Atto I

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Il prologo Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Lucano e Damone.

Lucano. Parla; che vuoi?

Damone.   Signore, dirti vorrei tre cose;
Una di lor non preme, ma due son premurose.
Lucano. L’inutile si lasci; le necessarie esponi.
Damone. Viva il padron: tu sei lo specchio de’ padroni.
Delle due cose gravi la prima eccola qui:
Terenzio mi corbella, mi tratta ognor così.
Nella commedia sua, l’Eunuco intitolata,
Contro me, che tal sono, vi è più d’una sferzata.
L’altra, che dir ti deggio, è questa, padron mio,
È africano Terenzio, è schiavo qual son io;

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Ma lui dal signor nostro a scriver si destina,

Ed io son destinato agli orti e alla cucina;
E pur, se nel far ridere stan tutti i pregi sui,
M" impegno che il buffone so fare al par di lui;
Anch’io so adoperare il pungolo e la sferza...
Lucano. Basta: due cose vane. Esponi ora la terza.
Damone. La terza importa meno: lo dissi, e lo ridico.
Lelio di fuor t’aspetta, di Terenzio l’amico.
Lucano. Lelio patrizio?
Damone.   Appunto.
Lucano.   Venga.
Damone.   La mia ragione...
Lucano. A te ragion, se tardi, farò con il bastone.
Damone. No, no, signor, sospendi l’usato complimento.
Disposto a nuove grazie col dorso non mi sento.
(Fortuna, fortunaccia, tu sei meco indiscreta;)
Ma voglio vendicarmi col comico poeta).
(da sè, indi parte)

SCENA II.

Lucano, poi Lelio.

Lucano. Sorte non cambia in seno degli uomini il costume;

Ciascun de’ propri affetti segue a talento il lume.
Due schiavi a un laccio stesso ridotti in servitute,
Uno l’invidia segue, e l’altro la virtute.
Lelio. A te pace, Lucano, diano i penati tuoi.
Lucano. Pace a Lelio e salute diano i penati suoi.
Lelio. Teco a gioir mi porta l’evento fortunato,
Che l’opre di Terenzio in Roma han riportato.
Nella punica guerra ei fu tua preda, e puoi
Gli applausi dello schiavo accogliere per tuoi.
La sua virtù lo rese grato alle genti note;
L’ama Scipione il giovane, dell’African nipote,

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E quel che a lui mi lega tenero amore antico,

Fa ch’io sia di Terenzio, qual di Scipione, amico.
Lucano. Grati mi sono, il giuro, i tuoi sinceri uffici;
Giubilo che lo schiavo abbia cotali amici,
E averlo in mio potere nell’Africa ridutto,
Delle vittorie mie fia sempre il maggior frutto.
Roma se ne compiace: Roma l’applaude e loda;
Godo che dai Romani, per cagion mia, si goda.
Anche gli edili stessi, che de’ teatri han cura,
Lodano nel poeta lo stile e la natura;
E maraviglia fassi ciascun, che un Africano
Scriva latin purgato, qual s’ei fosse Romano.
Lelio. Non rammentasti invano gli edili. In nome loro
A ragionarti i’ vengo; grazia per tutti imploro.
Terenzio, amor di Roma, gloria di nostra etade,
Merta che a lui si doni l’onor di libertade.
Nel rendergli giustizia si accrescerà il tuo merto;
Terenzio di Lucano ognor sarà liberto;
E allor fia nostro vanto l’ingegno peregrino
Vantar per figlio nostro, per nostro cittadino.
Perde nel volgo un fregio il lauro alle sue chiome,
Con questo che l’aggrava di servo abietto nome;
All’opere sue belle, al comico valore,
Vedrai la libertade recar gloria maggiore;
Poichè pende talora il pregio e l’eccellenza
Nei pubblici giudizi dal nome e l’apparenza;
E tal, che mille in seno merti sublimi aduna,
Disprezzasi dal mondo, se mancagli fortuna.
Lucano. Tale richiesta, amico, mi onora e mi consola;
Ma un prezioso acquisto dalle mie soglie invola.
Bello è l’udir cantarsi dal popolo romano:
Viva Terenzio il prode, lo schiavo di Lucano.
Pur se ragione il chiede, se fia il negarlo ingiusto,
Son pronto il sacrifizio far al Senato Augusto.
Lelio. Tu pur del gran Senato sei fra’ padri conscritti

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A parte della gloria de’ cittadini invitti.

Perdi un privato bene, se rendi il servo immune,
Ma l’hai moltiplicato col popolo in comune.
Lucano. Quel della patria nostra supera ogn’altro affetto.
Libero fia Terenzio: al pubblico il prometto.
Lelio. L’alta virtude i’ lodo di superar te stesso;
Ma ancor non basta, amico, quel ch’hai di far promesso.
Schiava di Grecia hai teco: Creusa ella si chiama;
Seco fra’ lacci al Tebro venne Terenzio, e l’ama;
E al lor signor comune, per grazia o per mercede,
In nodo a lui congiunta e libera la chiede.
Lucano. Troppo le mire estende uom ch’è fra’ lacci ancora;
Poco non è, se ottiene la libertà che implora.
Per ostentar coperta qual libero la chioma,
Susciti in suo favore Lelio, Scipione e Roma;
Ma seco non presuma scioglier dai lacci miei
Schiava, che alle mie fiamme concessero gli Dei.
Vegg’or perchè rubella è al mio bel foco, e schiva,
Del cuor della mia preda è costui che mi priva.
Solo di libertade abbia Terenzio il dono;
A questo patto, amico, teco impegnato io sono.
Ma se in amor persiste a contrastarmi ingrato,
Non pensi a libertade, non pensi a cambiar stato.
Roma non mi comanda; Roma nel tetto mio
Il mio piacer rispetti. Son cittadino anch’io. (parte)

SCENA III.

Lelio, poi Terenzio.

Lelio. Anche fra’ padri eccelsi vibra Cupido i strali.

Sono agli eroi non meno che agl’infimi fatali.
Etade non rispetta, grado, virtù, valore,
Il vincitor de’ numi micidiale Amore.
Terenzio. Signor, qual uom che pende da oracolo divino,

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Tal io da’ labbri tuoi attendo il mio destino.

Qual si mostrò Lucano delle mie brame al volo?
Lelio. Libero sei, se ’l chiedi; ma senza sposa, e solo.
Terenzio. La grazia dimezzata rende mal pago il cuore;
Peggio, delle due parti se perdesi il migliore1
Amo la libertade, amo la donna bella,
Ma questa delle due mi piace più di quella;
Onde, se a me si nega ciò che quest’alma adora,
Sa ricusar Terenzio la libertade ancora.
Lelio. Perdere un sì bel dono per lei non ti consiglio,
Che può, dopo il tuo bene, formare il tuo periglio.
Terenzio. Lelio, di tai concetti piene ho le carte anch’io,
Ma in ciò dalla mia penna discorda il desir mio.
Insite per natura son le passioni al cuore,
Non vagliono ragioni per vincere l’amore.
Nella commedia a cui dà il titolo Formione,
Anch’io sgridai l’amore del giovane Antifone;
Ma allor che la morale spargea su’ fogli miei,
Se gli occhi di soppiatto miravo di colei,
Dicea: Tu sei pur bella, amabile Creusa!
E al cuor del figlio amante mi suggeria la scusa.
Lelio. Ma che far vuoi, se invano a chiederla ritorni?
Terenzio. Soffrir nostre catene ancor per pochi giorni.
Lelio. Per pochi giorni? E come discioglierai quel nodo?...
Terenzio. Eh, san trovar di sciorlo l’anime franche il modo.
Lelio. Troncar colla tua mano vuoi della vita il velo?
Terenzio. No; serbar vo’ la vita, finchè la serba il cielo.
Hassi a morir, gli è vero, ed è fin d’ogni male
Sollecita anche troppo la morte naturale.
Spero troncar il laccio, in cui da noi si langue,
Con arte, con ingegno, non colle stragi e il sangue.
Folle è colui che affretta suo fin colla sua mano:
In altro mi uniformo; in ciò non son Romano.

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La virtù dell’eroe credo consista in questo:

Nel tollerar costante il suo destin funesto.
Morir per l’onor suo, morir pel suo paese,
È nobile virtute che le grand’alme accese;
Ma sprezzan l’alme forti della fortuna il gioco:
Vile è colui che morte si dà per così poco.
Lelio. Vivi per comun bene, vivi per gloria nostra,
Ma per tua libertate men tiepido ti mostra.
Per me, pel tuo Scipione, nostro comune amico,
Per gli edili di Roma a prò tuo m’affatico.
Deh, l’opera di tanti struggere non ti piaccia;
Lavinio, il tuo nemico, più non ti rida in faccia.
Non vaglia sulle scene al detrattore insano
Il dir: Terenzio è schiavo; Romani, io son Romano.
Al popol, che s’appaga di facile ragione,
Con questo nome in bocca il tuo rivale impone.
Terenzio. Vanti Lavinio audace di cittadino il nome;
Per questo non isperi i lauri alle sue chiome.
Scrivo all’età presente, scrivo all’età future.
Dell’opere si parli, e non delle avventure;
Che se parlar di queste s’avesse al mondo in faccia,
Siam conosciuti entrambi; buon per lui che si taccia.
Lelio. Dunque...
Terenzio.   Colei che m’arde, ecco mi viene innante.
Mira, se merta meno l’amabile sembiante.
Lelio. Vaga è, nol nego.
Terenzio.   Io gioco, che se ti fissi in lei,
Ti fa invidiare Amore perfino i lacci miei.
Lelio. Compiango le tue fiamme, compiango la tua stella.
Pensa, risolvi, addio. (Lo compatisco, è bella).
(da sè, e parte)

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SCENA IV.

Terenzio, poi Creusa.

Terenzio. Desio di libertade, tenero dolce affetto

Mi pungono egualmente con pari lancia il petto;
Io peno fra due lacci, però non mi confondo,
Cose maggiori il tempo sa regolare al mondo.
Creusa. Ah Terenzio, disastri nuovi il destin minaccia:
Il signor nostro irato, bieco guardommi in faccia.
Hai tu svelato ad esso l’ardor ch’entrambi accese?
Terenzio. Non da me, ma da Lelio tutto l’arcano intese.
Svelar ciò si dovea; doveasi uscir di pena.
Creusa. Esser speriam disciolti dalla servii catena?
Terenzio. La libertà m’offerse, solo, da te lontano;
Ma chi da te mi toglie, m’offre i suoi doni invano.
Morirò, pria che teco non vivere, mio bene.
Creusa. Stelle! al cuor mio che t’ama, raddoppiansi le pene.
Lascia quest’infelice in braccio al suo destino;
Non perder per me sola l’onor di cittadino.
Terrò senza lagnarmi fra le ritorte il piede,
Bastami che a me serbi il tuo cuor, la tua fede.
Terenzio. Se basta a tua virtute, all’onor mio non basta.
Le nozze tue Lucano amante mi contrasta.
Lungi da te preveggo di perderti il periglio;
Fia teco star tra’ lacci per or miglior consiglio.
Creusa. Spicca ne’ detti tuoi la tenerezza estrema,
Ma d’un padrone acceso dubita l’alma, e trema.
S’ambi qui star dobbiamo, direi miglior partito
Far con segrete nozze Terenzio a me marito.
Terenzio. Cresca l’amore a segno che per dolor mi sveni,
Ma un sol pensier la brama moderi, spenga, o freni.
Pensa che i figli nati di schiavitù agli orrori,
Seguon lo sventurato destin dei genitori;
E debitor saremmo, per folli amori ardenti,
Dei lacci tramandati ai miseri innocenti.

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Creusa. Difender noi potrebbe da ciò nobile affetto.

Terenzio. Vicino ad una sposa di ciò non mi prometto.
Creusa. Bella virtù c’insegni soffrir congiunti il foco.
Terenzio. Che tal virtù noi freni disgiunti non è poco;
Pensa se il casto nodo s’aggiunga a calde brame.
Lungi talor dal cibo si tollera la fame,
Ma dopo lunga inedia, molto sofferta e molto,
Lasciar mensa imbandita non può chi non è stolto.
Creusa. Terenzio, in me perdona, prodotto dall’affetto,
Da tue ripulse acceso, un leggiero sospetto:
Livia, che di Lucano d’adozione è figlia,
Tenera troppo i’ veggo fissare in te le ciglia:
Parla di te sovente, ti loda, e si consola
Qualor delle tue lodi sente formar parola.
In donna che superba fasto romano ostenta,
Lodar tanto uno schiavo il cuor non mi contenta.
Esser potrebbe, è vero, di giusto zelo ardore,
Ma da giustizia ancora può derivar l’amore.
E in caso tal Terenzio, cui servitute aggrava,
Potrebbe una Romana preferire a una schiava.
Terenzio. Tutto soffersi in pace udir da’ labbri tuoi,
Per ispiar che pensi, che sospettar tu puoi.
Troppo, Creusa, offendi di me l’amor, lo zelo;
Amo te sola, e chiamo in testimonio il cielo.
Livia, del signor nostro figlia adottiva, è vana;
Pretende quel rispetto ch’esige una Romana.
Nemica non mi giova presso Lucano averla;
Soglio per questo solo studiar di compiacerla.
Creusa. Eccola. Vo’ partire.
Terenzio.   Resta, non dar sospetto.
Creusa. M’è noto il suo costume; nuove rampogne aspetto.

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SCENA V.

Livia e detti.

Livia. Creusa, invan ti cerco, invan ti chiamo, e lieta

Trovoti accanto alfine del comico poeta.
Terenzio. Le donne mai non furo da noi poeti escluse:
L’estro ci dan felice tre Grazie e nove Muse.
Livia. Speme di nobil estro da una vil schiava è vana.
Creusa. Estro sublime, altero, daratti una Romana, (a Terenzio)
Livia. Parti da questo luogo. L’ago ti aspetta e il fuso.
(a Creusa)
Creusa. (Misera! il mio sospetto di falso io non accuso.)
Il cuor che non s’inganna, temi colei, mi dice,
Che ha l’arte, che ha il potere di renderti infelice).
(da sè, indi parte)

SCENA VI.

Livia e Terenzio.

Livia. (Partì alfine l’ardita).

Terenzio.   (Scoprir vo’ il di lei cuore), (da sè)
Livia. Scarso, Terenzio, rendi a tue virtute onore.
Trattar con una schiava, d’ogni rispetto indegna,
A un uom del tuo valore prudenza non insegna.
Tu mostri co’ tuoi carmi in che il dover consista,
Ma poco dall’esempio chi ti conosce acquista.
È ver, te pur fra’ lacci sorte guidò proterva,
Ma l’alma d’un uom dotto comanda, e non è serva.
Terenzio. Trattar con i più grandi, trattar con i più abietti,
Dee quel che cerca al mondo i comici soggetti:
Però dalla tua schiava, che mostra un cuor gentile,
Apprendo gli argomenti d’un animo non vile.
Livia. Non può nutrir virtudi Greca venduta in seno,
Sol d’eroine abbonda il romuleo terreno.

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Qui Pallade e Minerva hanno i dovuti onori,

Qui Venere dispensa le grazie ed i favori.
Esser può saggia altrove, può splender come stella,
Sarà donna straniera men colta e meno bella.
Terenzio. Perdonami...
Livia.   Contrasta meco uno schiavo invano.
Di Roma non conosce i pregi un Africano.
Il tuo saper t’innalza, ma il basso in te prevale,
De’ miseri stranieri difetto universale.
Terenzio. Faccian del Tebro i numi, che al ver mia mente salga;
E quel che ne’ Romani prevale, in me prevalga.
Livia. Principia dalla stima maggior del nostro sesso.
Terenzio. Per te dell’eroine stima maggior professo.
Livia. Per me? (dolcemente)
Terenzio.   Tuo merto il chiede.
Livia.   Per me le donne apprezzi?
Terenzio. Lo mertan tue virtudi, l’esigono i tuoi vezzi.
Livia. Olà. Tale a Romana schiavo favella ardito?
S’altri che te il facesse, non andrebbe impunito.
Terenzio. Se per lodar tuoi pregi ingiuria a te si reca,
Per me fia men periglio trattar la schiava greca.
Livia. No, dal tuo cuor quel nome porre tu devi in bando.
Sfuggir devi Creusa; lo voglio e lo comando.
Terenzio. Son vil, se per le schiave s’abbassa il mio pensiero,
Son, se a Romane aspiro, prosontuoso altero.
Onde, se ha gli estremi mezzo trovar non basto,
Dovrò, sino ch’io vivo, starmi solingo e casto.
Livia. Il bel de’ tuoi pensieri, il vezzo de’ tuoi carmi
Han l’arte di piacere, han forza d’obbligarmi.
A te penso, o Terenzio, più che non credi, e invano
Pensar non mi lusingo, in favor di un estrano.
Terenzio. Degno di grazia tanta non son io, lo confesso;
Nè so se ringraziarti nemmen mi sia concesso.
Non so se alla clemenza, di cui tu mi fai degno,
Possa il beneficato dar di rispetto un segno.

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Livia. Non sol lo puoi, ma il devi.

Terenzio.   Ecceder non vorrei
Coi termini il confine prescritto ai dover miei.
Livia. Un comico poeta, un peregrino ingegno,
Che di pensier vezzosi, che di concetti è pregno,
Sa quel che a lui s’aspetta, sa quel che più conviene
A donna che si spiega vegliar per il suo bene.
Terenzio. A donna che vegliasse per il mio ben soltanto,
E a me non opponesse dell’eroine il vanto,
Termini convenienti direi del mio rispetto.
Livia. Di rispetto soltanto?
Terenzio.   E termini d’affetto.
Livia. Fammi sentir, Terenzio, prova del dolce stile,
Che grato usar sapresti con femmina più vile.
Terenzio. Donna, direi, che in seno tanta pietate accoglie,
Grato secondi il cielo in mio favor tue voglie.
Alto di me disponi, dispon di questo cuore:
T’offro qual più ti piace, la servitù o l’amore.
Livia. A chi parli, Terenzio?
Terenzio.   Parlar così dovrei
A donna che gradire potesse i sensi miei.
Livia. Teco non sono austera, non son di grazie parca;
Stimerei di te meno un principe, un monarca.
Roma sprezzar c’insegna chi di lei non è figlio;
Ma rispettare il merto è nobile consiglio.
A te che per virtute resero i Dei felice,
Permettersi può quello che a uno stranier non lice.
Terenzio. Dunque, se m’avvaloro per tua bontade estrema,
Se più il tuo servo onori di scettro e diadema,
Lascia ch’io sfoghi in parte il giubilo che pruovo...
Livia. (Si rivolta altrove, in atto di arrossire.)
Terenzio. (Costei m’offre alle scene un carattere nuovo), (da sè)
Lascia che dir ti possa, ch’hanno formato i numi
Per far altrui felice quel volto e quei be’ lumi!..
Livia. Basta così.

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Terenzio.   M’accheto.

Livia.   Parti.
Terenzio.   Obbedisco.
Livia.   E bada
Che il temerario piede a Creusa non vada.
Terenzio. Questo piè, questo cuore, e tutti i sensi miei
In traccia andranno ognora... se potessi, il direi.
Celo nell’alma a forza rio dolor che m’aggrava.
Livia, tu non m’intendi.
Livia.   Sì che t’intendo.
Terenzio.   Brava, (parte)

SCENA VII.

Livia sola.

Ah! noi donne latine, nel generoso orgoglio

Troviamo ai dolci affetti miserabile scoglio.
Massime rigorose a noi la gloria insegna,
Destra di vil straniero delle Romane è indegna.
Ma lo stranier più vile, ma fin lo schiavo abietto,
Se cittadin vien reso, merta qualche rispetto.
Terenzio, se ’l dichiara il suo signor liberto,
Principia fra i Quiriti ad acquistarsi un merto;
E col bel nome in fronte di cittadin romano,
Può renderlo virtute degno ancor di mia mano.
Rendasi per lui dunque padre d’amor pietoso...
Ma libero, chi certa mi fa ch’ei sia mio sposo?
Chi sa ch’ei non risolva tornare ai patri lidi?
Passar dal roman Tebro agli Africani infidi?
Chi sa che in libertade tornando un dì l’ingrato,
Seco la greca schiava non gli mirassi allato?
Poco sperar poss’io dai tronchi detti oscuri
Di comico poeta, sagaci e mal sicuri.
Questo pensier m’affanna, questo timor mi svena,
Quest’è, che a lui mi vieta di scioglier la catena.

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Potrei assicurarmi della sua fede in prima,

Ma donna che parteggia coi servi, ha poca stima.
Nemmen dirgli a me lice: ardo per te d’amore;
Troppo si avvilirebbe d’una Romana il cuore.
Tutto quel che far posso per confortar mie pene,
È ’l dir: Ti voglio mio, ma voglioti in catene.
E almen, se a me non lice goder gli affetti sui,
Quel ch’esser mio non puote, non veggasi d’altrui.
Sia invidia, sia giustizia, sia pertinace orgoglio,
Son donna, son romana; risolsi, e così voglio. (parte)

Fine dell’Atto Primo.

  1. Nelle edd. del Settecento si trova la virgola dopo parti (= ti pare), ma il senso non corre bene.