Tacito abburratato/III. - Discorso sesto

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III

DISCORSO SESTO

Argomento.

Le legioni di Germania, comandate da Germanico, mentre egli lontano da esse faceva il catasto in Francia, mossersi a sedizione, di cui Tacito scrivendo la grandezza, dice cosí: Non tribunus ultra, non castrorum praefectus ius obtinuit. Vigilias, stationes, et si qua alla praesens usus indixerat ipsi parliebantur. Id militares animos allius coniectantibus praecipuum inditium magni ac implacabili motus: quod neque disiecti aut paucorum instinctu, sed pariler ardescerent, pariter silerent: tanta acqualitate et constantia, ut regi crederes. (Annalium, lib. I).

Se talora il cane di uno scaltro ciurmatore, ora ad un cenno del maestro passeggiando ritto su’ due piedi, ora passando e ripassando con iscorci strani per cerchio angusto, ora per l’amor di bella giovane levando stupendi salti, e per l’amor di brutta vecchia non movendo pure un pelo, desta nuova maraviglia ne’ circostanti, dir sogliamo: — Questo cane opera in guisa, che tu crederesti, lui di uman discorso esser proveduto. — Né altro ciò vuol dire, sol ch’ei veramente non discorre, ma ben sí di chi discorre tien somiglianza. Cosí Tacito scrivendo delle legioni di Germania sollevate, sed pariter ardescerent, pariter silerent, tanta aequalitate et constantia, ut regi crederes, viene a significare, ch’esse ben parevan rette, ma non lo erano per veritá. Or io voglio studiarmi di far chiaro, che piú assai di qualsivoglia ubbidiente esercito la sedizione, ossia la moltitudine sediziosa, reggesi perfettamente per sua natura; e cosí discorro. Ciò diciamo venir retto, che ha principi, o ver cagioni, ond’egli è scorto per ben regolati mezzi ad alcun fine [p. 208 modifica] determinato. Quindi avviene, che di quel naviglio, il quale privo di governo viene or qua or colá balzato dal fiottar della procella, dicesi ch’egli si muove a caso: e il carro di Fetonte erra, non viaggia, sol perché investendo incertamente, quando il Cancro, quando il Capricorno, mostra piú non ricordarsi, se cercar ei debba l’espero o l’aurora per riposare. Or di tali cagioni alcune sono dentro il mobile medesimo incalmate, alcune gli sono estrinseche; e queste doppiamente son divise, cioè a dir nella finale ed efficiente. Efficiente chiameremo la feroce e dotta mano di Grifone per rispetto a quel corsiero, ch’egli nella giostra di Damasco spinge a coglier da’ abbattuti cavalieri palme sublimi; finale chiameremo un’Elena in riguardo alla bellezza, per la cui conquista versò il mondo le sue parti principali l’una sull’altra. Le cagioni intrinseche son la natura della cosa stessa che si muove, o dir vogliaci la propria forma (ché dalla materia, solamente atta a patire, niuno aiuto all’operazione suole arrecarsi): e da cotal forma viene, per ragion di esempio, governato il sasso mentre piomba in giú, e alienato il fuoco mentre ambizioso della sua chiarezza va a sublimarsi. Ora quanto meglio converranno fra se stesse le cagioni estrinseche, ed estrinseche del movimento, e quanto piú la cosa che si muove avrá unitade in se medesima, con tanta miglior regola retta sará. E sí come delle materiali cose (che di questa si favella adesso) alcune di unitade vera e propria son fornite, clienti sono quelle, che continuate han le lor parti, e anche piú se le hanno simili l’una con l’altra; cosí alcune per contrario altra unitá non hanno, che una accidentale, sorta in esse quasi quasi da lor forma intrinseca, da un ordine e proporzione, con cui sono le lor parti collocate fra se medesime. E conciosia che si fatti siano i corpi, cui compongono distinte membra, qual sarebbe una cittade od un esercito od un orologio, quindi avviene, ch’essi tanto piú potranno di unitá vantarsi, quanto piú collo essere di parti simili composti, e nel loro ordine da un tal principio mantenuti, alla unitade propria e vera si accosteranno. Se esamineransi dunque le cagioni e l’unitade della sedizione, certamente apparirá di nessun corpo, fatto di divise parti, meglio [p. 209 modifica] poter dirsi venir retto, che si possa dire del sedizioso. Ma perché non meno alle civili che alle militari il nome di sedizione si attribuisce, io, per non partirmi dal proposito nel quale Tacito ne parla, stringerommi solamente alla militare. Questa dunque, per quanto il nome stesso insegna, non è altro, che una separazione di una parte dell’esercito dal corpo rimanente, a fine di ottener a forza alcuna cosa del capitano. Or, se di uno ubbidiente esercito, nel punto ch’egli posto in ordinanza attacca zuffa col nemico, dicesi, e si dice ottimamente, ch’egli sia retto, molto piú dovrassi dire, se vorrem paragonare l’un con l’altro, del sedizioso. Veniamone alla prova, discorrendo sulla traccia delle massime, che nel principio quasi fondamenti furon gittate.

Cagione efficiente dello esercito può intitolarsi il generale, perocché, sí come l’ordine è la forma di esso esercito, tal ordine non da altri, che dal generale, il quale, quasi idea, contienlo, viene prodotto. Il corpo sedizioso anch’egli ha un duce, il quale ottimamente il reggerá, perocché quello sia in lasciarsi reggere pieghevolissimo, tra perché i sediziosi, tutti di comun volere, similissimo a se stessi lo si hanno eletto, e molto piú perché il lor bene si è lo stesso sempre mai col bene del capo loro: cosa che non segue d’ordinario tra l’esercito e il generale. Alessandro il grande, niente meno invidioso de’ trionfi ch’ei si fosse parziale delle tazze dell’ebro iddio, rapiva il popolo macedone per tutte le piú sconosciute, indomite e impenetrabili contrade dell’Oriente, non potendo darsi sosta finattanto ch’egli non giungesse a risvegliar il sol bambino nella culla sua medesima con le sue trombe. Or crediamo noi, che da sí lunghe e malagevoli condotte egual profitto ad esso e alla sua falange ne risultasse? Appunto. S’egli ricevea ferite nelle battaglie, co’ diademi de’ cattivi regi le s’infasciava; ogni stilla di sudore, che per la fatica egli versasse, veniva dall’acquisto de’ piú generosi e chiari fiumi contracambiata: dormiva sul terreno ignudo, ma gliel facea morbido la rimembranza, che fu dianzi de’ nemici, e al presente era di Alessandro; l’aura della propria fama rinfrescava i piú bollenti ardori sulla sua fronte; il meriggio sollevato dalla propria gloria il difendeva [p. 210 modifica] contro i ghiacci piú crudeli; e, non che impicciolisse, ima facea distender la sua ombra per tutta l’Asia. In somma, tutti i patimenti divenivan piccoli contro Alessandro, perocché Alessandro per li patimenti divenia grande; né avean forze per affliggere il suo picciol corpo, mentre (mercé loro) tutto il mondo intiero facea corpo glorioso alle sublimi imprese, cui col suo gran nome egli dava l’anima. Lascio, che per suo ristoro accostumandosi a non paventar demm’armi i lussi e le delizie, sulle arene piú deserte e fervide piantavano con serici e geminati padiglioni ricche verzure; imbandivan sulle rupi sterili e inospite con cibi esquisitissimi mense regali, e nelle scolpite tazze vini preziosissimi mesceano: ond’ egli ricercando al fondo le sembianze effigiatevi de’ vinti regi, a’ quali le avea tolte con le sue vittorie, piú per titillar l’ambizione che per ismorzar la sete avea diletto di rasciugarle.

Non cosí, non certamente i soldati suoi. Spandeano il sangue a fiumi, sopra’ quali il nome loro ad esser dalla fama, qual colomba, tolto in alto non galleggiava, ma correa, con essi fiumi, a spegnersi del nome di Alessandro nel vasto oceano; fulminavan loro tutti gli elementi, acciò tenuto ei fosse per figliuolo del Fulminante; moriano per immortalarlo, abbandonavano le proprie mogli, acciocché quelle de’ re Persi supplichevoli al suo piede egli rimirasse; seminavan le campagne con le proprie membra, acciò le germogliate palme egli ne cogliesse: era un solo il porporato, mille i piagati; era uno solo il trionfante, mille i vincenti; sol per acquistar a lui perdevano, non che a se stessi, ma se stessi: poiché smozzicati, e fatti avanzo de’ lor propri corpi, giá del pari paventavano gli scherni de’ nemici, s’essi proseguivano le inchieste, e la confusione della patria, se facean ritorno a meritare un’orrida pietade piú dagli uomini, venendo sí infelici, che da’ padri o da’ figliuoli, venendo si contrafatti.

Quindi, dal non esser lo stesso il ben del capitano e de’ soldati, nasce che, quantunque la cagion final di questo e quelli, unitamente presi, possa dirsi la medesima, cioè la vittoria, non pertanto l’uno e gli altri presi da per sé, per fini troppo [p. 211 modifica] fra di loro differenti lasciano trarsi: onde deriva poscia quella discordanza di cagioni, ch’è cosí contraria, come nel principio io dissi, al buon regolamento della cosa, ch’esser dee retta. Con giornata troppo lunga stancherei lo esercito, se andar volessi dimostrando con esempi, quanto sian diversi nel combattere i motivi de’ soldati, non col duce loro solamente, ma fra lor medesimi paragonati. Altri non per laurear la fronte, ma per indorarla mano maneggia il brando; altri con fortezza smoderata rende debole la impresa tutta, mentre per farsi unico tra gli altri viene a dividersi; quegli sol fa fronte contro l’inimico, perché tiene il superiore dopo le spalle, e sol perché non può fuggire tenta fugare; questi cerca con la spada, non la gloria della parte sua dentro l’oste avversa, ma la sua particolar vendetta sopra il suo nemico particolare; chi fa voti pe ’l suo duce, chi bestemmia, chi destina giá la sua libidine alle mogli altrui, chi piange per paura di mai piú la propria non rivedere: avarizia, zelo, sdegno, tema, ambizione, rabbia, temeritá fanno cento funzioni di un solo esercito. E perché leggiam noi, Pompeo presso Lucano, ed Emireno presso il Tasso, per inanimar lo esercito a combatter fortemente, scorrer ora confortando questi con promesse, or rampognando quelli con rimproveri, or destando in altri la speranza con l’agevolezza, or affinando in altri col pericolo la providenza, ostentando or gran prede nell’avverso campo ad infiammare la cupidigia, ora gran miserie nell’amica patria, a risvegliar la compassione? se non perch’essi, come saggi capitani, troppo ben sapeano che diversi vogliono esser gli argomenti a persuadere la medesima azione a molti, che hanno oggetti diversissimi nell’operarla? Questa intrinseca diversitá di fini, a cui coopera gagliardamente la dissomiglianza delle parti dello esercito, principalmente per le varie nazioni che il compongono, può molto, perché i corpi, sol con unitade accidental congiunti, non somiglino con la proporzion dovuta quelli, che contengono unitade propria nel loro essere, e per conseguenza fa, che piú difficilmente vengan retti, mentre privi son di quella somiglianza nelle parti loro, per la quale all’assoluto impero di una forma sola, internamente [p. 212 modifica] governante, ubbidienti e arrendevoli soggiacerebbono, non cosí nelle sedizioni. Dove può trovarsi intrinseca unitade maggior che in esse? Le parti del sedizioso corpo sono l’una all’altra somigliantissime: imperocché, se in una riga di salnitro una favilla sola con un momentaneo lampo dal primier granello avventasi allo estremo, non per altro che per esser tutti di una stessa guisa, la primiera volontá non meno, che nel corpo sedizioso fioca baleni, diviene volontade tutto a un tratto di mille petti, quodque in re tali difficillimum est, prima vox; e in un altro luogo, ma naturalmente addattatissimo a seguitar questo: mox cadem acrius volens (tutto il restante de’ soldati ), faciliore inter malos consensu ad bellum, quam in pace ad concordiam. E certo con grandissima necessitá. Perché? perché lor lega con indissolubil vincolo il timore della stessa pena e la speranza del premio stesso. Vogliono una cosa sola, perché dentro mille petti vive un sol cuore.

Ma, acciocché col suo fortissimo argomento l’unitade non ci stringa però tanto, che non ci rimanga libertá di ammetter anche il numero di altre ragioni a favor nostro, dicamisi per grazia: chi combatte non reggerassi egli tanto meglio contro del nemico, quanto di piú esso nemico avrá perfetta la conoscenza? Certamente sí. Or da chi vien egli meglio conosciuto, dall’esercito nella giornata, o dal sedizioso corpo nella sua rissa? Lo esercito sovente, anzi la maggior parte delle volte, contro popoli combatte, di clima di costume di linguaggio dal suo diversi. Cosí le genti nate sotto la clemenza dell’italiano cielo combatton contro i figli ferocissimi dell’orse cimbriche sotto di un Mario; le schiere tolte alle piacevoli riviere del Sebeto, o ver del Tevere, s’affrontano con gli abbronzati popoli della Numidia sotto le bandiere di uno Africano. I persiani, accostumati dalla lor mollezza a condur sempre in campo Marte unito a Venere sotto di un Dario, fan guerra con le macedoniche falangi, uscite dalle asprissime caverne della Tracia. Quindi qualor hassi a fare con nemico sconosciuto, di cui male puossi saper l’arte, non sapendosi ben la natura, oh quanto fia difiícile lo accorgersi se le sue fughe sian timori od istratagemi, [p. 213 modifica] gli assalti elezione o necessitá, sostanza od apparenza vana i preparamenti. E quando anche la condizion e la natura de’ soldati fosse ben chiara, quanto per contrario riuscirá sovente oscura quella del nemico capitano, che, se degno è di tal nome, dee far sí che alla camicia propria i suoi pensieri ancora siano nascosti? E pure se delle nemiche schiere e del lor duce non avrá l’esercito e colui che ’l regge notizia chiara, pressoché impossibile il ben reggersi gli riuscirá. Per contrario l’inimico del sedizioso corpo è quasi sempre quello stesso, ch’era avanti la sedizione suo capitano: cioè a dire quello, di cui sanno giá per piú e piú prove replicate, quali siano le virtudi, quali i difetti, da qual parte egli si mostri esposto, o pure impenetrabile agli assalti altrui; s’egli sia materia da sorprese, o da violenze, da crollar con la paura o con la pietá. In somma, s’ei pregiandosi di saper dire il braccio di ciascuno strale, benché scoccato, e ’l nome di ciascun de’ suoi piú vili fantaccini, insegna aver un uomo solo abilitade a capirne mille, molto piú l’avran que’ mille a capir un solo, mentre che di lui cotante volte hanno provato quale sia il coraggio negli assalti, qual la sofferenza negli assedi, la fortuna ne’ conflitti, nella disciplina la rigidezza. Onde perché furon da lui retti, sono ottimamente ammaestrati a reggersi contro di lui. Maggiormente, che la sedizione avviene per lo piú di quella parte dello esercito, che il duce suo conosce meglio di tutte le altre, cioè a dire quella, ch’è composta di soldati veterani. Però ch’essi son fra tutti gli altri sommamente forti e ingegnosi, e consapevoli a se stessi di poter pretendere gran cose, e querelarsi con giustizia grande non ottenendole: condizioni, niente meno al muovere sedizione necessarie, che giovevoli al sapersi nella sedizione poscia governare come conviensi.

E poiché della coscienza e del coraggio fa gran prova il veterano collo aver cotante volte in mare, in terra, con insidie, a viso aperto, per lo ferro, per le fiamme, armato, ignudo, per segnar nel proprio corpo con profonde cicatrici i luminosi fasti del suo duce, disfidato ben mille morti; piacenti per testimonio della terza condizione, ch’è l’ingegno, addurre in campo gentil [p. 214 modifica] prova, pur da Tacito somministrata. Narra questi che Germanico, mentre facea catasto nella Francia, udita sollevar sedizione negli eserciti della Germania, tosto rapido vi accorse per acchetarla. Al lampo dell’imperial sembianza, che serenamente fulminandosi faceva amare mentre atterriva, dieder le sediziose turbe col raumiliar le ciglia gran segnali di penitenza; non pertanto, dopo ch’egli entrò ne’ padiglioni, mettean gridi, e afferrandogli la destra, sotto specie di baciatagli, que’ giá decrepiti soldati opravan, ch’ei tastasse con le sue proprie dita le gengive loro tutte sfornite. Or aguzzi pur Demostene il turcasso piú terribile degli entimemi, figuri Cicerone con color di fuoco il moto degli affetti piú concitati, che non diran mai né tanto, né sí vivamente, quanto disser quelle labbra incanutite e tremole nel lor silenzio, mentre col non poter mordere le mani, sin nelle midolle al cuor del capitano s’invisceravano. — E quando mai, — sentiva ei mutamente dirsi, — ci sará concesso, o buon Germanico, di riposare, se né men la sepolcrale etade ci ottien riposo? Quali avanzi trarrem noi di noi medesimi da tante guerre, con infaticabil serie di perpetui gradi concatenate, se fan testimonio le gengive nostre, né pur esserci permesso, dopo aver perduto le ossa, il porre in salvo le reliquie miserabili del nostro corpo? Qual necessitá sí dura sforza i miseri mortali a viver fra le morti, fino alla morte? Mira, che oggimai non reggono le curve spalle il pesante usbergo. Mira, che le secche mani, in cui vacillano le picche, altro piú non ponno, fuor che giungersi per porger voti supplichevoli alla tua pietá. Gli occhi, rosi ormai dalla vecchiaia, piú non hanno lume per dar mira a’ colpi delle saette. L’ostinarsi di volere ombre pesanti, piú che corpi vivi, sotto le bandiere, altro non è che una ingegnosa ambizione di non far sanguigne perdite, né meno quando fossimo tagliati tutti a pezzi miseramente. Deh consentici il dominio della nostra vita almen nella stagione, che siam per perderla: serva a noi quando ella piú non vale a servir te. Giá non è temeritade il dimandare di non premer con le moribonde membra una dura zolla, di spirar il fiato estremo ricevendo sulle fredde labra i baci de’ figliuoli e delle mogli, [p. 215 modifica] invece di arrabbiatamente morder singhiozzando il suolo, lastricato di brutta strage; di esser arsi dentro un rogo, ove le nostre ceneri non sian confuse con le ceneri degl’inimici. Sia possibile alcun’altro fato, che di ferro, sotto i romani. Non si snerverá il tuo esercito, perché ne vada lunge una cadente etade, che strascina se medesima per seguitarla. Si avvalora il corpo, se le membra inaridite, inutili, gli si recidono. Questo nostro desiderio è effetto di una felicissima fortuna, tua partigiana. Non vuole ella esporti alla lunghissima carriera delle tue fatiche nobili, ch’ella prevede, che non abbia prima in luogo de’ tuoi logori soldati fatto sottentrare giovani robusti e freschi, quale sei tu. Vuol mutarti in sostegno il peso. —

Or crediamo noi che, se l’ingegno sa ne’ sediziosi cosí fortemente armar con tacita facondia bocche disarmate giá dal tempo, per cattar benevolenza dal capitano, governar saprá la destra quando sará d’uopo amarla a risvegliar temenza nel capitano. Ma sorgendo alcuno contra me: — La sedizione, — dirá egli, — ha luogo tra le cose male, a cui mal sembra che con venga il sapersi reggere: maggiormente essendo una di quelle, la natura delle quali non è altro che confusione turbamento smoderanza, in somma tutto ciò che opponsi dirimpetto a regola a governo e a reggimento. — Ora, ammesso che la sedizione sia cosa mala, io dico per risposta: che di molte cose, che son male perché malo è il fine che elle si han proposto, non si può per questo dire ch’elle reggersi non sappiano, mentre che sanno scegliere adattati i mezzi per ottenerlo. Malo è Pisistrato, malo è Cesare, nello aspirare alla tirannide della sua patria: ma nel sormontare al designato posto, ch’essi ottimamente sappian reggersi, non è chi nieghi. All’incontro chi riguarda a Cicerone, che brigandosi con ogni studio nel senato d’appoggiare al giovanetto Augusto il generalato degli eserciti, viene a renderlo monarca per la stessa strada ch’ei credea lui dover esser rinovellatore della Repubblica, ben affermerá ch’ei fu buon uomo: ma altresi che i buoni sconsigliatamente reggonsi talvolta, soggiungerá. Consento somigliantemente, che la sedizione suona nel suo titolo confusioni, mischie, [p. 216 modifica] ravvolgimenti; dunque i sediziosi non sapran reggersi? È falso questo, e il perché ne aggiungo con esempio per mio credere confacentissimo. La sedizione in un esercito si è per appunto tale, qual suol essere una febre in un corpo umano, posciaché ambe son composte di que’ mali umori, che per dare assalto contro il capo e contro il cuore van ribollendo. Certamente chi riguarda il povero febbricitante, altro che scomponimenti, turbazioni, e rimescolamenti pare che non sappiano rappresentarsi. Scaglia in mille guise e gambe e mani e braccia per esso il letto, quasi brami prender fuga e distaccarsi da se medesimo. Le agitazioni del suo corpo sono pari in numero a’ colori torbidissimi della sua faccia, il capo va a trovare i piedi, i piedi salgono dov’era il capo: il fuoco fa ch’ei brami il freddo, e ’l freddo fa che piú arrabbiato egli provi il fuoco: è languente, ma la stessa languidezza è fomite delle violenze: del malor la forza abbatte ogni sua virtú, e in virtú del male egli fa forze maravigliose: smania, languisce, freme, chiede compassione, fa minaccie, non sa ciò ch’egli si dica, dice piú ch’egli non sa, non conosce ciò ch’ei vede, non vede ciò che ha su gli occhi, è in se stesso al penare, e all’intendere fuor di se stesso: chi mai vide tal Babilonia? E pur gli umori intrinsechi e sediziosi, onde l’infermo miserabile è costretto a non poter regger se stesso, sanno sí miserabilmente reggersi ne’ loro assalti, che gli Ippocrati, i Galeni stupefatti dir non sanno per qual guisa materiali e grossi umori osservino ne’ parossismi loro quella esquisitezza di giornate, quella proporzione di progressi, che sarebbe assai quando nascesse da potenze ragionevoli, operanti con consiglio ed elezione.

Finalmente per difender Tacito mi veggo incontro, formidabili campioni, un Cesare e un Gottifredo. — Or come (dirá il primo) sia mai vero, che si reggano con buona regola le sedizioni, s’elle anche qualora sono nel maggior vigore, non pertanto, qual volante nube, che superba torreggiando in vista, si dilegua a lieve soffio, anch’elle al primo sopraciglio della maestá del duce le piú volte appianano i tumori, ed è naufragio loro la loro calma? Qual di quella fu giammai la piú [p. 217 modifica] rabbiosa, che, tornando io dalle Spagne, suscitò le legioni del mio esercito contro di me? Quando, a voci unite ed alte richiedendomi, che o l’oro compensasse il sangue delle vene loro sparso, o ver la libertade conservasse in esse quel che ancora vi accoglieva, di mostrare ambivano, che in guerra il capo dalle mani piú dipende, che le mani non fan dal capo. Forse non aveano le mie genti d’ottimo sedizioso tutte quante le qualitá? Erano sí veterane, che le lor battaglie numeravan tutte le provincia dell’Occidente, e il combattere oggimai piú che il discorrere era lor natura; erano cosí feroci, che negli occhi loro, prima che sfoderar l’arme, io vagheggiava le mie vittorie; erano di tanto ingegno, che, venendo io meno, si saria veduto un glorioso esercito di capitani. E pure alla costante intrepidezza sol del mio volto, al fuoco generoso dell’ire mie, al congedo di spregevole da me lor dato, quasi i nervi delle destre e ’l filo delle spade fossero i miei occhi, e ch’io fossi possente a muoverle a mio senno, lor mal grado s’instecchirono, tremarono, si ammutolirono, si arresero, e di propria voglia confermarono non tanto le lor mani alle future imprese, ma alla punizion presente offersero le loro gioie. — Ed io (dirá Goffredo) con un sol baleno della maestá reale feci in guisa,

che il vulgo, che anzi irriverente, audace,
tutto fremer si udia di orgoglio ed onte,
e che ebbe al ferro, all’aste e alla face,
ch’il furor ministrò, le man sí pronte,
non osa, e i detti alteri ascolta, e tace,
fra timor e vergogna alzar la fronte,
e sostien, che Argillano, ancor che cinto
de l’arme lor, sia da’ ministri avvinto.

Direm dunque che si regga bene chi va a terra sí agevolmente? che sia buona un’ordinanza, che ad un tratto si disconcerta? Che indirizzati siano regolatamente verso il lor fine que’ voleri, che in un sol momento mutano in timor l’audacia, in debolezza la violenza, e in pusillanimitá l’orgoglio e la ferocia? —

Campioni troppo valorosi sono veramente questi: non pertanto io spero a cosí fieri incontri rimanere in sella, aitato da [p. 218 modifica] veritá. Il mutarsi facilmente da uno stato in altro, non è segno che non ben si governasse nel primiero quei che si muta. Non è egli retto maestrevolmente bel ginnetto, allor che sul suo dorso vola il cavaliere a far con la carriera prova grande in picciol cerchio della ruota della Fortuna? E pure un ben leggiero intoppo lui col suo rettore spesso avvolti in fascio getta sossopra. Anzi la facilitade, onde rimane spenta la sedizione e tornano i soldati all’ubbidienza del lor duce, fortemente prova ch’ella ottimamente reggasi mentre che dura. Perciocché i soldati in essa sollevandosi contro il lor duce, posti sono in un violento stato, essendo il naturale loro di star cheti e di buon grado sotto l’ubbidienza del capitano. Or egli è ben vero, che le cose in un violento stato lungamente durar non ponno, ma non è giá vero, che non possan per quel tempo, che vi durano, assai meglio reggersi da quel, che nello stato loro naturale mai non sarebbono. Nasce ciò da quell’istinto, ch’è incalmato in ogni cosa, di desiderare il proprio conservamento. Onde da’ pericoli maggiori, maggiore anche risvegliandosi la guardia nel pericolante, quindi avviene, che il violento stato, armando le sue forze contro l’esser della cosa, è cagione ch’ella per la sua salvezza ponga piú efficacemente in reggersi l’opra e ’l consiglio. Cosí nell’acqua, che non è sua naturale sfera, altri governa piede e braccia con piú fina regola di movimento, quando ei nuota, ch’ei non fa lunghesso l’acqua, quando ei passeggia. Cosí il funambolo quando egli balla sulla fune, libra se medesimo perfettamente, acciò né l’occhio, né la mano, né le membra tutte varchino un sol punto fuor del bilico; ma poi sceso sopra il suolo forma a caso, e senza esame alcuno, il passo. E pur né l’un né l’altro ponno dimorare in aria e in acqua lungamente, sí come in terra.

Ma mentr’io consento, che la sedizione è breve, troppo mal conseguirei quel titolo di veritiere, ch’è mio scopo, s’io soverchiamente nel trattarne mi dilungassi. Sta la veritá della scrittura in conformarsi alla natura della cosa, di cui si scrive. Perciò mi taccio.