Top/Un martire della verità
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UN MARTIRE DELLA VERITÀ
— Peralti! — esclamarono gli ascoltatori. — Carmelo! Il nostro Carmelo!
Già: Carmelo Peralti, il loro compaesano, da qualche anno entrato nella Pubblica Sicurezza e perciò rinnegato da tutti.
E Silvio il sarto riprese a leggere nel giornale la gran notizia, ora incespicando e ora affrettando come se le lettere, dopo l’intoppo, godessero di lasciarsi afferrare dagli occhi e dalle labbra:
— «...la guardia Peralti, senza far uso della rivoltella, acci...uffò gli altri due teppisti e riuscì a trattenerli uno per mano, finchè sopraggi...unsero in aiuto due soldati d’artigli...eria e li arrestarono».
— Capite? Uno per mano! — gridò più che mai rubicondo e giocondo Colamosto il calzolaio. — Si chiama forza! si chiama coraggio!
Che notizia! che fatto! E che onore per il paese! che gloria!
— Gli daran la medaglia di sicuro! — diceva uno.
E un altro:
— Ci vado anch’io alla funzione, quel giorno. Carmelo è mio cugino.
E un altro:
— Lo inviteremo qui per la festa d’agosto. Berremo! Bravo, Carmelo!
Grappanera aveva ascoltato zitto e cheto attendendo che ammirazioni e commenti gli consentissero di parlare. Allora, al punto buono, battè la pipetta su la costa del paracarro per vuotarla della cenere; la riempì; accese uno zolfanello e mentre lo zolfanello ardeva, egli, fra sonore aspirazioni, cominciò:
— Quand’ero giovine, a Verona... in una osteria..., che litigavano...
— Non dirla troppo grossa! — l’esortava Pannocchia, piano, in confidenza.
Senza badare alle facce beffarde della compagnia, con l’usata naturalezza e semplicità, con quella sua aria di modestia, Grappanera seguitò:
— ...io ne presi tre per il petto, in una volta.
Era andata; e non era più possibile nè ritirarla nè mutarla.
Oh! uh! Parve fosse scoppiata una bomba che avesse la virtù li far ridere l’universo.
— Bum!... Fanfarone!... Spaccone!... — : tale l’ammirazione che il povero Grappanera suscitava per sè. Acceso dall’ira nella faccia patita, egli tuttavia si sforzò a contenersi; a ingoiare. Il medico gliel’aveva cantata chiara da un pezzo: — Sei tocco al cuore. Se ti arrabbi, ti ammazzi. Ma come non arrabbiarsi? Bisognava pur difendersi, difendere la verità!
Onde, deposta la cesta che aveva già infilata al braccio per avviarsi e non pregiudicarsi quanta salute gli restava, tornò indietro. Gridò gemebondo:
— Uno, ne presi, con questa! — E alzò la mano destra perchè gli increduli la vedessero bene. — Uno con questa!... — e alzò la mancina.
— E il terzo? — chiesero più voci spietate.
D’impeto, in un atto solo Grappanera fece come un bue che abbassi la testa a cozzare o un cane che s’avventi a mordere. — Ham! — Sissignori: così, con la testa, la bocca, i denti — mentre ne teneva due con le mani — egli aveva afferrato per il panciotto il terzo dei litiganti, a Verona, in gioventù.
Non era una cosa possibile? verosimile? Vera!
— E dopo? — Pannocchia chiese serio, quasi per sapere ciò che più importasse. — Chi lo rammendò, dopo, lo strappo al panciotto?
Ridevano tutti, sguaiati; schernivano cattivi oltre il solito.
Il martire finalmente fu costretto a partire con la cesta sotto il braccio. Ma allorchè svoltava dalla Porta Montana, si rivolse; e agitando la sinistra, per disperato ammonimento più che per rimprovero, rispose ai dileggi con tutta la voce che aveva, con voce di pianto: — Mi fate morire! — E disparve.
***
Ogni giorno dopo desinare la compagnia veniva là all’ombra dei tigli fuori Porta Montana a passar l’ora del riposo, o, come dicono in paese, l’ora di Sant’Agostino. Leggevano il giornale; conversavano; disputavano, se non di teologia, di politica, scienze ed arti, sdraiati su l’erba: Silvio il sarto: Colamosto il calzolaio; Pannocchia il sensale; Volturno Schiza, che sapeva di ogni mestiere e d’ogni cosa, e qualche ozioso di buon umore. Con la cesta delle paste dolci e delle mosche — perchè il velo che avrebbe dovuto proteggere quelle da queste era tutto buchi e le mosche passandovi entravano a deliziarsi senza farsi scorgere — ci veniva anche Grappanera; smorto; quasi terreo; i baffi grigi spioventi; il berretto da ciclista sulle ventitrè. Talvolta recava il liquore di sua privativa, squisito e benefico nelle digestioni difficili; ma egli tornava gradevole più spesso con invenzioni d’altro genere. Perchè Grappanera non diceva mai bugie; solo che le verità che diceva, se le inventava lui. I fiori, le fronde, i frutti della sua fantasia portentosa avevano sempre un fondo di realtà o di ragione; le storie che narrava, le avesse concepite ascoltando da altri fatti o cose lontanamente consimili, o risultassero da sparsi elementi di verità certe a tutti e da lui ricomposti quasi per cerebrazione inconscia, le sue storie si specchiavano nella fantasia, da cui sorgevano, in un riflesso di illusione così vivida che il primo a crederci era lui; e vi giurava sopra, sicuro di non dannarsi l’anima. Ma a che valevano i giuramenti? Coloro là non gliene mandavano buona una. Ne egli poteva staccarsi da coloro, ch’erano la sua morte, appunto perchè chi ama la verità è trasportato dove più la verità è combattuta, misconosciuta, negata, spregiata.
Ignoranti! cocciuti! barbari!
— Abbiamo o non abbiamo la testa per ragionare? — egli protestava ogni giorno; e si raccomandava invano: — Per carità, ragioniamo, ragazzi!
Ragionando, non sarebbe parso naturale che un uomo lungo e magro, come era lui ora, avesse avuto molta forza un tempo? Si sarebbe forse ammalato di cuore se non avesse molto esercitato sangue, muscoli e nervi? E ciò considerando, non riuscivano ammissibili le sue geste? Che c’era di impossibile, per esempio, nella paura che aveva fatto prendere a due ufficiali, a Verona, al tempo degli austriaci?
Aveva una bella amorosa e una sera le venne sete, a lei.
— Andiamo al caffè? — Andiamo. — Mentre attendevano il cameriere, i due ufficiali, che sedevano al tavolino dirimpetto, cominciarono a guardar la giovane, a sorridere, a strizzar l’occhio.
— Uf! che caldo!
Bolliva dentro, Grappanera. In bel modo bisognava avvisar quei signori che se al caldo di fuori s’aggiungeva ancora un po’ più di caldo dentro, essi, quella sera, andavano a casa con la testa rotta. E che pensò lui? Prese con le due mani a una estremità la tavola di marmo, la sollevò e, come altri farebbe con una cartella, — Uf! che caldo! — , con quella egli si mise a sventolarsi... Semplicemente. Chi non avrebbe capita la minaccia? I due ufficiali la capirono benissimo.
Ma ecco: — Marmo tarlato! — commentava, serio, Pannocchia. Ecco il martirio: Pannocchia il sensale dava sempre spiegazioni così strampalate, aggiunte così spropositate, prove così buffe ai racconti di Grappanera, che la verità ne restava oppressa e schernita, nonostante i richiami alla ragione. Si degnava di ridere a crepapancia anche Volturno Schiza. Per il ridere Colamosto si contorceva come in convulsione, su l’erba.
Al chiasso i curiosi accorrevano.
E: — Mi fate morire! — doveva concludere il povero martire, scappando con la cesta delle paste e delle mosche.
***
Perciò da un pezzo Grappanera si era imposta una norma che non avrebbe più trasgredita se non l’avesse provocato ad emulazione la guardia Peralti. Volendo a un tempo risparmiar disordini al suo povero cuore e persuadere che lo moveva il più disinteressato amore della verità, sopprimeva sè stesso nei racconti ove avrebbe potuto o dovuto figurare quale prima parte; compieva il sacrificio di sostituirvi «un mio amico», «un tale di mia conoscenza».
Così faceva narrando del tempo che, come tutti sapevano, era stato soldato in Austria per servizio obbligatorio, negli ulani.
Certa nave trasportava una volta un reggimento di ulani giù per quel fiume cui dicono Danubio e che supera il Po, l’Adige e dieci altri fiumi dei nostri insieme.
Quand’ecco nella vecchia carcassa tedesca l’acqua cominciò a penetrare da molte bande. Mano alle pompe, agli stracci, al catrame, alla stoppa per turare i buchi. Presto! Si corre, si grida, si suda. Invano. Ha una forza, una spinta che non s’immagina, l’acqua del Danubio! E se seguitava a introdursi a fiotti, non c’era da dubitare che si andrebbe a fondo, col rischio di finire in bocca a una balena; a una balena del Danubio.
Ma allora a un soldato, un ulano «di mia conoscenza», venne una buona idea. Nell’alzar gli occhi al cielo per raccomandarsi l’anima, vide che dal cielo della stiva pendevano dei lardoni.
— I lardoni! — feci io. — Mettiamo dei pezzi di lardo subito, contro i buchi! Presto, chi di qua, chi di là...
E fu la salvezza.
— E i sorci — aggiunse Pannocchia — , che in Austria sono dieci volte i nostri e hanno anche più giudizio, non mangiarono il lardo per non essere mangiati dalle balene del Danubio.
Risa, clamori, contorcimenti della compagnia: questo il premio al sacrifizio di Grappanera.
— Mi fate morire!
Nè meglio giovava al martire ricorrere a storie che non contenessero proprio nulla della sua biografia ed escludessero ogni suo vanto diretto e indiretto. Quale relazione, per esempio, sarebbe stata da scorgere tra lui e il gran maresciallo Mac Mahon?
E raccontava... — (l’aveva intesa da persona degnissima di fede) — raccontava che Mac Mahon, dopo la vittoria, passò col suo seguito davanti a una masseria dove stavan prigionieri duecento tedeschi, circa. E il maresciallo ordinò al capitano di guardia di condurgli i prigionieri a Magenta.
— Ma, generale, siamo in dodici tra graduati e soldati!
Come avrebbero potuto, dodici militari, scortar duecento nemici, circa, con armi e bagagli, e senza che si ribellassero o scappassero?
Mac Mahon pensò un momento e poi... Bella idea!
Comandò di chiamar fuori a uno a uno i prigionieri; a uno a uno fece staccare il bottone che ne reggeva le brache alla cintola. E in tal modo, dovendo reggere con una mano il fucile e con l’altra le brache, i duecento prigionieri, queti come agnelli, furono condotti a Magenta da sola una dozzina d’uomini.
Gli ascoltatori naturalmente risero. Ma non avrebbero riso che per l’astuzia di Mac Mahon se Pannocchia, il quale nel ’59 aveva ancora da passare due anni prima di nascere e non sapeva nemmeno in qual parte del mondo Magenta si trovasse, non avesse aggiunto, serio serio:
— Me lo ricordo anch’io Mac Mahon a Magenta!
Or fino a un certo segno è compatibile l’ignoranza che non presta fede alle opere umane, ma non è poi compatibile chi non crede al caso, quando ogni giorno si vedono avvenire per caso i fatti più straordinari.
E coloro là non ammettevano neanche la storia del merluzzo!
Con la sua cesta al braccio, Grappanera andava un giorno per i monti, e in un luogo solitario scorse rilucere una pozza d’acqua, e risplendervi dentro una cosa...; un animale, enorme, che pareva d’argento. Si accosta. Immaginate! Era... un merluzzo!
Ma chi, dal mare, l’aveva portato e messo lassù in montagna, in una pozza, un pesce di mare così grande? Questo il problema.
— Un colpo d’aria — rispose Volturno.
E Grappanera, pazientemente:
— Non ci sono cicogne a questo mondo? Non falchi? non aquile? Uccelli, insomma, così robusti da pigliare un pesce, un merluzzino, in mare e portarlo in montagna per divorarselo in santa pace? Il pesce, però, preso da uno di questi uccelli, dovè pensare alle faccende sue e battere e sbattere la coda disperatamente; l’altro aperse un momento il becco...; e il merluzzino scappò, cadde. Per caso, proprio là sotto dove cadde, stava una pozza d’acqua. Il problema era risolto.
— E se te lo mangiasti tutto te, il merluzzo, quanta grappa nera ci bevesti dietro? — dimandò Pannocchia.
Schernivano ormai per partito preso. Inutile, oramai, qualsiasi discorso.
***
Ma non solo per questo Grappanera pativa sino al martirio: pativa non tanto perchè non credevano alle verità che diceva lui, quanto perchè credevano ciecamente alle fandonie che dicevan loro e che imparavano dai libri e dai giornali. Questa la sua maggior passione: di non riuscir a convincerli delle bugie, delle assurdità stampate.
Ah la storia dei canali di Marte!
Un giorno lui, Grappanera, arrivò al convegno mentre Silvio il sarto e Volturno Schiza disputavano, sostenendo l’uno che la gran stella che accompagna il sole al nascere o al morire si chiama Marte, e l’altro che si chiama Venere. La questione non gl’importava molto; e lui, Grappanera, tacque in attesa che la finissero. Come non la finivan più, disse:
— Pensate che se ne abbia permale lo stellone del dì o della sera, se non gli date il suo nome giusto?
Ma Silvio gli si rivolse contro.
— Tu non sai niente! non sai che se è proprio Marte, lo stellone è abitato da gente come siamo noi, tale e quale!
E Volturno confermò:
— Gli scienziati con il cannocchiale ci han visti dei canali come i nostri, con gli argini come i nostri, tali e quali! L’ho letto io nel libro di mio figlio, che fa la quinta!
Capite? Perchè il libro di suo figlio, che faceva la quinta, diceva così, bisognava crederci quasi fosse Vangelo! E perchè gli scienziati ci avevan visti dei canali in Marte, Marte (guai a non crederci!) era abitato.
Ma quel giorno Grappanera ebbe un’idea così giudiziosa che chiaramente dimostrava agli amici quant’erano chiù. Disse:
— Bene. Figuriamoci dunque d’esserci noi lassù, nello stellone, a guardar giù, alla terra, con il cannocchiale. Vi credete voi che diremmo: — Laggiù, in quella stella, che si chiama Terra, ci han da essere degli uomini fatti come noi perchè ci si vedono dei canali con gli argini? No! no! Diremmo: — Quella cosa lunga là, cos’è? Una torre! Quell’altra? Un campanile! Quell’altra? Il camino d’una fabbrica! — Questi sono i segni più visibili della mano dell’uomo; questi sono i segni che non ingannano. Ecco perchè la terra si può dire abitata. Altro che i canali, chiù che siete!
Ma no e no: non rimasero persuasi della ragione; gli diedero dell’ignorante a lui, povero martire!
***
Le invenzioni sopra tutto contribuirono ad affrettare la fine del martirio; e tre furono i presunti miracoli che la ragione e il cuore di Grappanera non poterono assolutamente comportare.
Primo; l’aeroplano. Allora, poco più che un quarto di secolo fa, nessuno degli scienziati solenni avrebbe ammesso quale possibile invenzione che un corpo più pesante dell’aria non solo volasse ma si dirigesse alla sicura per il cielo. Era dunque da rimproverar Grappanera se, per solo amore della verità, sosteneva che la notizia di cotesta invenzione non era bevibile? che il giornale letto dal sarto conteneva balle di bugie?
Palloni se ne eran visti tanti a volare, anche con uomini dentro, che egli ne avrebbe ritenuto possibile uno grande come la cupola di San Pietro a Roma, e capace di portar, magari, due o tre famiglie, purchè il pallone andasse a suo capriccio. La macchina invece descritta nel giornale di Silvio — un’automobile con le ruote, le ali e il motore — andava dove voleva chi c’era sopra.
— Ragioniamo! Per andar dove si vuole è o non è necessario un appoggio? la terra, ai piedi e alle ruote; l’acqua, alle barche e ai bastimenti? Ma la terra e l’acqua sostengono i meccanismi di direzione perchè esse si toccano, si sentono, si prendono. Prendete in mano dell’aria se siete buoni!
A tagliar corto la disputa, Colamosto ricorse agli uccelli.
Quasi che gli uccelli non avessero l’anima fatta apposta per volare e non l’avesse inventata chi ne sapeva più di un giornalista: Domineddio!
Ma il guaio fu che la disputa d’aeronautica si tirò dietro la seconda delle dispute più grandi e funeste, quando poi Volturno Schiza parlò, rivolto a lui, il contradditore: — Tu l’altro giorno dicevi: — prendete in mano dell’aria se siete buoni! — E oggi io ti dico che l’aria si può liquefare, e se si può farne un liquido, si potrà anche prendere in mano dentro una bottiglia o un bicchiere! L’ho letto io nel libro di mio figlio, che fa la quinta.
Grappanera si provò a ridere a questa fola come loro ridevan delle sue verità. — Ah! ah! l’aria liquida! l’aria in bicchieri, l’aria in bottiglie! Non era buffa?
Ma anche il ridere gli sconquassava il cuore. Tacque. Riflettè. Trovò il modo a dimostrar l’errore di quei creduloni: di nuovo per assurdo, da perfetto dialettico.
— Se l’aria, che è un fiato...
— Un gaz, vuoi dire — corresse lo Schiza.
— Se l’aria, che è un gaz, si può ridurre a liquido, il mio liquore, che è un liquido, si potrà ridune a gaz. Bene! Me lo paghereste due soldi, voi, un bicchierino di gaz? E io potrei dire: il mio paz guarisce lo stomaco?
Furono convinti dell’errore, per assurdo? Ma che! Meno che mai!
— Mi fate morire!
E la terza delle più funeste invenzioni...
Era vecchia, ma disgraziatamente se ne discorse la prima volta pochi giorni dopo che Grappaneva aveva tanto sofferto in causa della guardia Peralti.
Si discuteva, a proposito di un truce delitto, intorno alla pena di morte. E Volturno asserì — e gli amici confermarono — che in America hanno una curiosa maniera di punir gli assassini e liberarsene.
Raccolgono due o tre fulmini in una scatola, raccostano al condannato, che senza sospettar di nulla sta a sedere tranquillamente in una poltrona, toccano una molla, i fulmini sbalzan fuori..., e giustizia è fatta!
Colamosto disse, tutt’allegro:
— Presto o tardi questo sistema si userà anche qui da noi.
E Silvio:
— La mannaia e la forca erano un’infamia!
E Pannocchia:
— Ma così, con quella cassettina, dev’essere un piacere anche fare il boia!
Grappanera era rimasto a bocca aperta. Se ci son cose al mondo infrenabili, inafferrabili, che scappan da tutte le parti, sono le saette. E coloro credevano si potessero raccogliere e metterle in una cassettina come le anguille! Quando si arriva a questo punto, a dover udir questo, non c’è neppur più da augurarsi di campare. Meglio andar in un altro mondo dove non si stampino fole di tal sorta e non ci sia nessuno che ci creda!
Grappanera, quand’ebbe chiusa la bocca, prese la sua cesta e si avviò ansimando ma in silenzio. Quando fu alla Porta Montana si rivolse; ripetè il solito disperato gesto, ma non disse: — Mi fate morire! — E disparve.
Il giorno dopo, all’ora di Sant’Agostino, la campana della parrocchia avvisava la solita compagnia che egli era passato da questo mondo pieno di menzogne alla verità eterna.