Tempesta e bonaccia/XVI
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XVI.
le memorie di fulvia.
- «Caro Max,
«La mia nascita, la mia infanzia, la mia adolescenza non hanno nulla di romantico. — Me ne duole, per l’effetto di queste mie pagine, ma è così.
«Il mio babbo era impiegato governativo, ed era povero. La mia mamma morì pochi anni dopo la mia nascita. Non avevo fratelli. In casa mia si viveva meschinamente, con una sola serva che aveva cura di me.
«Quando ebbi dodici anni, il babbo mi pose in collegio, dove rimasi sette anni. La pensione era dispendiosa. Egli licenziò la serva, vendette il mobiglio, e si pose a vivere a dozzina per fare economia.
«Ed infatti riescì a mantenermi tutto quel tempo in collegio, senza farmi sentire la menoma privazione, senza farmi sfigurare presso le compagne; e, dal canto suo, non fece mai l’ombra d’un debito. Forse le privazioni, povero babbo, le imponeva a sè stesso; ed il mio benessere era il frutto de’ suoi sacrifici.
«Ma fin allora non m’ero mai imbattuta a pensare quale potesse essere la condizione economica di mio padre. Accettavo la mia, e la godevo colla spensieratezza della mia età.
«Parecchie delle mie compagne imparavano il canto. Io vi aspiravo vivamente. Amavo la musica con trasporto, ed ero ambiziosa. Pregai la direttrice che mi facesse provare la voce. Il maestro trovò che era buona. Allora, senza pensare all’aumento di spesa che gl’imponevo, scrissi al babbo quel mio desiderio. Non mi cadeva in mente che lo studio d’un’arte potesse essere questione di denaro.
«Il babbo che mi aveva data un’istruzione nell’idea di fare di me un’istitutrice, s’adattò senza difficoltà a farmi invece una cantante.
«Io, che avevo desiderato cantare come dilettante, mi adattai, parimente senza difficoltà, ad essere artista. E tre anni dopo cantavo per la prima volta in un concerto, dopo il quale firmai la mia prima scrittura per la stagione di primavera a questo teatro Carcano di Milano.
«Come vedete, la mia carriera s’iniziò tranquillamente, senza contrasti. Non avevo una famiglia aristocratica che s’indignasse di vedermi sulle scene, e contro cui avessi a difendere l’arte incompresa. La mia famiglia è modestissima; non vanto passate grandezze; la mia vita d’artista non ha nulla di drammatico; tutto è prosa intorno a me.
«E la mia storia più intima, quella che mi dispongo a confidarvi? Ahimè, Max, è prosa anch’essa. Ora soltanto che è divenuta un ostacolo fra noi, attinge un po’ di poesia da questa circostanza; la triste poesia del dolore.
«Uomini e donne hanno la crudele abitudine di rinnegare dinanzi ad un nuovo amore i loro amori precedenti. Tutt’al più ne ammettono uno, se la sua notorietà impedisce di negarlo; ma s’affrettano a dire che non fu vero amore; che fu un sogno giovanile, una calda amicizia cui il cuore illuso scambiò per una passione. Il solo vero amore deve sempre essere l’attuale.
«È forse atto di cortesia per lusingare l’amor proprio della persona amata; per dirle: «Nessuno ebbe a’ miei occhi le tue attrattive, nessuno m’inspirò il sentimento che tu m’inspiri.»
«Io sarò meno gentile, ma più vera. Ho amato prima di conoscer voi, Max.
«L’uomo, a cui sono fidanzata, non è un vecchio ricco ed acciaccoso che mi venga imposto tirannicamente da mio padre, e contro di cui io possa fare appello ai vostri sentimenti cavallereschi. No; è un bel giovane povero come me; buono, nobile, intelligente. Che io stessa scelsi, che amai; che amai con trasporto; per cui ho palpitato, ho pianto, ho gioito; la cui parola d’amore mi scese soave all’anima; a cui mi fidanzai con delizia sognando un avvenire di felicità.
«Ed ora, perchè non l’amo più? È almeno stato infedele, sleale? Ha demeritato il mio amore? No; è stato fedele, e mi ama, e merita d’essere adorato. Sono io che non l’amo più, perchè non l’amo più; perchè l’amore non è eterno che in casi eccezionali; l’amore può cessare; il suo carattere era troppo freddo per rispondere alle mie aspirazioni; e la sua freddezza ha spento l’ardore che le sue prime parole d’affetto m’avevano acceso nel cuore, ecco la prosa.
«Era un tedesco che m’insegnava il canto. Quando lo conobbi, era giovanissimo; e dirigeva già l’orchestra del teatro Regio di Torino, dove io sono nata e cresciuta. Era bello e d’un’eleganza di buon gusto.
«Non è punto vero che si ami un uomo per le sue qualità esterne o per le sue abitudini; si amano le qualità e le abitudini per l’uomo. I primi amori che io sognava nel segreto del cuore, erano per eroi, per uomini fieri, dall’aspetto maschio, da’ modi franchi, come i vostri, Max. Uomini dalla voce dolce come una melodia, profonda come un pensiero, passionata come un bacio — la voce di Giorgio. I giovani dai palmerstons profumati, dai capelli unti e lucenti, dalla scriminatura dritta come una rotaia di ferrovia, gli eleganti che discorrono di toletta, e ne mutano tre ogni giorno, erano a’ miei occhi ridicoli. Non me ne occupavo che per farne la caricatura.
«Il mio maestro di canto era appunto uno di codesti. Sembrava una figurina tagliata fuori da un giornale di mode. S’inchinava in due tempi; parlava sotto voce con un garbo inalterabile; era sempre del parere delle signore, e nelle sue stesse lezioni sapeva non contraddirmi, apertamente, e non riscaldarsi mai. I suoi lineamenti erano belli, d’una bellezza regolare e fredda. Viso ovale, occhi nè grandi, nè piccoli, colorito fresco, profilo greco, labbra rosse che nel parlasciavano vedere i denti d’una bianchezza abbagliante. La sua barba d’un biondo fulvo, ed i suoi baffetti erano evidentemente l’oggetto delle sue cure amorose. Parlava poco, ed era sempre dello stesso umore; nè troppo serio, nè troppo gaio. Aveva l’aria d’un cortigiano aspirante che facesse la sua pratica nell’etichetta di corte. Quando lo conobbi mi fu antipatico. Quando l’udii parlare, il suo accento straniero e la sua voce — sopra tutto la sua voce — finì di rendermelo repulsivo. Era una vocina di testa, con una nota cavernosa nel naso, che ad ogni tratto risuonava come una corda spezzata. Avevo sul pianoforte il metronomo per misurare il tempo. Il mio maestro non mi parve più animato di quello strumento. Avrei giurato che aveva una complicazione di ruote e d’ingranaggi al posto del cuore, e la sua bellezza mi lasciava fredda come la bellezza d’un fantoccio.
«In fatto di musica egli apparteneva a quella scuola che i profani chiamano dell’avvenire. Quanto a me, non avevo ancora opinioni; le cadenze lente e melodiche mi eccitavano il sentimento e mi riescivano facili; ed io le cantavo di preferenza.
«Un giorno il maestro entrò ch’io stavo intuonando, forse per la decima volta, un’aria della Straniera:
Trovarti, rivederti |
«Contro tutte le sue abitudini, il calmo tedesco fece un atto di dispetto, tolse quella musica dal leggìo e la respinse dicendomi:
«— Non s’innamori di questa roba!
«Io mi sentii offesa nel mio sentimento più caro. Avevo messa tanta espressione in quel canto, che mi figuravo di far pensare lui come tutti, ad un assente rimpianto, cui aspirassi di trovare e rivedere. Le mie compagne me l’avevano fatta ripetere a sazietà, e mi avevano detto:
«— Si sente che ci metti tutta l’anima.
«— Si direbbe che hai delle lagrime nella voce, ecc.
«Ed ecco invece che quel glaciale tedesco non comprendeva nulla di tutto ciò; e là dove si esprimeva un dramma di sentimento, egli non vedeva che la povertà d’una combinazione di crome e semicrome; nel grido dell’anima che deplorava l’assenza d’un essere amato, egli non deplorava che l’assenza di complicazioni armoniche e d’istrumentazione. Ne fui irritata, e, senza nasconderlo, gli risposi:
«— Perchè non ho a cantare un’aria che mi piace?
«— Perchè non le giova a nulla, mi disse riprendendo la sua calma abituale. È una melodia bella a sentirsi, ma che non fa fare nessuna ginnastica alla voce, e la sua ha bisogno di esercitarsi nelle difficoltà, per svilupparsi ed acquistare agilità ed estensione.
«— Gli esercizi sono freddi e mi annoiano, borbottai; non c’è sentimento.
«— L’espressione del sentimento, — riprese il giovane verista, — è infatti una delle attrattive per cui la musica ottiene il favore del pubblico. Ma per noi la musica dev’essere uno studio serio, e non un idillio sentimentale.
«Io fui sempre troppo sincera, come mi conoscete, Max. La parola mi fugge dal cuore al labbro, senza dar tempo alla ragione di controllarla. Indignata di quelle parole che reprimevano il mio entusiasmo, lo rimbeccai con vivacità:
«— Ella non ha cuore se intende la musica così. Il maestro d’aritmetica non parlerebbe altrimenti.
«Egli non mi rispose. Aperse sul leggìo un fascicolo di studi sugli arpeggi, ed incominciò gli accordi dell’accompagnamento, accennandomi di ripetere la mia lezione.
«Ma io ero irritata; cantavo male. Feci due o tre note false; egli mi corresse; la vergogna mi paralizzò la voce; gettai la musica sul pianoforte, fuggii all’altro capo della stanza, sedetti ad uno scrittoio colle braccia sovr’esso ed il capo sulle braccia, e scoppiai in pianto.
«Il maestro stette un momento in silenzio, durante il quale sentii che mi guardava. Vi sono sguardi che si sentono come un raggio carico di elettricità rivolto su di noi.
«Poi lo sentii voltarsi verso il piano, tentare qualche accordo incerto; rimanere pensoso come in cerca d’un pezzo di cui il lungo abbandono gli avesse fatte dimenticare le note; e finalmente cominciare con esitazione, e quindi procedere con sicurezza la grande aria del soprano nella Sonnambula, poi il duetto tra soprano e tenore nella Lucia, e chiudere quel piccolo concerto coll’aria del tenore ed il duetto d’amore della Jone. Tutta musica affatto contraria ai suoi gusti.
«Quella concessione fatta a’ miei gusti sentimentali era una muta scusa ch’egli mi rivolgeva. Io lo compresi e ne apprezzai la delicatezza.
«In quel momento il congegno ad ingranaggi e ruote che mi ero figurato nel petto del mio maestro, scomparve, e vidi un cuore caldo e sensibile palpitare sotto l’eleganza della sua toletta.
«Non piangevo più, non pensavo più alla mia umiliazione. Un altro ordine d’idee mi preoccupava lo spirito.
«— Quel giovane cuore era egli rimasto freddo fin allora accanto a me?
Quello sfoggio di melodia, un minuto dopo averla condannata, era un semplice atto di delicata condiscendenza? O era una dimostrazione di simpatia?
«Intanto, sebbene non piangessi più, continuavo a starmene nello stesso atteggiamento, col volto nascosto. Quando si è piantato qualcuno in asso per andare a piangere dispettosamente in un canto, non è così facile asciugarsi gli occhi e tornare a dirgli tranquillamente: «Eccomi, ho finito» a rischio di sentirsi ridere in volto.
«Il maestro comprese che bisognava ajutarmi ad uscire dall’imbarazzo in cui mi ero posta. Lasciò il piano; venne a fermarsi in piedi dinanzi a me, e mi domandò:
«— È in collera?
«Non sapevo che dire, e presi il partito di non rispondere, di non alzare il capo. Ma la sua voce mi parve meno brutta. In quella, da lontano, nel silenzio delle classi deserte, — perchè a quell’ora, tutte le compagne erano in giardino alla ricreazione, — si udì battere un uscio. La direttrice veniva abitualmente ad assistere alle lezioni di musica, e certo doveva esser lei. Io sentii con terrore la sconvenienza della mia posizione, il maestro pure la sentì perchè riprese curvandosi verso di me:
«— A momenti è qui la direttrice. Via, mi perdoni, e venga a riprendere la lezione.
«Io mi rizzai in fretta, e senza rispondergli, senza guardarlo, tornai al pianoforte.
«Egli mi seguì, sedette, pose le mani sui tasti, poi, invece di riprendere l’accompagnamento interrotto, alzò gli occhi in volto a me, e, con un sorriso che parve trasfigurarlo, mi interrogò:
«— Ed ora cosa facciamo?
«Io presi senza rispondere il fascicolo d’arpeggi che avevo respinto.
Era una risposta.
«Colla galanteria che gli era naturale egli accolse quell’atto di condiscendenza come un grande favore, e mi disse:
«— Grazie, signorina; ella è troppo buona; sebbene io non abbia cuore, le sono molto riconoscente del sacrificio che mi fa.
«In quella entrò la direttrice, e la sua presenza m’impedì di rispondere qualche imprudenza.
«Alla lezione seguente la direttrice era in classe quando il maestro entrò. Egli aveva un fiore di vaniglia all’occhiello dell’abito. Io guardavo quel fiore e pensavo: «L’ha portato per me....»
«Poco dopo la direttrice fu chiamata fuori. Io precipitai istintivamente l’esercizio che stavo facendo. Il maestro non mi corresse quell’errore di tempo. Erano così rari i momenti in cui il caso ci accordava di esser soli; entrambi avevamo premura di profittarne. Egli mi disse, mentre voltava il foglio:
«— È ancora in collera con me?
«— Sì, gli risposi; perchè non vuole lasciarmi cantare nulla di bello.
«— Ebbene, riprese egli, domani le porterò Gran Dio morir sì giovane, lo canteremo insieme.
«Non potei a meno di ridere. La grande facilità di quella melodia l’ha resa siffattamente popolare che omai ci sembra volgare, e la proposta era realmente umoristica.
«La mia ilarità gli diede coraggio ed egli soggiunse:
«— Sono stato infelice per causa sua tutti questi giorni.
«Io feci un atto ed un sorriso d’incredulità.
«— Non mi crede? riprese. Se sapesse che rimorso provava per averla fatta piangere! Ero tentato di andare da Blanchi a provvederle tutti quanti gli spartiti di Bellini e di Donizzetti....
«Cominciavo a sentirmi umiliata di quell’incapacità che mi attribuiva di apprezzare le più alte e complesse combinazioni dell’armonia tedesca.
«— Ma no, protestai. Ella mi deride. Io non sono mica esclusivamente amante della melodia. Ieri ho suonato tutta la Sinfonia pastorale.
«Era vero; l’avevo suonata dapprima in omaggio a lui, e dopo una prima lettura l’avevo ricominciata con vero interesse, e l’avevo scorsa fino in fondo con passione.
«— Ah! lo sapevo bene che ella non poteva non comprendere quella musica vera e sublime, esclamò con un sorriso di soddisfazione. E continuò:
«— Guardi, ne ero tanto sicuro, che le ho portato un fiore per fare la pace.
«Così dicendo, mi porgeva la vaniglia che s’era tolta dall’occhiello dell’abito.
«Io accettai quel fiore; poi fui mortificata della mia facile condiscendenza, e, tanto per darmi un contegno, osservai che era bello.
«Egli mi rispose che l’aveva coltivato sul suo balcone; che amava molto i fiori, che gli rammentavano le persone care che non poteva aver vicine; e riprese:
«— Ella non crederà che io abbia delle persone care, poichè dice che non ho cuore.
«— Vedo bene che non ne ha, — gli risposi — se non sa perdonare un’offesa.
«— Ma è perchè la sua offesa è troppo grande. È la più grande che si possa fare ad un povero giovane.
«Io non diceva nulla. Egli soggiunse:
«— Dica, lo crede davvero ch’io non abbia cuore?
«Ed accompagnava quella domanda con uno sguardo che smentiva altamente l’accusa.
«Ebbi appena il tempo di dirgli «No» e tosto s’udì la direttrice che s’avvicinava alla classe.
«Io aveva in mano il fiore di vaniglia che un momento prima era all’occhiello dell’abito del maestro. Se la direttrice l’avesse veduto, non avrebbe mancato di farne rimprovero non a me sola, ma a lui; anzi a lui solo, perchè quanto a me non potevo che accettare la cortesia d’un superiore.
«Tutto questo mi passò in mente nell’atto ch’ella apriva la porta, e con un movimento rapidissimo nascosi il fiore. Ma nel fare codesto arrossii vivamente. Era riconoscere che nel dono di quel fiore c’era implicato qualche cosa che la direttrice non doveva sapere; che quel qualche cosa io l’avevo indovinato; e però accettando il fiore, avevo accettato il qualche cosa sott’inteso; ed ora nascondendolo, convenivo d’avere un segreto comune con lui.
«Egli mi ringraziò con uno sguardo, poi cercando fra i fascicoli di musica l’aria della Straniera che era stata causa del suo malumore, e mettendola sul leggìo, mi disse:
«— Canti un poco per riposarsi dallo studio.
«Compresi che voleva così ringraziarmi secondando una mia predilezione, e cantai. Ma quell’aria mi era divenuta antipatica, e da quel giorno non vi fu astruseria di logaritmi musicali che non mi esaltasse fino al delirio.
«All’altra lezione il maestro portò un nuovo fiore. Le compagne trovarono modo di far uscire la direttrice, ed appena fummo soli il fiore mi venne offerto, come cosa convenuta. Accettando quell’altro avevo stabilito un precedente che autorizzava il giovane maestro a procurarmene una collezione.
«Gli domandai s’era anche del suo balcone.
«— Sì, era una pianta giovinetta e tutta in fiore. Aveva qualche cosa che mi somigliava. Egli la chiamava la vaniglia di Fulvia. Credeva di vedermi guardandola; nel togliere quel fiore gli era sembrato di farmi male e di sentirmi piangere....
«— Che tenerezza! esclamai volendo mostrare del sarcasmo.
«— Ebbene, riprese, si meraviglia della mia tenerezza? Ora non crede più ch’io non abbia cuore; si ricordi che mi ha detto di no, che non lo crede più.
«Io sorridevo senza rispondere e mi sentivo tutta accesa in volto.
Egli mi prese lentamente una mano e soggiunse:
«— Ora lo sa, nevvero, che ho un cuore?
«— Ero tutta commossa da quella prima stretta di mano. Lo guardai.
Egli era bello in quel momento; ed il suo volto animato non aveva più nulla della freddezza abituale. Abbassai il capo, e non dissi nulla; ma avevo accennato di sì.
«— Ed un cuore capace d’amare..., continuò egli alzandosi dal piano e baciandomi lievemente la fronte senza abbandonar la mia mano.
«Io feci un altro cenno come il primo.
«— E lei non mi vuol anche un po’ di bene? Non pensa un poco a me?
«Terzo cenno come sopra.
«Ero timidissima e quella scena che non mi dispiaceva punto, mi confondeva. Tuttavia era ben vero ch’io lo credeva innamorato, e lo amavo. Non mi sarebbe stato possibile di negarlo.
«D’allora appena poteva esser solo un momento con me, mi prendeva la mano e mi dava un bacio. A poco a poco codesto finì per diventare un’abitudine. Ma una dolce, dolce abitudine di cui mi sentivo lieta e tranquilla.
«Così passarono gli ultimi tre anni ch’io rimasi in collegio. Ci eravamo promessi di sposarci, quando la sua posizione sarebbe più assicurata. Era una promessa vaga, che si perdeva in un avvenire indefinito; ma io ne ero felice. Non avrei desiderato anticiparla.
Dovevo fare la carriera del teatro. Ed allora sarei libera di vederlo sempre, di parlargli, di fare insieme delle passeggiate solitarie. Io viaggerei sola; egli mi verrebbe a vedere sovente. Mi pareva d’essere in una città ben lontana da Torino, applaudita dal pubblico, circondata da ammiratori; e ad un tratto di veder lui, il mio bel maestro tutto trafelato che avea percorsa una strada infinita per vedermi un’ora, un’ora d’espansione.
«Tutto questo mi preoccupava la fantasia. Io sognava tutte le follìe giovanili dell’amore, che allora la vigilanza continua della direttrice rendeva impossibili.
«Quei tre anni passarono. Uscii di collegio. Dovevo studiare un anno ancora prima di poter cantare in pubblico. Il babbo riprendendomi con sè, dovette rimettere casa. Egli non aveva la menoma risorsa. Convenne prendere un mobiglio a credenza, impegnandosi a pagarlo in un anno a rate mensili.
«Codesto riduceva il suo stipendio ai minimi termini. Poi bisognò pensare ad un corredo per me, che appunto per la carriera a cui miravo, avevo d’uopo di farmi conoscere e di figurar bene.
«Dedotto tutto, ci rimaneva appena di che vivere economicamente. Per sottrarre ancora da quella modesta entrata, già tanto assottigliata, la spesa delle mie lezioni di musica, avrei dovuto condannare il mio povero babbo e me ad infinite privazioni.
«Non so se avrei durato costantemente in quel proposito; però in quel momento per parte mia mi vi sarei sobbarcata volentieri. Ma non potei accogliere l’idea di imporre simili sacrifici al babbo. Decisi di studiare da sola.
«Alle due, l’ora in cui soleva darmi lezione in collegio, il maestro venne. Il babbo era all’ufficio. Eravamo soli. Egli mi salutò col solito bacio, poi aperse il pianoforte, cattivo strumento da nolo, che ai primi accordi lo fece rabbrividire.
«Io gli dissi, cercando dissimulare la difficoltà della dichiarazione sotto una frase scherzosa:
«— Non vi atteggiate a maestro, Welfard; ora non siete più il mio maestro.
«— Perchè no? Cosa sono ora?
«— Siete.... un amico....
«— Più che un amico, Fulvia; lo sapete. Ma codesto non toglie ch’io sia anche il vostro maestro. Avete bisogno di studiare ancora, e molto.
«— Studierò da sola.
«— Non basta. Ma perchè non volete più studiare con me? Il vostro babbo non permette ch’io venga qui?
«Rimasi alquanto imbarazzata. Ma fu un momento. Io non ho mai compreso la vergogna della povertà nè la gloria della ricchezza.
«Gli presi la mano, e conducendolo alla soglia di quel salotto che era anche la camera da letto del babbo e dava accesso a due altre povere camerette, gli dissi:
«— Guardate. Questo è tutto il nostro appartamento. Siamo poveri. Non sapevate, quando mi diceste d’amarmi, che il babbo ed io eravamo poveri? Ecco perchè non posso prender lezioni!
«Egli mi abbracciò teneramente. Era commosso. Mi condusse al pianoforte e volle incominciare la lezione senz’altro. Io chiusi il piano. Allora mi prese le mani nelle sue, e con atto supplichevole mi disse:
«— Che pensate ora, Fulvia? Non sono il vostro fidanzato? Non ha da essere un giorno tutto comune tra noi? Voi che siete una ragazza tanto superiore, vi vergognereste d’accettare qualche lezione da me, perchè non potete pagarle? Ma sapete che mi fate torto, che mi affliggete?
«Ero mortificata. Sentivo che nel suo caso avrei detto come lui. Mi pareva davvero d’avergli fatto torto e dispiacere.
«Il denaro non ha mai avuto importanza per me. E quando egli riaperse il piano, e traendomi accanto a sè, mi disse: — Via, cominciamo subito subito la lezione, se volete che vi perdoni — io mi affrettai ad obbedirlo, perchè sentivo di dovere una riparazione alla sua delicatezza offesa.
«D’allora venne sempre a darmi lezione e non si parlò più di compenso. Non era il mio fidanzato?
«Tutti gli spartiti che mi occorrevano, egli trovava per caso di averli fra le sue carte. E molto spesso li aveva nuovi. Io mi accorgevo di tutte queste gentilezze, e le accettavo con riconoscenza. Ricusare quelle delicate premure mi sarebbe sembrato una sgarbatezza. Veniva ogni giorno, si occupava di me parecchie ore di seguito; attento, severo, instancabile, mi fece fare progressi insperati. Mi procurò molte conoscenze nel mondo musicale, e quando mi credette capace di figurar bene, combinò un concerto, sa Iddio con che fatiche, con quante brighe, unicamente per farmivi avere una parte!
«Quella sera condusse seco l’impresario del Carcano che era a Torino, me lo presentò, e risparmiandomi viaggi inutili, incertezze d’ogni maniera, e sopratutto le presentazioni umilianti alle agenzie teatrali, mi procurò una scrittura assai conveniente per una esordiente.
«Tutto codesto, lo vedete, Massimo, è prova d’un nobile cuore; ed io me gli sento legata per la vita.
«Ma tutti i sogni d’amore tempestoso che avevo vagheggiati quando ero in collegio, non si realizzarono mai. Non mi accadde mai di vedere Welfard irrompere in casa mia improvvisamente. Mai non mi propose di uscire una sera con me, quando il babbo mi accompagnava a passeggio. Mai non interruppe una lezione in un impeto d’affetto per stringermi al suo cuore. Veniva ogni giorno alla stessa ora; mai un minuto prima. Partiva ogni giorno alla stess’ora; mai un minuto dopo. Mai una parola appassionata; mai un impeto di gelosia.
«Quante volte ne ho pianto in segreto, invocando con tutta l’anima un amore caldo, passionato come quello ch’io mi sentivo nel cuore! Quante volte, dopo aver divorato lungamente le mie lagrime, esse mi sfuggirono dinanzi a lui! Allora, nell’angoscia che mi premeva, gli rimproveravo la sua freddezza, l’indifferenza con cui mi vedeva imprendere una carriera tanto piena di seduzioni.
«Avrei voluto che vi si opponesse, che mi facesse delle scene violente, che mi tormentasse con sospetti ingiuriosi. Tutto ciò mi avrebbe provato che era geloso, e però, che mi amava.
«Ed egli mi rispondeva con parole d’affetto, diceva che mi amava immensamente, ma mi apprezzava altrettanto, ed aveva fiducia in me. Per questo non era geloso. Che la sua passione non era meno grande per esser meno espansiva; era il suo carattere così.
«Ed è vero, Max. Era il suo carattere così. Ed era quel carattere freddo, che non rispondeva al mio, appassionato ed ardente, e mi rendeva infelice.
«In termini legali, la causa della mia infelicità si chiamerebbe appunto incompatibilità di carattere.
«E realmente credo che sia tale, perchè, se la freddezza di Welfard è un tormento per me, lo scontento che io ne provo, la melanconia che me ne risulta, le mie frequenti lagnanze, sono un tormento per lui. È così che, amandoci sinceramente, ci rendiamo a vicenda infelici. Io sono italiana come il nostro cielo; egli è tedesco come un soldatino di piombo.
«Ero in questo stato d’animo quando partii da Torino per recarmi qui.
«Avevo sperato che Welfard mi accompagnerebbe per assistere al mio debutto. Mi pareva impossibile che non avesse a prendere un interesse vivissimo a quel passo tanto importante per me.
«Egli non ne parlò nemmanco. Quando gli proposi di venire, mi disse che lo avrebbe desiderato, ma non ne aveva il tempo. Venne ad accompagnarmi allo scalo, e quando entrai nella sala d’aspetto, mi strinse la mano, mi fece un inchino e partì. Mi fermai alla porta e lo seguii collo sguardo, sperando che si volgesse qualche volta per vedermi e salutarmi ancora. Ma egli non pensava che al suo sigaro. Non si voltò mai. Correva e fumava come una locomotiva!
«Il babbo, non meno occupato di lui, potè bene trovar due giorni per accompagnarmi qui, installarmi, vedermi andare in iscena. Perchè non avrebbe potuto ottener anche Welfard un permesso come il babbo? Quella indifferenza mi fece male, salii in convoglio piangendo. Mi parve d’essere amata a tempo perso, di non essere il primo, ma l’ultimo de’ suoi pensieri. Le considerazioni di tempo, di occupazioni, erano messe innanzi a me. Tutti i doveri gli erano più sacri che il dovere contratto con me di amarmi e di farmi felice.
«E pensavo: Se ora, che gli appartengo soltanto idealmente, è freddo così, che sarà quando diverrò sua moglie, quando la certezza del possesso m’avrà spogliata del prestigio d’un’aspirazione?
«Nondimeno, allorchè il successo mi riempì l’anima d’una gioia nuova ed immensa, sentii che le nobili soddisfazioni dell’arte, e l’avvenire che mi prometteva la mia carriera, erano tutto opera di Welfard, e si ravvivò più che mai in me il senso di gratitudine infinita che mi legava a lui.
«Gli scrissi a lungo quella notte istessa sotto l’impressione delle nuove emozioni che mi agitavano; cercai di trasfondere la mia anima nella sua, di riscaldarlo al fuoco del mio entusiasmo, della mia passionata riconoscenza.
«Passarono otto lunghi giorni; ed in ciascuno di essi speravo una lettera, e ciascuno mi recò una delusione.
«Ed intanto mi vedevo circondata da giovani vivaci, espansivi, che si disputavano come una gloria il piacere di accompagnarmi; che trascuravano i loro affari, le loro famiglie per me; che si rendevano indiscreti, importuni a forza d’assiduità.
«Mi erano tutti indifferenti. Se tutti avevano le qualità che mancavano a Welfard, nessuno aveva poi le virtù ch’egli possedeva. E tuttavia ogni giorno, dopo aver sperato invano una lettera, ero costretta a dire a me stessa: Oh perchè tutti questi esseri tanto inferiori a lui sanno amar meglio? Perchè in lui solo Dio non ha infuso il soffio della passione, che è la poesia della vita?
«Una sera, nove giorni dopo che avevo scritto a Welfard, ero pronta per andare al teatro, quando mi venne recata la sua risposta.
«Tremavo di speranza nell’aprirla. Tutte le espansioni della mia lettera mi si affacciarono al pensiero, reclamando in ricambio una parola appassionata.
«Ahi! fu ancora una delusione. La passione è muta in quell’anima; in essa la virtù, la generosità non sono uno slancio di sentimento, ma unicamente un portato della riflessione, la fredda idea del dovere.
«Vi trascrivo qui la sua lettera: giudicatene.
- «Cara Fulvia,
«Mi fa molto piacere il vostro successo — del resto io non ne aveva mai dubitato; — voi farete una bella carriera; me ne congratulo sinceramente.
«Ho veduto i giudizî dei critici sul vostro debutto. Sono tutti lusinghieri per voi, ed anche per me, credetelo, sebbene voi vi esageriate fuor di misura la poca parte ch’io ebbi nella vostra educazione musicale.
«Tenete conto dell’appunto che vi fece il critico della Perseveranza. È vero; voi abusate delle note basse, e le forzate. È una risorsa delle artiste a cui il tempo e le fatiche hanno guastato le note di mezzo. Ma voi non avete lacune nella vostra scala, e dovete assolutamente correggere codesto difetto. Appena vi fermerete un poco a Torino, ci lavoreremo insieme.
«La scrittura che vi fu proposta è buona. Il teatro di Reggio d’Emilia, nella stagione di primavera, è un teatro importante.
Transigete sugli interessi pur di combinare codesto affare che può esservi molto utile. La tessitura dell’Africana va benissimo per la vostra voce, ed in pochi giorni potrete imparare la parte.
«Mi dispiace all’anima di non poter esservi accanto per risparmiarvi codeste noie di contratti. Ma, voi lo sapete, sono schiavo del lavoro.
Questo però non mi toglie dal pensare a voi.
«Scrivetemi spesso, ed amatemi come vi ama,
«Il vostro Welfard Herbert.»
«La freddezza nordica di quella lettera mi strinse il cuore. Dacchè amavo Welfard, era la prima volta che mi allontanavo da lui; la prima volta che ci scambiavamo una lettera. Per me era un grande avvenimento; e gliel’avevo detto, come aspettassi con ansia la sua prima parola scritta, come la sua stessa calligrafia che m’era ignota m’inspirasse la palpitante curiosità d’una rivelazione.
«Egli non accennava a nessuna di codeste emozioni; forse non le aveva trovate degne d’una risposta. L’unica parola d’affetto in tutta la sua lettera era una formola di saluto, un luogo comune. Forse una tedesca l’avrebbe trovata abbastanza espansiva. Ma io, nel mio caldo cuore italiano, me ne sentii delusa e quasi offesa.