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TERENZIO 335
Piacciati in donna umile, più che beltade, il vero.

Il dir mi costa poco, ardo per te d’amore;
Ma invan lo dice il labbro, se non l’accorda il cuore.
Gli amplessi lusinghieri, l’amor dissimulato,
Son fiori che la serpe nascondono nel prato.

SCENA V.

Damone e detti.

Damone. Signor.

Lucano.   Che vuoi, importuno? (alterato)
Damone.   Perdono io ti domando.
Non sapea... chiudo l’uscio, e aspetto il tuo comando.
(accennando di partire per cagion di Creusa)
Creusa. Sciocco! (a Damone)
Damone.   La spiritosa! (a Creusa, con caricatura)
Lucano.   Che dir volevi, audace? (a Damone)
Damone. Tornerò. Colla schiava segui la tresca in pace, (vuol partire)
Lucano. Fermati.
Damone.   Non mi muovo.
Lucano.   Perchè sei tu venuto?
Damone. Credimi, colla Greca non ti aveva veduto.
Creusa. (Vil gente scellerata!) (da sè)
Lucano.   Parla. (a Damone)
Damone.   Un cursor togato
Venuto è ad invitarti in nome del Senato.
Lucano. Vadasi. Oltre al dovere sarò da’ padri atteso.
Tu resta, e ciò rammenta ch’hai da’ miei labbri inteso;
(a Creusa)
Rammenta che alle preci disceso è il tuo signore.
(Amante, e non nemica brama d’averla il cuore).
(da sè, e parte)