Terenzio/Atto II
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Atto I | Atto III | ► |
ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Fabio e Lisca.
Di coltivar Lucano per meritar la cena?
E pur saper dovresti, che facili i conviti
Trovano a laute mense di Roma i parassiti.
Lisca. Fabio, di questo nome che a me schernendo apponi,
Offender non mi deggio, ed ho le mie ragioni.
Diceasi parassito, ne’ tempi più remoti,
Chi parte delle vittime godea coi sacerdoti.
La dignità primaria per noi serbasi ancora,
Da noi mensa de’ grandi s’accredita e si onora.
Essi colle rapite spoglie degl’infelici
Mandano alle cucine fagiani e coturnici,
Ai splendidi conviti aver più commensali.
Fabio. Tu prodigo di grazie ti mostri con più d’uno.
Più mense un dì frequenti, e sempre sei digiuno.
Lisca. Ciascun perito in arte, merito acquista e lode;
Tale in battaglia, e tale fra gli oratori è prode.
A tutti il sommo Giove varia virtù dispensa:
A me quella è concessa che esercito alla mensa.
Siccome in te il valore ammirasi eccellente
D’esser coi protettori adulator cliente.
Fabio. Tale sol di Lucano, non d’altri esser mi vanto.
Lisca. Ma il protettore aduli, ma lo schernisci intanto.
De’ clientuli l’uso nell’inchinarlo osservi;
T’unisci indi a sfregiarlo coi schiavi e con i servi.
Chi più di te mordace contro Terenzio avventa
Le satire pungenti, e le calunnie inventa?
E pur Lucan lo stima, e in sua presenza il lodi.
Ciascuno il suo mestiere sa fare in vari modi.
Fabio. Se critico lo schiavo, soffrir lo deve in pace;
Lavinio mi diletta, Terenzio a me non piace.
E se del signor nostro lo lodo alla presenza,
Opra è del mio rispetto, di mia convenienza.
Lisca. Anch’io teco m’accordo nel condannar colui,
Che i parti di Menandro ci pubblica per sui.
Dell’Andria e la Perintia, ambe dell’autor greco,
Le favole tradotte Terenzio portò seco,
E fattene una sola, di due ch’erano in prima,
La gloria dai Romani procacciasi, e la stima.
Fabio. Non son le lodi sparse pel merto dell’autore,
Ma in grazia di Lucano, di Roma senatore.
Mille, qual noi, Terenzio in pubblico han lodato,
Che l’han trovato degno di biasimo in privato.
Lisca. Dicesi che il padrone farallo un dì liberto.
Fabio. Coronasi fortuna, non si corona il merto.
Lisca. Mira Lucano. (guardando fra le scene)
Lisca. Grave lo fa ricchezza.
Fabio. Ha dalla sorte impero.
SCENA II.
Lucano e detti.
Che Roma copre in faccia delle sventure al nembo.
Tanto l’onor sublime di tuo cliente estimo,
Ch’essere mi procaccio ad inchinarti il primo.
Lucano. Al Senato m’invio. Tu mi precedi, e prendi
Per l’umili tue cure la sportula che attendi.
(dà alcune monete a Fabio)
Fabio. Deh non fia ver... (mostra ricusarle)
Lucano. Ricevi questo leggier tributo
Dai padri della patria agli umili dovuto.
La cena offriasi un tempo per sportula ai clienti,
Or della cena in luogo ori si danno e argenti.
Lisca. Ad altri offerte sono le cene ed i conviti.
Lucano. Sì, Lisca, offerte sono le cene ai parassiti.
Chi nome tal non sdegna, alle mie mense attendo.
Lisca. L’onor mi fa superbo; del nome io non mi offendo.
Lucano. Che dicesi da Roma del mio comico vate?
Fabio. Andrà di gloria carco in questa e in ogni etate.
Lisca. Stupido ognun l’ammira.
Fabio. Piace lo stile eletto.
Lisca. Felice è negl’intrecci.
Fabio. Nel scioglierli perfetto.
Lisca. Dai stranieri non ruba.
Fabio. Cerca l’invenzione.
Lisca. Parlasi per giustizia.
Fabio. Non è adulazione.
Lucano. Da me sua libertade Roma impaziente attende.
Fabio. La libertà de’ schiavi o si dona, o si vende.
Donarla? Per tal dono si esigono altri merti.
Fabio. Vedrai, se tu lo rendi al libero suo stato,
Mostrarsi l’Africano al benefizio ingrato.
Lisca. Rari son que’ liberti che serbino la fede.
Lucano. Mel chiedono gli edili, Lelio, Scipion mel chiede.
Pende da lui soltanto libero andar, se ’l brama;
Il merto e la virtute stima Lucano ed ama.
Vogliano i dei del Lazio che ad un sol punto ei ceda,
Farò che di giustizia l’esempio in me si veda.
Onorerò sua fronte con fasto e con decoro,
Con cene, con trionfi, con profusione d’oro.
Conviterò il Senato, i patrizi, i clienti,
Prodigo in ciò spendendo le mine ed i talenti.
Fabio. Da tutti commendata fia l’opera famosa.
Lisca. Loderà ciascheduno la mano generosa.
Fabio. Con pompa e con decoro sciogli pur sue catene.
Lisca. Onora il tuo liberto coi pranzi e colle cene.
Lucano. Vanne ai curuli edili; sappian che ad essi io vengo, (a Fabio)
Fabio. Obbedisco. (Son pago, se profittare ottengo.
Abbia Terenzio pure di libertà il tesoro,
Se pascolo alla sete sperar posso dell’oro), (da sè, e parte)
Lucano. Lasciami solo, e torna all’ore vespertine. (a Lisca)
Lisca. Godrò l’ore oziose passar nelle cucine.
(Piacemi che Lucano i favor suoi dispense,
Quando de’ schiavi in grazia si accrescono le mense).
(da sè, e parte)
SCENA III.
Lucano, poi Damone.
Non ha dal proprio seno il suo dovere escluso.
Conoscerà, lo spero, quel che a lui giova e lice;
Me non vorrà scontento per vivere infelice.
Olà. (torna a chiamare)
Lucano. Si chiama, e non risponde alcuno?
Damone. Rispondere poteva veramente più d’uno.
Terenzio con Creusa eran di me più innanti,
Ma avean altro che fare gli sguaiatelli amanti.
Lucano. Amanti?
Damone. Sì, signore. Se a voi non è palese,
Saprete il loro fuoco, passato il nono mese.
Lucano. Parli da stolto.
Damone. È vero: parlo da stolto, e ’l sono.
Se il mio dover non faccio, domandovi perdono.
In casa, ove gli amori accorda il padron mio,
Dovrei con una schiava far il galante anch’io.
Far nascer degli schiavi dovrei al mio signore,
Ma un brutto malefizio m’ha fatto il genitore;
Piace a me pur la donna, ma sol, con mio tormento,
Scacciar deggio le mosche, mirarla e farle vento.
Lucano. Venga Terenzio.
Damone. In pace resti anche un poco almeno:
Non può l’affar che tratta, aver spedito appieno.
Lucano. Tosto lo voglio. Intendi?
Damone. Se fossero rinchiusi?...
Dirò che lo domandi, che venga, e che mi scusi.
Lucano. Ma no...
Damone. No, lo diceva; in caso tal non s’usa
Dar noia a chi sta bene.
Lucano. Qui mandami Creusa.
Damone. Tempo maggior per essa vi vuol, pria che disposta...
Lucano. Venga tosto, ti dico.
Damone. Ma se...
Lucano. Non vo’ risposta.
Damone. Andrò di volo. (Amante so ch’è il padron di lei.)
Principio una vendetta formar de’ torti miei:
Penso allo stato mio, m’arrabbio e mi confondo;
Perchè nessun godesse, vorrei finisse il mondo).
(da sè, e parte)
SCENA IV.
Lucano, poi Creusa.
Grato mi rendo a Roma, si evita il mio periglio.
Potrei costui, che forma finora il mio diletto,
Vittima, per vendetta, ridur del mio dispetto,
Che alfin merita, e suda, e acquista fama invano
Chi può, per sua sventura, spiacere ad un Romano;
E a noi de’ servi nostri in mano diè la sorte
L’arbitrio della vita, l’arbitrio della morte...
Ma con costei che or viene, dimessa nel sembiante,
Parlar vo’ da signore, nascondere l’amante.
E se giovar non vale pietà col cuore ingrato,
Faccia il rigor sue prove; rendalo umiliato.
Creusa. Eccomi a’ cenni tuoi.
Lucano. Dove finor Creusa?
Creusa. Al ricamo.
Lucano. Tu menti.
Creusa. Mentir per me non s’usa.
Lucano. Usar non lo dovresti, ma sei greca mendace.
Creusa. Al signor non rispondo.
Lucano. (Umiltà quanto piace!) (da sè)
Creusa. (Dei della patria mia, che anche sul Tebro ho in cuore,
Di Grecia a voi s’aspetta difendere l’onore). (da sè)
Lucano. Stavi al ricamo intenta! E che facea ’l tuo vago
Teco, allor che la tela passata era dall’ago?
Creusa. Signor, di chi favelli?
Lucano. Non intendermi fingi.
Ma le pupille abbassi, ma di rossor ti tingi.
Creusa. (Ahimè! quali disastri minaccia la mia stella?) (da sè)
Lucano. (Ah, invan tento sdegnarmi in faccia alla mia bella), (da sè)
Creusa, ti sovviene chi tu sei, chi son io?
Creusa. Di te son io l’ancella, Lucano è il signor mio.
Tu sei nato agli onori, Creusa alle catene.
Viltà però degli avi nell’alma non mi aggrava:
Libera in Grecia nacqui, la sorte mi fe’ schiava.
Tra’ Siculi infelici dal genitor condutta
Mirai dall’armi vostre quell’isola distrutta:
All’aquile fatali, al popolo romano,
Fra l’armi il padre mio fè resistenza invano;
Vuole il destin, che a Roma tutto s’arrenda e ceda;
Ei fu preda di morte, io d’un guerrier fui preda.
Questi a vecchio mercante hammi, crudel, venduta;
Indi a te dal mercante offerta e rivenduta.
Bella pietà finora dolce mi rese il giogo,
Le lacrime in secreto concesse per mio sfogo:
E in avvenir, signore, per tua mercede io spero
Prove goder maggiori di dolcissimo impero:
Che se scacciar dal cuore non posso i patri lari,
Almeno i dei di Roma mi rendano più cari.
Lucano. Onora i lacci tuoi l’alma città latina,
De’ popoli l’asilo, del mondo la reina;
E un senator romano, di cui cadesti in sorte,
Fa belle d’una Greca le docili ritorte.
Un lustro egli è che meco sei per mio ben venuta,
In merto ed in bellezza, come in età cresciuta;
Vedi qual io son teco. Non esser aspra e schiva.
Gratitudine è quella che gli animi ravviva.
Fammi veder che meglio la pietà mia comprendi,
E della mia pietade prove maggiori attendi.
Creusa. Fui sempre a cenni tuoi obbediente ancella.
Lucano. D’obbedienza chiedo una prova novella.
Creusa. Quale, signor?
Lucano. Che mi ami.
Creusa. Dal cuor nasce l’affetto.
Obbliga servitute nulla più che al rispetto.
Lucano. Dunque m’aborri, ingrata?
Le leggi d’una schiava, il dover d’una serva.
Lucano. Serva, soggetta e schiava all’arbitro, al signore,
Prestar dee servitute, e se ’l richiede, amore.
Creusa. Amore è larga fonte, divisa in più d’un ramo;
Amasi in varie guise, in una sola io t’amo.
Amano i figli il padre, l’amico ama l’amico,
Padron s’ama dai servi, e questo è amor pudico.
Da fiamma contumace, che l’onestade eccede,
Schiava fra lacci ancora esente andar si crede.
Lucano. No, se per lei vezzosa il suo signor sospira.
Creusa. A nozze tali in Roma un eroe non aspira.
Lucano. Ad altro aspirar puote, quando l’amor l’accieca.
Creusa. Offender l’onestade non consente una Greca.
Lucano. De’ Romani la legge te dallo scorno esime.
Creusa. Le leggi d’onestate di Romolo fur prime.
Lucano. Quelle che Roma approva, deon reputarsi oneste.
Creusa. Quelle che in Grecia appresi, signor, non sono queste.
Lucano. In Grecia or più non sei, ma in Roma, e fra catene.
Creusa. Il piè strascino in Roma, ma il cuor serbo in Atene.
Lucano. Posso veder, s’è vero, col trartelo dal petto.
Creusa. Fallo pur, se t’aggrada; la morte è il mio diletto.
Lucano. Il tuo diletto, ingrata, morte non è, ma vita,
Che invan goder tu speri col tuo Terenzio unita.
Creusa. Ad uom di pari sorte, di pari grado e amore,
Femmina non è rea, s’offre la destra e il cuore.
Lucano. Fin dove lusingarti potrebbe un folle ardire?
Creusa. A tollerar la pena, a soffrire, a morire.
Lucano. Dunque d’amar confessi.
Creusa. Non so mentir: l’ho detto.
Lucano. (Ah! che mi desta in seno pietà, più che dispetto), (da sè)
Fingi d’amarmi almeno.
Creusa. Che prò, s’io lo facessi?
Lucano. Fingi d’amarmi, e finti concedimi gli amplessi.
Creusa. Deh piacciati, signore, pregio di cuor sincero;
Il dir mi costa poco, ardo per te d’amore;
Ma invan lo dice il labbro, se non l’accorda il cuore.
Gli amplessi lusinghieri, l’amor dissimulato,
Son fiori che la serpe nascondono nel prato.
SCENA V.
Damone e detti.
Lucano. Che vuoi, importuno? (alterato)
Damone. Perdono io ti domando.
Non sapea... chiudo l’uscio, e aspetto il tuo comando.
(accennando di partire per cagion di Creusa)
Creusa. Sciocco! (a Damone)
Damone. La spiritosa! (a Creusa, con caricatura)
Lucano. Che dir volevi, audace? (a Damone)
Damone. Tornerò. Colla schiava segui la tresca in pace, (vuol partire)
Lucano. Fermati.
Damone. Non mi muovo.
Lucano. Perchè sei tu venuto?
Damone. Credimi, colla Greca non ti aveva veduto.
Creusa. (Vil gente scellerata!) (da sè)
Lucano. Parla. (a Damone)
Damone. Un cursor togato
Venuto è ad invitarti in nome del Senato.
Lucano. Vadasi. Oltre al dovere sarò da’ padri atteso.
Tu resta, e ciò rammenta ch’hai da’ miei labbri inteso;
(a Creusa)
Rammenta che alle preci disceso è il tuo signore.
(Amante, e non nemica brama d’averla il cuore).
(da sè, e parte)
SCENA VI.
Creusa e Damone.
Con lui fin nella casa la donna vuol dividere). (da sè)
Creusa. Di’, che mediti, audace, di me nel tuo pensiero?
Damone. Io sono un indovino, che medita sul vero.
Creusa. Vattene.
Damone. Qui vo’ stare.
Creusa. Anima vile!
Damone. Greca.
Creusa. Perfido.
Damone. Greca.
Creusa. Indegno!
Damone. Greca.
Creusa. Ribaldo!
Damone. Greca.
Creusa. Che dir, col dirmi greca, pensi co’ labbri tuoi?
Damone. Dir tutto il male intendo, che immaginar ti puoi.
Creusa. Vile africano indegno, che da’ Romani apprese
La gloria a invidiare dell’Attico paese!
Prima che Roma fosse, era famosa e forte
La madre de’ sapienti, città di cento porte;
E Sparta, e Acaia, e Creta, e tante altre che han reso
Più assai che non è il Tebro, conto1 il Peloponneso.
Roma si vanti pure capo del mondo altera;
Ma sol secoli cinque son ch’ella nacque e impera.
L’epoca della Grecia, cangiata in vario stato,
Confina con il tempo del mondo rinnovato;
Nell’Asia e nell’Europa l’ampio dominio estese;
Roma da Grecia i riti e le sue leggi apprese.
Damone. Per me parlasti greco, però non ti rispondo.
Il dì quando son nato, per me principiò il mondo.
Altr’epoche non curo nè greche, nè latine.
Gli Ateniesi in Roma so che son furbi e scaltri.
Possano crepar tutti, e tu prima degli altri. (parte)
SCENA VII.
Creusa, poi Livia.
Entro al cuor mio la serba forza d’amor occulta.
Sa il ciel se per Terenzio amor mi tiene oppressa,
Ma lui darei ben anche per la mia patria istessa.
E mille vite e mille darei, quand’io le avessi,
Purchè schiava d’Atene Roma ridur potessi.
Ah misera dolente, tutti gli affetti miei
Inutili mi sono, si vogliono per rei.
Soffro i Quiriti alteri, veggo penar gli amici,
E son la sventurata maggior tra gl’infelici.
Avolo mio, Critone, se in vita il ciel ti serba,
Se la nipote in cuore hai, che perdesti acerba,
Prega di Grecia i numi, cui venerar ti è dato,
Che muovansi a pietade del mio misero stato;
E traggano i tuoi voti dal doloroso esiglio
L’orfana sfortunata dell’unico tuo figlio.
Livia. Lungi dalle mie stanze Creusa ognor dimora.
Creusa. Quivi il signor me volle, cui servir deggio ancora.
Livia. Opra altrui di tue mani promessa ho con impegno.
Pronte son lane e sete; dell’opra ecco il disegno.
(porge a Creusa una tela disegnata)
Creusa. Fatto sarà.
Livia. Per modo lo vo’ sollecitato,
Che dal lavor non parta, pria che sia terminato.
Avrai stanza remota; cibo darotti a parte.
Sola potrai far prova maggior di tua bell’arte.
Tempo ti do sei lune a compiere il lavoro;
Promettoti due vasi d’olio che non ha pari,
Per ardere in segreto a’ tuoi paterni lari.
Creusa. Sola sei lune intere? Sola dagli altri esclusa?
Livia. Sola al ricamo intenta, e per mia man rinchiusa.
Creusa. Arte che l’alma impegna, riesce più dolce e vaga,
Qualor la mente oppressa dall’opera si svaga.
Livia. Ma lo svagar talora scema al lavor l’affetto,
Diviso in varie parti il cuore e l’intelletto.
Creusa. Credi; vedrai che l’uso...
Livia. Basta così, lo voglio.
Udir da’ servi miei vane ragion non soglio.
Mira il disegno, e dimmi se quei d’Apelle imita.
Creusa. Esser da greca scuola veggo la mano uscita.
Maestro di tal arte chiaro l’autor comprendo,
Ma sia favola o storia, la tela io non intendo.
Livia. La spiegherò, se ’l brami. Que’ due di vario sesso,
Che timidi, qual vedi, vagheggiansi dappresso,
Sono da pari laccio ambi legati e servi;
Mira nel volto i segni degli animi protervi.
Quel che là vedi in atto d’impor cenni al littore,
Minaccevole in volto, de’ perfidi è il signore.
Scoperte con isdegno di lor le fiamme impure,
Condannali alle verghe, condannali alla scure.
Creusa. Manca, se all’occhio il vero tramanda l’intelletto,
Altra figura al quadro, per renderlo perfetto.
Donna qui vi vorrebbe in abito romano,
In atto di svelare de’ miseri l’arcano,
Col viso e colle mani mostrando il suo livore,
Armando di sua mano la man del senatore.
Livia. (Temeraria! M’intese, e mi risponde ardita.)
La guideran gl’insulti al fin della sua vita). (da sè)
Creusa. Se mal pensai... (a Livia)
Livia. T’accheta. Viene Terenzio a noi.
(osservando fra le scene)
Livia. Resta. Che pensi, audace? Che amor per lui m’aggrave?
Il cuor dell’eroine mal veggono le schiave.
Creusa. Se tal dubbio fallace nutrisse il mio pensiero,
Tua scusa non richiesta par che mi dica: è vero.
Livia. Taci.
Creusa. Non parlo.
Livia. E bada, in faccia al tuo diletto,
A Livia che t’ascolta non perdere il rispetto.
Non veggano quest’occhi uscir da tue pupille
In faccia del tuo vago le fiamme e le faville.
Creusa. (Misera me!) (da sè)
Livia. Terenzio, a che t’arresti? Il cuore
Dipingesi per reo dal soverchio timore.
(parla verso la scena, da dove viene Terenzio)
SCENA VIII.
Terenzio e le suddette.
Franco sarò, se ’l brami, audace anche, se ’l chiedi.
Che leggesi, permetti che vegga da Creusa. (a Livia)
Livia. Non legge.
Terenzio. Che fa dunque?
Livia. Non si domanda.
Terenzio. Scusa. (umiliandosi a Livia)
Livia. A te che cal di lei?
Terenzio. Nulla; ma è naturale
Curiosità, che onesta negli uomini prevale.
Livia. Non ti celar, Terenzio: l’amor tuo non mentire.
Terenzio. Mentir di Livia in faccia? Troppo sarebbe ardire.
Livia. Vorrei, s’ella ti amasse, felicitar tua brama;
Ma struggerti gli è vano, per donna che non ti ama.
Terenzio. Mi disprezzi? (a Creusa)
Terenzio. Questo a lei lo domando.
(a Licia, accennando a Creusa)
Livia. All’inchiesta rispondi. (a Creusa)
Creusa. Taccio per tuo comando. (a Livia)
Livia. Fissar le imposi gli occhi su quel disegno, e tace.
(a Terenzio)
Terenzio. Il suo tacer comprendo. Lo soffro, e mi do pace.
(a Livia, accennando Creusa)
Livia. Senti? di te non cura; ti lascia al tuo destino. (a Creusa)
Terenzio. (Livia conosco appieno. M’infingo, e l’indovino), (da sè)
Livia. Sposa non peneresti mirarla in altro laccio? (a Terenzio)
Terenzio. Non penerei.
Creusa. Ma pure... (verso Terenzio)
Livia. Or dei tacere. (a Creusa)
Creusa. Taccio.
Terenzio. Per me, se il cor le avesse punto d’amore il dardo,
Almeno alle mie luci alzar dovrebbe il guardo.
Creusa de’ suoi sguardi Terenzio non fa degno.
Creusa. (Alza gli occhi verso Terenzio.)
Livia. Mira il quadro. (a Creusa, con isdegno)
Creusa. (Crudele!)
(da sè, parlando di Terenzio; indi osserva il disegno)
Terenzio. (S’accosta a Creusa, osservando anch’egli la tela che tiene in mano.)
Livia. Che ti par del disegno?
Creusa. A questo servo ingrato, che irrita il suo signore,
Vicine esser dovrebbono le verghe del littore.
Terenzio. Qual favola è codesta? (a Livia)
Livia. Soggetto è d’un ricamo.
Terenzio. Posso vederlo?
Livia. Il mira.
Terenzio. (Taci, Creusa, io t’amo).
(piano a Creusa, mostrando di osservare il disegno)
Nuovo pensiere, e vago, (a Livia, accennando il disegno)
(a Terenzio)
Terenzio. Veggolo. Temerario! (In quello io son dipinto). (da sè)
Livia. Che ti par?
Terenzio. Giustamente s’opprime e si minaccia.
(Vuol la ragion ch’io finga). (da sè)
Creusa. (Vuole il dover ch’io taccia).
(da sè)
SCENA IX.
Damone e detti.
(a Terenzio, con ironia)
Se in comodo si trova, da Lelio è domandato.
Terenzio. Vil feccia! (a Damone)
Damone. Scelta schiuma! (a Terenzio)
Terenzio. Andrò, se mei concedi, (a Livia)
Livia. Fermati, (a Terenzio) Lelio venga. (a Damone)
Damone. Lelio verrà a’ tuoi piedi.
(a Terenzio, con ironia)
(Oh di magion felice mirabile comparto!
Padre, figlia, due schiavi... bella partita in quarto).
(da sè, e parte)
SCENA X.
Terenzio, Livia e Creusa.
Livia. Terenzio, i sacrifici conosco, e men compiaccio.
(con tenerezza)
Non ti curar de’ servi, ch’han gli animi vulgari.
Creusa. Gli animi di chi serve non van tutti del pari, (a Livia)
Livia. Taci. (a Creusa)
Livia. E gli occhi tieni al disegno intenti.
Creusa. (Quando avran fine, o numi, gli spasimi e i tormenti?)
(da sè)
SCENA XI.
Lelio e detti.
Livia. Marte a Lelio compensi l’augurio generoso.
Lelio. Di Cerere nel tempio gli edili han ragunato
In ordin de’ comizi il popolo e il senato;
Tribuni e magistrati, ciascun Terenzio noma.
Vanne; Lucan ti aspetta; tu sei l’amor di Roma.
(a Terenzio)
Terenzio. Vado. (in atto di partire, mirando Creusa)
Creusa. Mi lasci? (a Terenzio)
Livia. Ardita! A che ti sprona il cuore? (a Creusa)
Quella che in lei tu vedi, è invidia e non amore.
(a Terenzio)
Terenzio. Il mio dover mi porta ’ve il mio signor mi chiama.
Conosco chi m’adula, discerno chi ben ama.
Secondino pietosi i numi il mio disegno;
Del cuor che ha maggior pregio, il ciel mi renda degno.
(parte)
SCENA XII.
Livia, Creusa e Lelio.
Creusa. (Colpa non ha il mio cuore, se misera son io), (da sè)
Livia. Vanne, Creusa.
Creusa. Dove?
Livia. Dove a te dissi, e quando.
Chiuditi, e d’uscir fuori s’aspetti il mio comando.
Farammi, a tuo dispetto, o il mio Terenzio, o morte).
(da sè, e parte)
SCENA XIII.
Livia e Lelio.
Lelio. Spesso nel volgo sparge fama bugiarda il falso.
Livia. Ma ciò si lasci, e dimmi: il popolo latino
Offre al comico vate l’onor di cittadino?
Lelio. Arbitro è sol Lucano di sì bel dono, e Roma
Pregalo che tal fregio conceda alla sua chioma.
Quel ch’ora dagli edili s’agita in sacra sede,
E all’opre di Terenzio generosa mercede.
Nel dì pria delle none d’april, ne’ giochi usati,
Per Rea, madre de’ numi, Mengalesi chiamati,
L’Eunuco in un sol giorno due volte empieo l’arena
Con destra e con sinistra tibia sonora, amena:
Onor, ch’è riserbato a’ comici preclari,
L’impari tibia usata concessa ai più vulgari.
Con pubblico decreto merta che a lui sia dato
Premio che de’ poeti sorpassi il premio usato.
Livia. Credi che il suo signore la libertà gli done?
Lelio. Lo credo.
Livia. E allor fia degno di dame e di matrone?
Lelio. L’uso di Roma è tale. La verga che percuote
Per amor, non per ira, dello stranier le gote,
Fa che del sangue istesso ogni bruttura emende,
E degli onori a parte de’ cittadini il rende.
Livia. Qual credi tu più degna del libero Africano?
Lelio. Quella cui per amore fe’ sua figlia Lucano.
Livia. Da lui dipender deggio obbediente figlia.
Lelio. Livia, da lui lontana, il cuor che ti consiglia?
Livia. Finche Terenzio è servo, pensare a lui non deggio.
Coll’anime vulgari amante non vaneggio.
Nel nostro sen riposa l’onor di tutta Roma.
Lelio. Mille, per uom sì conto, avran ferito il cuore.
Livia. Cedere all’adottiva dovran del suo signore.
Lelio. Credimi, se tu tardi, cotal condizione
Non valeratti dopo la sua manomissione.
Livia. Troppo sarebbe ingrato, cercando altri legami.
Lelio. Livia, per quel ch’i’ sento, tu confessi che l’ami.
Livia. No, non amo uno schiavo, nè l’amerò giammai.
Sia libero Terenzio, dirò s’unqua l’amai.
L’onor delle Romane fisso nell’alma i’ porto;
Ma farmi non ardisca donna qualunque un torto. (parte)
SCENA XIV.
Lelio solo.
Che per voler del fato ti è serva, e ti è rivale.
Giugne tant’oltre il fasto delle Romane in core,
Che credonsi le sole custodi dell’onore.
Preme a noi pur, che regni in lor gloria latina;
Ma donna far non puote di Roma la rovina.
Misero l’uom, se stesse l’onor d’una famiglia
Nel cuore della sposa, nel cuore della figlia!
Facciano il lor dovere, sia donna o sia fanciulla;
Puniscasi chi manca, e l’uom non perde nulla. (parte)
Fine dell’Atto Secondo.
- ↑ Così le edd. del Settecento. Forse è da leggersi conta.