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TERENZIO | 337 |
Altr’epoche non curo nè greche, nè latine.
Gli Ateniesi in Roma so che son furbi e scaltri.
Possano crepar tutti, e tu prima degli altri. (parte)
SCENA VII.
Creusa, poi Livia.
Entro al cuor mio la serba forza d’amor occulta.
Sa il ciel se per Terenzio amor mi tiene oppressa,
Ma lui darei ben anche per la mia patria istessa.
E mille vite e mille darei, quand’io le avessi,
Purchè schiava d’Atene Roma ridur potessi.
Ah misera dolente, tutti gli affetti miei
Inutili mi sono, si vogliono per rei.
Soffro i Quiriti alteri, veggo penar gli amici,
E son la sventurata maggior tra gl’infelici.
Avolo mio, Critone, se in vita il ciel ti serba,
Se la nipote in cuore hai, che perdesti acerba,
Prega di Grecia i numi, cui venerar ti è dato,
Che muovansi a pietade del mio misero stato;
E traggano i tuoi voti dal doloroso esiglio
L’orfana sfortunata dell’unico tuo figlio.
Livia. Lungi dalle mie stanze Creusa ognor dimora.
Creusa. Quivi il signor me volle, cui servir deggio ancora.
Livia. Opra altrui di tue mani promessa ho con impegno.
Pronte son lane e sete; dell’opra ecco il disegno.
(porge a Creusa una tela disegnata)
Creusa. Fatto sarà.
Livia. Per modo lo vo’ sollecitato,
Che dal lavor non parta, pria che sia terminato.
Avrai stanza remota; cibo darotti a parte.
Sola potrai far prova maggior di tua bell’arte.
Tempo ti do sei lune a compiere il lavoro;