, parlate pure. Svegliate in me la face:
V’ascolterò costante, sì, soffrirollo in pace.
Gherardo. Bravo, Torquato, bravo: così voi mi piacete;
Far veder che siet’uomo, che ragionevol siete.
Porta Eleonora, è vero, amor negli occhi suoi:
È bella la Marchesa, ma già non è per voi.
Il Principe l’adora, la vuol per sua consorte...
Torquato. Basta, ohimè!