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IV VI
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resto per tutta la terra polacca che si stende tra il ponente e il mezzogiorno si sparse il terrore. Dappertutto giungeva il grido d’allarme: «I Saporogini! Sono comparsi i Saporogini!». Tutto ciò che si poteva mettere in salvo fu messo in salvo. Era tutto un levarsi su e darsi alla fuga, secondo l’uso di quell’età disordinata e indolente in cui non s’innalzavano bastioni e castelli, ma, come il caso voleva, l’uomo si faceva con la paglia un domicilio temporaneo. Si pensava infatti: «Non mette conto di spendere fatica e denaro per una capanna, quando essa ad ogni modo sarà spazzata via da un’incursione di Tartari!». Fu uno spostamento generale: chi barattava i bovi e l’aratro con un cavallo e un fucile e andava ad arruolarsi nell’esercito; chi andava a nascondersi, cacciandosi innanzi il bestiame e portando via tutto ciò che si poteva portare. Si trovavano qualche volta per via anche di quelli che a mano armata [p. 92 modifica]venivano incontro all’ospite; ma molto piú numerosi erano quelli che fuggivano prima che egli arrivasse. Tutti sapevano ch’era un’ardua impresa aver da fare con la moltitudine insolente e battagliera conosciuta sotto il nome di esercito saporogino, che sotto l’apparenza di uno sfrenato disordine celava un ordinamento ben calcolato per il tempo della battaglia. Gli uomini a cavallo procedevano senza affaticare e senza riscaldare le loro bestie, e i pedoni marciavano in buon ordine dietro i carriaggi, e tutto il tàbor non si muoveva se non di notte, riposando durante il giorno, e scegliendo per questo luoghi deserti, disabitati, e boschi, di cui allora c’era grande abbondanza. Si spedivano innanzi delle spie e degl’incaricati di sapere e appurare il dove, il che e il come. E spesso nei luoghi dove meno che altrove si poteva aspettarli, essi apparivano all’improvviso — e allora tutto dava un addio alla vita: gl’incendi avvolgevano i villaggi; bestiame e cavalli, se non si menavano verso l’esercito, si ammazzavano subito sul posto. Si sarebbe detto che badassero piú a fare baldoria che a compiere il loro cammino. Si drizzerebbero i capelli in testa oggi per gli orrendi saggi della crudeltà di quel secolo semiselvaggio, che i Saporogini offrivano dappertutto. Bambini [p. 93 modifica]trucidati, seni di donne tagliati, gambe scorticate fino al ginocchio alle persone poi lasciate in libertà - in una parola, di grossa moneta i cosacchi pagavano i debiti passati. Il superiore di un convento, informato del loro avvicinarsi, mandò di sua iniziativa due monaci a dir loro che non si comportavano come si deve, a ricordare che esisteva un accordo tra i Saporogini e il governo, e che essi distruggevano i loro obblighi verso il re e insieme calpestavano qualsiasi diritto delle genti.

— Dite a monsignore da parte mia e di tutti i Saporogini — disse il Koscevoj — che non abbia paura: i cosacchi non fanno altro che accendere la loro pipa e fumarsela.

E subito la magnifica abbazia fu avvolta dalle fiamme devastatrici e le colossali finestre gotiche guardavano sinistramente attraverso le ondate di fuoco che si aprivano loro dinanzi.

Frotte di fuggitivi, monaci, Ebrei, donne, accrescevano a un tratto la popolazione di quelle città in cui una qualsiasi speranza si poteva fondare sulla guarnigione e sulla guardia civica. Qualche soccorso spedito in ritardo dal governo di tempo in tempo, e consistente in pochi reggimenti di truppa, o non poteva piú trovare il nemico, o si era già perduto d’animo e al primo scontro voltava le spalle e volava via sui suoi [p. 94 modifica]agili cavalli. Si dava il caso che parecchi comandanti delle truppe regie, uomini che fino allora si erano coperti di gloria nelle passate battaglie, decidessero di riunire le loro forze e battersi coraggiosamente coi Saporogini. E allora piú che mai facevano le loro prove i giovani cosacchi, a cui poco importava il saccheggio e il lucro e il sopraffare un nemico imbelle: essi ardevano, invece, dal desiderio di mostrare il loro valore in presenza dei vecchi, di misurarsi petto a petto con qualche abile e orgoglioso polacco che si pavoneggiava sopra un altero destriero, lasciando svolazzare al vento le maniche del mantello rovesciate dietro le spalle. Godevano mentre acquistavano la scienza delle armi; si erano già guadagnati in gran copia costosi finimenti da cavalli, sciabole e fucili. In un mese si erano fatti uomini, si erano trasformati interamente quegli uccellini di nido che poco prima avevano appena messo le piume; e s’erano fatti adulti. I loro lineamenti che prima lasciavano scorgere una certa delicatezza giovanile, adesso erano severi e forti. Il vecchio Taras si compiaceva nel vedere che i suoi figli erano tutti e due tra i primi. Ostap sembrava che avesse una vocazione naturale per la carriera delle armi e per la difficile scienza di menare a termine le imprese di guerra. Non si smarriva [p. 95 modifica]né si turbava mai per qualsiasi avvenimento, e, con un sangue freddo quasi inverosimile in un giovine di ventidue anni, in un minuto era in grado di misurare ogni pericolo e ogni situazione di fatto, e immediatamente sapeva trovare il mezzo per trarsi d’impaccio, ma trarsi d’impaccio al fine di dominare poi piú sicuramente la situazione. Già si notava nei suoi atti la sicurezza dell’uomo esperto, e non si poteva fare a meno di scorgervi le tendenze di un futuro condottiero. Tutte le sue membra spiravano vigore e le sue doti cavalleresche già possedevano la forza poderosa che è tra le doti del leone.

— Oh, questo sarà col tempo un valente capitano! — diceva il vecchio Taras — eh, sí, sarà un bravo capitano, e di tal sorta, che anche il suo babbo non gli arriverà alla cintola!

Andrea poi s’era tutto immerso nella musica ammaliatrice delle palle e delle sciabole. Non sapeva che volesse dire riflettere, calcolare, misurare prima le forze proprie e quelle dell’avversario. Una diabolica voluttà ed ebbrezza era ciò ch’egli vedeva nella battaglia; qualcosa come la giocondità di un allegro banchetto gli appariva in quegli istanti in cui la testa dell’uomo s’infiamma, e nei suoi occhi tutto balena e si confonde, le teste volano, con fracasso [p. 96 modifica]cadono al suolo i cavalli; ed egli si lascia andare come ubbriaco tra il fischiare delle palle e il luccicare delle spade e aggiusta colpi a tutti e non sente i colpi che riceve. Piú d’una volta il padre ammirò anche Andrea, vedendo come, spinto soltanto da un impeto violento, egli si gettava in qualche impresa a cui mai e poi mai si sarebbe arrischiato un uomo riflessivo e di sangue freddo, e col suo solo slancio furioso compiva tali prodigi quali non avrebbero immaginato i veterani delle battaglie. Ammirava il vecchio Taras e diceva:

— Anche questo è bravo — non si lascerebbe prendere dal nemico! — è un bravo combattente! Non è Ostap, ma è un bravo combattente.

L’esercito stabilí di andare direttamente sulla città di Dubno, dove, correva la voce, si trovavano molti tesori e molti abitanti ricchi. La marcia fu compiuta in una giornata e mezzo, e i Saporogini apparvero innanzi a quella città. Gli abitanti deliberarono di difendersi fino all’estremo delle loro forze e dei loro mezzi, e piuttosto morire per le piazze e per le vie innanzi alle proprie soglie, che lasciar entrare il nemico nelle case. Un alto terrapieno circondava la città; dove esso era piú basso, era stato innalzato un muro di pietra o una casa che [p. 97 modifica]mascherava una batteria, o finalmente uno steccato di legno. La guarnigione era forte e sentiva la gravità del momento. I Saporogini con ardore si arrampicarono caldi caldi sul terrapieno, ma furono ricevuti da una violenta scarica di mitraglia. La borghesia e gli abitanti, com’era evidente, non volevano neppure essi essere inutili, e stavano compatti sul terrapieno. Nei loro sguardi si poteva leggere la resistenza disperata; perfino le donne avevano risoluto di fare la parte loro, e sulle teste dei Saporogini volarono sassi, botti, pentole, pece bollente, e da ultimo, sacchi di sabbia che li accecava.

Ai Saporogini garbava poco aver da fare con le fortezze; dirigere un assedio non era di loro competenza. Il Koscevoj ordinò la ritirata, e disse:

— Non fa niente, egregi signori! noi ci ritiriamo, ma voglio essere un sozzo tartaro e non un cristiano, se noi lasceremo vivo uno solo di questa città! lasciamo che muoiano tutti, questi cani, di fame!

L’esercito, tiratosi indietro, cinse d’assedio la città da ogni lato, e, per non saper che fare, si dedicò alla devastazione di quei dintorni, incendiando i villaggi vicini, i covoni di frumento non ancora raccolto, e facendo entrare le mandre dei cavalli nei campi non ancora tocchi [p. 98 modifica]dalla falce, dove, come a farlo apposta, ondeggiavano le grosse spighe di una messe copiosa oltre il solito, che quella volta compensava generosamente le fatiche di tutti i contadini. Con terrore dalla città vedevano come si annientavano i mezzi della loro sussistenza. Intanto i Saporogini, avendo distese in doppia fila attorno alla città le loro teljeghe, distribuivano, come alla Sjec, per kurjenje, fumavano alla pipa, facevano baratti tra loro delle armi tolte al nemico, giuocavano a cecharda1 o a pari e dispari, e guardavano la città con un sangue freddo da carnefici. Di notte s’accendevano i fuochi di bivacco; i cucinieri in ciascuna kurjenja facevano bollire la kascia2 entro enormi caldaie di rame; presso ai fuochi accesi tutta la notte era piantata la sentinella insonne. Ma ben presto i Saporogini cominciarono pian piano a infastidirsi di quell’ozio e di quella prolungata sobrietà, mancante di ogni legame con un’impresa qualsiasi. Il Koscevoj ordinò perfino di raddoppiare la razione del vino, ciò che qualche volta capitava nell’esercito, quando non si prevedeva alcuna azione o movimento difficile. Ai giovani, e specialmente ai figli di Taras [p. 99 modifica]Bul’ ba, non garbava quella vita. Andrea era manifestamente seccato.

— Testa di poco giudizio! — gli diceva Taras — «soffri, cosacco, e sarai atamano!»3.

Non è ancora un bravo guerriero chi non si perde di animo in un’impresa importante; ma è bravo guerriero colui che anche nell’inazione non si annoia; colui che tollera tutto, e tu fagli quello che vuoi, e lui fermo al suo posto!

Ma non c’è modo d’intendersi tra un giovine ardente e un vecchio; in ciascuno dei due c’è una natura diversa, e lo stesso oggetto è veduto con occhi differenti.

Frattanto arrivò puntualmente il reggimento di Taras, condotto da Tovkac; con lui erano due esaul, uno scrivano e altri impiegati militari; in tutto s’erano raccolti piú di quattromila cosacchi. Erano nel numero non pochi volontari, che erano partiti spontaneamente, di loro volontà senza aver avuto alcuna sollecitazione, appena avevano inteso di che si trattava. Gli esaul portarono ai figli di Taras la benedizione della vecchia mamma e a ciascuno una immaginetta in legno di cipresso proveniente dal convento di Megigor a Kiev. Tutti e due i fratelli si misero addosso le sacre immagini, e senza [p. 100 modifica]volerlo si fecero pensierosi, ricordando la vecchia mamma. Che presagisce, che dice loro quella benedizione? È la benedizione per la vittoria sul nemico, e quindi il lieto ritorno in patria, con la ricca preda e con la gloria nei canti immortali dei suonatori di pandora, o invece...? Ma ignoto è l’avvenire, e sorge dinanzi all’uomo a guisa della nebbia autunnale che si eleva da una palude; vi volano dentro storditi, in su e in giú, rabescando con le ali, senza riconoscersi a vicenda, gli uccelli: la colomba senza vedere lo sparviero, lo sparviero senza vedere la colomba, e nessuno sa a che distanza vola dalla propria rovina...

Ostap era già occupato nelle sue faccende, e da un pezzo aveva fatto ritorno alla propria kurjenja, ma Andrea, senza potersene rendere ragione egli stesso, sentiva non so quale stretta al cuore. I cosacchi avevano già terminato la loro cena. Il crepuscolo s’era spento del tutto da un pezzo, una magnifica notte di luglio avvolgeva l’aria; ma egli non si ritirava alle kurjenje, non si metteva a dormire, e guardava senza volere tutto lo spettacolo che gli era davanti. Nel cielo le stelle senza numero scintillavano di una luce sottile e penetrante. Il campo era da lungi tutto ingombro dai carriaggi che vi erano sparsi, con le maznjize appese [p. 101 modifica]grondanti di catrame, e pieni d’ogni ben di Dio e di tutte le vettovaglie rapite al nemico. Dietro le teljeghe, sotto le teljeghe e lontano dalle teljeghe, da ogni parte si vedevano i Saporogini sdraiati sull’erba. Tutti dormivano in pittoresche posizioni: chi si era arrotolata sotto il capo una stuoia, chi ci aveva messo il cappello, e chi semplicemente adoprava per guanciale il fianco di un suo compagno. La sciabola, il fucile, la pipa a canna corta, con le placche di rame e i suoi ferretti da sturare e l’acciarino, si trovavano inseparabilmente accanto ad ogni cosacco. I bovi corpulenti giacevano con le gambe tirate sotto il ventre, in grandi masse biancastre, e di lontano parevano tante pietre grige scaraventate sul pendío del campo. Da ogni lato si levava su dall’erba il fitto russare dell’esercito addormentato, e di rimando, dal campo con acuti nitriti rispondevano i polledri, inquieti per le loro gambe inceppate. E intanto, qualcosa di grandioso e tremendo si mischiava alla bellezza di quella notte di luglio. E ciò era il rosseggiare lontano dei dintorni ancora in preda alle fiamme. In un posto la fiamma si spiegava tranquilla e imponente verso il cielo; in un altro, avendo incontrato qualcosa di combustibile, si levava poi su improvvisamente, a vortice, fischiava e si alzava fino alle stelle, e [p. 102 modifica]alcuni fiocchi se ne staccavano e andavano a spegnersi nelle lontane regioni del cielo. Altrove un nero convento bruciato, simile a un severo certosino, sorgeva minaccioso, mostrando a ogni guizzo di luce la sua cupa mole; altrove ardeva il giardino di un convento: pareva di udire come stridevano gli alberi contorcendosi tra il fumo, e quando poi balzava fuori il fuoco, esso illuminava improvvisamente di una luce fosforescente e violacea accesa i rami carichi di susine mature, o pure mutava in oro zecchino le pere che qua e là ingiallivano, e allora nereggiava tra esse, appiccato al muro d’una fabbrica o ad un ramo d’albero, il corpo d’un misero giudeo o di un frate, che insieme con l’edificio era distrutto dal fuoco. Al di sopra del fuoco volteggiavano in lontananza gli uccelli, e parevano una quantità di crocette scure e sottili sulla pianura in fiamme. La città assediata pareva che dormisse, ma le torri, i tetti, lo steccato e le mura erano illuminati silenziosamente dai riflessi degli incendi lontani.

Andrea girò attorno alle file del campo cosacco. I fuochi ai posti di guardia erano pronti a spengersi da un minuto all’altro, e le stesse sentinelle dormivano, dopo aver divorato qualsiasi vivanda con tutto l’appetito dei cosacchi. Il giovine si meravigliò un poco di tutta quella [p. 103 modifica]noncuranza e pensò: «Fortuna che nelle vicinanze non c’è un nemico forte e non c’è nessun pericolo!». Da ultimo s’accostò anche lui a uno dei carri, vi montò su e vi si mise a giacere supino, collocando sotto la testa le sue mani ripiegate indietro; ma non poteva prender sonno, e stette lungamente a guardare il cielo, tutto aperto davanti ai suoi occhi. L’aria era pura e trasparente; quella fitta moltitudine di stelle che forma la via lattea e come una fascia obliqua percorre il cielo, era tutta inondata di luce. Di tempo in tempo Andrea dimenticava se stesso, e una lieve nebbia di sonno copriva per un istante il cielo dinanzi a lui, ma poi la nebbia si dissipava e il cielo tornava ad essere visibile come prima.

In uno di quei momenti gli parve che balenasse all’improvviso dinanzi a lui una strana forma di volto umano. Pensando che si trattasse di una semplice illusione del sonno, che all’istante sarebbe svanita, aprí piú energicamente gli occhi, e vide che proprio si piegava sopra di lui una certa faccia esausta e scheletrita, e lo guardava fiso negli occhi. I capelli, lunghi e neri come il carbone, scarmigliati e arruffati, sfuggivano di sotto a una cuffia oscura che copriva la testa; e sia lo strano bagliore dello sguardo, sia il colore livido cadaverico del [p. 104 modifica]volto, che risaltava nei lineamenti affilati e taglienti, facevano piuttosto pensare che quello fosse uno spettro. Senza volere, il giovine si appigliò con la mano al moschetto, e proferí con voce quasi convulsa:

— Chi sei? Se sei uno spirito immondo, togliti dai miei occhi; se sei un uomo vivo, il tuo scherzo non viene in buon punto: ti ammazzo al primo colpo!

Per tutta risposta, l’apparizione mise un dito sulle labbra e lasciò intendere che lo pregava di tacere. Egli allentò il braccio e si mise a guardarla con maggiore attenzione. Ai lunghi capelli, al collo e al seno bruno, mezzo scoperto, riconobbe una donna. Ma non era un’indigena: tutto il suo volto, disfatto dai patimenti, era bruno; larghi zigomi sporgevano fortemente al di sopra delle guance cadenti; i piccoli occhi erano rivolti in su con un taglio arcuato. Piú la guardava, piú esaminava quei lineamenti, e piú vi trovava qualcosa che non gli era nuovo. Da ultimo, non poté piú resistere, e domandò:

— Dimmi, chi sei? mi sembra di conoscerti; ti ho veduta in qualche luogo?

— Due anni fa, a Kiev.

— Due anni fa, a Kiev — ripeté Andrea, mentre chiamava a raccolta tutto quello che [p. 105 modifica]nella sua memoria era rimasto ancora intatto, della sua passata vita di collegiale. Fissò ancora una volta con insistenza gli occhi su di lei, e a un tratto mandò un grido con tutta la sua voce:

— Sei la tartara! l’ancella della signorina figlia del Vojevoda...

— St! — bisbigliava la tartara, in atto supplichevole con le mani giunte, e intanto tremava tutta e si voltava indietro, a guardare se per caso qualcuno fosse stato svegliato da quel grido di Andrea.

— Dimmi, dimmi, perché, come sei qui? — disse Andrea con voce quasi soffocata, bisbigliando, interrompendosi a ogni minuto per l’interna emozione. — Dove è la signorina? È viva?

— È qui, nella città.

— Nella città — disse lui, e poco mancò che non prorompesse di nuovo in un grido, mentre sentiva che tutto il sangue gli affluiva al cuore — perché è in città?

— Perché il mio vecchio padrone è anche lui nella città; da un anno e mezzo egli ha la carica di Vojevoda in Dubno.

— E di’ un po’; è maritata? Rispondi, di’ — che strana donna tu sei! — di’?, ora che fa...?

— Sono due giorni oggi che non ha mangiato un boccone. [p. 106 modifica]

— Come mai?

— Nessuno degli abitanti della città, già da tempo, nessuno ha piú un boccone di pane; già da tempo, non si mangia altro che terra.

Andrea restò di sasso.

— La signorina ti vide dall’alto del terrapieno mentre eri con gli altri Saporogini; mi disse: «Va’, di’ a quel cavaliere: se si ricorda di me, che venga da me; e se non se ne ricorda... che ti dia un tozzo di pane per questa povera vecchia di mia madre, perché io non voglio vedere morire prima di me la mia mamma. Che piuttosto muoia prima io e lei dopo di me! Gèttati alle sue ginocchia, scongiuralo: anche lui ha una vecchia madre... che per amore di lei dia un po’ di pane!».

Molti sentimenti d’ogni sorta si destarono e divamparono nel giovine petto del cosacco.

— Ma tu come sei qui? Come ci sei venuta?

— Per un cammino sotterraneo.

— O che c’è un cammino sotterraneo?

— Sí.

— Dove?

— Non ci tradirai, cavaliere?

— Giuro sulla Croce santa.

— Calandosi per la scarpata, e traversando il ruscello, laggiú dove è il canneto.

— E il passaggio arriva fino dentro la città? [p. 107 modifica]

— Va diritto al convento.

— Andiamo, andiamo immediatamente!

— Ma per amore di Dio e di Maria santissima, un tozzo di pane!

— Bene, ne avrete. Resta qui accanto al carro, o, meglio ancora, mettiti sopra al carro; nessuno ti vedrà, dormono tutti; io torno subito.

E si avviò verso i carriaggi, dove si serbavano le provviste assegnate alla sua kurjenja. Il cuore gli batteva forte. Tutto il passato, tutto ciò ch’era stato sommerso e sopraffatto dai presenti bivacchi cosacchi, dalla dura vita delle battaglie, venne a galla tutto insieme, sommergendo a sua volta il presente. Sorse di nuovo dinanzi a lui, come da un oscuro gorgo marino, la figura di quella donna orgogliosa; di nuovo si illuminarono nella sua memoria quelle magnifiche braccia, quegli occhi, il riso di quelle labbra, i folti capelli castani cadenti giú in riccioli sul seno e tutte le membra agili e vibranti, armonicamente disposte in quel corpo di fanciulla. No, non si erano spenti, non erano scomparsi dal cuore di lui quei ricordi; si erano soltanto messi da parte, lasciando libero il passo per breve tempo ad altre potenti emozioni; ma spesso spesso venivano a turbare il sonno del giovane cosacco; e spesso, svegliatosi, egli re[p. 108 modifica]stava insonne sul suo giaciglio, e non sapeva spiegarsi come ciò avvenisse.

Andava, ora, e il battito del cuore gli si faceva piú forte, sempre piú forte, al solo pensiero che l’avrebbe riveduta, e le sue ginocchia giovanili tremavano. Giunto ai carriaggi, non ricordava piú affatto perché c’era andato; si portò una mano sulla fronte e stette lí un pezzo a grattarsela, sforzandosi di ricordarsi che cosa doveva fare. Da ultimo si riscosse, pieno di spavento: gli venne in mente tutto a un tratto che lei stava morendo di fame. Si gettò su un carro, ne prese parecchi pani scuri e se li mise sotto il braccio; ma subito gli venne in mente che quel cibo, adatto per un duro Saporogino senza capricci, forse sarebbe riuscito troppo rozzo e sconveniente per la delicata costituzione di lei. Allora si ricordò che la sera avanti il Koscevoj aveva rimproverato i cucinieri perché avevano fatto cuocere per la polenta in una volta sola tutta la farina di granturco, mentre ce n’era per tre volte buone. Con la piena convinzione che avrebbe trovato abbastanza polenta nelle caldaie, tirò fuori il calderotto da campo di suo padre e con esso si diresse verso il cuciniere della sua kurjenja, il quale dormiva accosto a due caldaie da dieci [p. 109 modifica]secchie4 che avevano ancora, sotto, la cenere calda. Vi diede un’occhiata, e rimase stupito vedendole vuote tutte e due. C’era voluta una forza piú che umana per consumare tutta quella roba, tanto piú che in quella kurjenja c’era meno gente che nelle altre. Andò a guardare nelle caldaie delle altre kurjenje... niente da nessuna parte! Senz’averne voglia ripensò al proverbio: «I Saporogini come i bambini: se ce n’è poco, mangian tutto; se molto, non ne avanza niente lo stesso». Che fare? Ci doveva essere tuttavia, a quanto pare, nel carriaggio appartenente al reggimento di suo padre, gettato chi sa dove, un sacco di pane bianco, trovato quando si andò a far preda nel forno di un convento. Andò diritto al carro del padre, ma sul carro il sacco non c’era piú: Ostap l’aveva preso e se l’era messo sotto il capo, e quivi steso a terra russava da farsi sentire per tutto il campo. Andrea afferrò il sacco con una mano e lo tirò d’un colpo, per modo che la testa di Ostap batté in terra, e quegli tra il sonno si levò su a sedere, e con gli occhi chiusi cominciò a gridare:

— Tenetelo, tenetelo quel diavolo d’un polacco! fermate il cavallo; il cavallo fermate! [p. 110 modifica]

— Sta’ zitto, o ti accoppo! — gridò nel suo spavento Andrea, minacciandolo col sacco. Ma Ostap già per conto suo aveva smesso di parlare, s’era chetato e aveva ripreso a russare, con tanta forza, che il suo fiato muoveva l’erba del campo su cui stava a giacere. Andrea si guardò attorno da ogni lato, timidamente, per accertarsi che quel vaneggiare di Ostap nel sonno non avesse svegliato qualcuno dei cosacchi. Una sola testa, col suo ciuffo, si alzò nella kurjenja piú vicina, e girati gli occhi attorno, si lasciò andare di nuovo a terra. Aspettò ancora un paio di minuti, e poi si avviò col suo carico. La tartara giaceva mezza morta.

— Lèvati su, andiamo! Tutti dormono, non aver paura! Tu mi prenderai su almeno uno di questi pani, se non mi tornerà agevole il portarli tutti?

Detto questo, si gettò il sacco sulle spalle, poi, strada facendo, nel passare accanto a un carro, ne tirò via anche un sacco di miglio, prese anche in mano quei pani che aveva in mente di far portare alla tartara, e, un po’ curvandosi sotto il peso, avanzò arditamente tra le file dei Saporogini addormentati.

— Andrea! — disse il vecchio Bul’ ba quando il figlio gli passò accanto.

Andrea ebbe un colpo al cuore, che gli parve di [p. 111 modifica]morire; si fermò tutto tremante, e disse piano:

— Che c’è?

— Hai con te una femmina! Bada, quando mi alzo, ti spianerò le costole ben bene! Non ti porteranno a buon fine le femmine! — Detto questo, sollevò la testa appoggiandola a un gomito e si mise a guardare attentamente la tartara avviluppata nel suo velo.

Andrea stava lí, né vivo né morto, senza avere la forza di levare gli occhi, guardò e vide che il vecchio Bul’ba dormiva già, col volto appoggiato alla palma della mano.

Si fece il segno della croce. A un tratto la paura svaní dal suo cuore, anche piú presto di come gli era venuta. Quando si voltò per guardare la tartara, se la vide dinanzi dritta come una statua di granito, tutta avvolta nel suo velo; e un riflesso d’incendio lontano, guizzando a un tratto, non illuminò di lei altro che gli occhi, sbarrati come di un morto. La tirò per una manica, e s’avviarono entrambi insieme, continuamente voltandosi a guardare indietro, e da ultimo si calarono giú per il pendío nel fossato sottostante — una sorta di borro, di quelli che in certi luoghi chiamano balki — in fondo al quale serpeggiava pigramente il ruscello tutto erboso di carici e disseminato di zolle. Calatisi in quel fossato, si sottrassero interamente alla [p. 112 modifica]vista di tutto il campo occupato dal tàbor saporogino. Almeno, quando Andrea si volse a guardare, si vide alle spalle una costa diritta come una parete a picco, piú alta della statura d’un uomo; sulla cima di essa si vedevano oscillare alcuni steli dell’erba che copriva il campo, e sopra di essi sorgeva nel cielo la luna in forma di una falce, foggiata di traverso, in oro zecchino chiaro. Dalla steppa si spiccava un venticello che voleva dire che ormai non mancava molto tempo allo spuntare dell’alba. Ma da nessuna parte c’era da udire il canto del gallo in lontananza; né dentro la città, né per i dintorni devastati esisteva piú un gallo, da un pezzo. Sopra una piccola palancola passarono il torrente, dietro al quale si alzava la riva opposta, piú alta, cosí a vederla, di quella che avevano alle spalle, ed elevata addirittura a picco. Si capiva che nella fortificazione della città quello era un punto forte e sicuro per se stesso; almeno il terrapieno era lí piú basso, e la guarnigione non vi aveva messo vedetta. Ma, in compenso, a breve distanza si levava su il muro massiccio del convento. La costa scoscesa era tutta rivestita di burjiana 5, e nello [p. 113 modifica]stretto greto fra essa e il ruscello erano cresciute delle canne, quasi fino all’altezza d’un uomo. In cima all’erta si potevano vedere gli avanzi di un reticolato, segno che un tempo lí era un orto: sul davanti erano larghe foglie di lappole, e dietro sporgeva la vulvaria, il cardo selvatico con le sue spine, e un girasole che al di sopra di tutto il resto innalzava la testa. Ora la tartara si cavò gli zoccoli e quindi camminava a piedi nudi, tirandosi su accuratamente il vestito, giacché il terreno era fangoso e tutto pieno di pozze d’acqua. Dopo essersi cacciati in mezzo al canneto, si trovarono dinanzi a un mucchio di sterpi e di fascine. Non ebbero che a spostare quegli sterpi, e si videro davanti una specie di volta sotterranea, con un’apertura poco piú grande della bocca d’un forno. La tartara abbassò il capo ed entrò per prima; dietro a lei Andrea, curvandosi quanto piú poteva, per poter passare coi suoi sacchi; e ben presto si trovarono entrambi nell’oscurità perfetta.

Note

  1. Giuoco di agilità, consistente nel saltare al disopra delle spalle dei compagni.
  2. Polenta di avena monda.
  3. Proverbio.
  4. La «secchia» è una misura pari a litri 12,3. È facile da ciò farsi un’idea di quelle caldaie smisurate.
  5. Nome che danno alla speciale, alta erba della steppa.