Sulle frontiere del Far-West/CAPITOLO V - Una storia di briganti
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CAPITOLO V.
Una storia di briganti.
L’indian-agent era rimasto immobile a guardarlo allontanarsi insieme ad Harry, mentre Giorgio, armatosi del suo bowie-knife, intaccava a gran colpi le zampe deretane dell’orso, le quali dovevano fornire due squisiti arrosti.
Il brav’uomo pareva, come d’altronde gli accadeva sovente, un po’ preoccupato.
— Che cosa ne dici tu dunque, amico? — chiese finalmente allo scorridore della prateria. — Che uomo sarà quello strano individuo che io avrei desiderato non incontrare sul mio cammino? —
Harry scosse il capo, sputò in terra, spezzò una tavoletta di tabacco cacciandosene un pezzo in bocca, poi disse:
— Uhm!... Uhm!... Uhm!...
— I tuoi «uhm» non sono risposte.
— Che cosa diresti allora tu, camerata, che hai quindici anni più di me e che conosci la prateria da fanciullo?
— Uhm!... — fece a sua volta l’indian-agent, sorridendo. — Ti confesso che anch’io sarei imbarazzato a dire a che razza di furfanti appartiene quell’uomo.
Può darsi che sia un gambusino, poichè ne indossa il costume, ma ha per me tutti i tratti dell’indiano.
— Non fuggirebbe davanti all’insurrezione.
— Questo è vero, Harry.
— Che sia piuttosto qualche leperos messicano? Tu sai che fino a poco tempo fa i banditi erano ancora abbondanti nel Colorado.
— Sia quello che si vuole, lui è uno e noi siamo in tre e non avrà certo da scherzare con noi. D’altronde, a Kampa, se sarà possibile, ci sbarazzeremo di lui e lo manderemo a cercare miniere d’oro in California se.... —
L’indian-agent si era bruscamente interrotto, facendo un mezzo giro a sinistra.
Minnehaha si era lentamente avvicinata a loro e si era coricata fra le erbe, alla distanza di pochi passi, in modo da non perdere una sillaba di quello che i due scorridori della prateria dicevano tra loro.
— Che cosa fai tu qui, monella? — gridò l’indian-agent, aggrottando la fronte e facendo gli occhiacci. — Cercavi di sorprendere le nostre parole, forse?
— Hug!... — fece la fanciulla, alzando le spalle. — Minnehaha ascoltava il sussurrìo del torrente.
— Potevi andare più lontano.
— Hug! vado. —
Si strinse addosso il suo splendido mantello di lana di montone selvatico ed andò a coricarsi su di una roccia che il torrentaccio flagellava furiosamente.
John e Harry si erano guardati l’un l’altro.
— Ecco un ostaggio che ci darà, probabilmente, più fastidi che utili, — disse il primo.
— Lo credo anch’io, — rispose il secondo. — Questa piccina è un vero demonio e confesso francamente che certe volte i suoi occhi mi fanno paura. —
In quell’istante il gambusino si slanciò fuori dalla macchia, cavalcando il suo mustano bardato alla messicana, una bellissima bestia di razza andalusa, di statura piuttosto piccola, con criniera e coda lunghissime e gambe secche e nervose.
— È bene montato, — disse John. — Orsù, partiamo, giacchè gli Sioux non sono ancora scesi nella pianura.
Il colonnello Devandel darà molto da fare a quei selvaggi, nella gola del Funerale, anche se ha pochi uomini. —
Giorgio aveva staccato i due zamponi d’orso e li aveva appesi alla sella del suo cavallo. Era un vero peccato lasciare tanta carne squisita ai lupi della prateria, poichè quella d’orso può gareggiare con quella dei cinghiali; ma i fuggiaschi contavano di fare una sola nottata prima di dirigersi su Kampa, quindi dei viveri ne avevano in abbondanza, anzi più del bisogno.
— Siete pronti? — chiese John, dopo d’aver stretta qualche cinghia del suo cavallo.
— Tutti, — risposero Harry, Giorgio ed il gambusino.
— Tenete i rifles sempre a portata di mano e confidiamo nella nostra buona stella. —
I quattro cavalli, leggermente spronati, si misero in corsa, mentre subito calava, sulla carcassa ancora sanguinante del povero baribal, uno stormo di giganteschi avvoltoi neri per dare il primo assaggio. Le coyotes dovevano più tardi incaricarsi della fine.
La pianura che s’appoggiava sulle ultime appendici della catena dei Laramie, si svolgeva dinanzi ai cavalieri assai accidentata. Ora s’alzava in forti ondulazioni, coperte da immensi gruppi di quercie, di negundos aceroidi dal tronco altissimo, di ciliegi selvatici detti di Virginia, ed ora invece si abbassava bruscamente tutta foracchiata da occhi pieni d’acqua, circondati da cespugli di rose selvatiche e di sacarte, che sono certe specie di euforbie.
Di quando in quando, udendo il galoppo dei quattro cavalli, quantunque molto attutito dalle erbe, delle coppie di antilopi dalle coma forcute, della statura dei vitelli, però di forme più eleganti, sottili, slanciate, col pelame rossastro sopra e bianco sul petto e sotto il ventre, balzavano fuori dai cespugli e si allontanavano colla velocità del vento agitando le loro lunghe e sottilissime corna, oppure delle bande di scoiattoli prendevano la fuga, strappando a Minnehaha degli scoppi di risa che John non riesciva a reprimere.
La presenza di quella selvaggina era di buon augurio, poichè tutti gli animali della prateria temono l’indiano come la peste, sapendo ormai che è il loro peggiore nemico. Se qualche colonna volante, di Chayennes o di Arrapahoes, avesse fatta la sua comparsa in quei luoghi, non vi sarebbero rimaste nemmeno le gazze, mentre invece continuavano a gridare tranquillamente sulle più alte cime delle piante.
— Orsù — diceva l’indian-agent. — Tutto va bene. Se possiamo raggiungere le ultime corriere di Kampa saremo già quasi in porto. —
La corsa, non sempre furiosa, continuò fino dopo il mezzodì, senza cattivi incontri.
Volendo tenere i cavalli in buono stato, quantunque tutti resistentissimi, fecero una fermata d’un paio d’ore sgretolando alcune dure gallette di maiz che avevano portato dall’accampamento, alle quali il gambusino, pratico della terra, aggiunse delle kamas, delle kooyak e delle yampa, specie di cipolle che crescono allo stato selvatico e che sono eccellenti.
Quella sosta fu però interrotta dalla comparsa di un branco di lupi neri grossissimi ed anche audacissimi, i quali si misero subito dietro ai cavalieri, coll’evidente intenzione di aspettare la notte per tentare un attacco.
Anche quello era un buon segno, poichè perfino il lupo affamato evita l’indiano come se sapesse già che l’aspetterebbe, presto o tardi, una bella pentola colma d’acqua bollente; nondimeno i quattro fuggiaschi avrebbero preferito di non averli alle calcagna, poichè colle lugubri urla avrebbero potuto attirare l’attenzione dei nemici a due gambe, ben più pericolosi di essi in quel momento.
— Che ci mangino questa notte? — chiese Harry, scherzando, a John, che gli cavalcava a fianco.
— Sarebbero capaci di tentare il colpo se non avessimo un rifugio per attendere l’alba. Non so ancora come si troverà, nondimeno qualche sotterraneo ci deve esser rimasto, almeno quello dove i banditi furono arrostiti.
— Che cosa mi racconti tu?
— Per ora nulla: se saremo tranquilli ti narrerò un aneddoto interessante quando saremo intorno agli zamponi d’orso.
Veramente sono molti anni che non rivedo la Missione del Massacro, però non credo che gl’Indiani si siano divertiti a demolirla.
Non ci avrebbero trovato gusto.
— Saprai condurci?
— Un indian-agent ha la grande prateria ed anche la pianura sempre sulla punta delle dita, mio caro Harry. Ho servito come intermediario fra le pelli-rosse ed i trafficanti californiani e dell’Arkansas per vent’anni e non vi è luogo che non conosca.
— Mi stupisco però come tu sia sempre riuscito a salvare la tua capigliatura.
Ho udito raccontare che talvolta le pelli-rosse pagavano i negozianti di prateria con colpi di tomahawak invece che con pelli d’animali o con cavalli.
— Succedeva di frequente anzi, specialmente presso gli Apachi e gli Arrapahoes, i più intrattabili ed i più malfidi di tutti, eppure, come vedi, mercè il mio buon cavallo, la mia capigliatura si trova ancora, un po’ brizzolata è vero, sempre sulla mia testa.
Ohè, tuona ed il tempo torna ad oscurarsi. Avremo una cattiva notte, ma l’avranno anche gl’Indiani.
— Purchè non si rifugino anche essi nella Missione.
— Speriamo di no, — rispose John. — Affrettiamoci e cerchiamo di lasciare indietro anche questi lupi, i quali potrebbero, colle loro urla, attirare quelli a due gambe. —
Il tempo, come la sera precedente, si faceva brutto. Ormai tutta la catena dei Laramie, che prima, di quando in quando, appariva fra gli strappi delle foreste, era scomparsa sotto una massa enorme di nubi le quali tendevano ad abbassarsi verso la pianura e la grande prateria.
Sulle alte vette già il tuono brontolava ad intervalli, accompagnato da qualche livido lampo.
I fuggiaschi che non desideravano affatto trovarsi esposti, in piena pianura, alle furie di qualche tornado, avevano rimesso i cavalli in corsa.
Veramente i bravi animali, turbati dagli ululati di quella piccola banda di lupi neri, piccola per allora, ma che poteva diventare più tardi numerosissima, non avevano bisogno di essere aizzati.
Quantunque galoppassero da moltissime ore e non avessero ancora dormito, mantenevano una corsa gagliarda, facendo degli sforzi disperati.
Il sole era appena scomparso, quando le grandi macchie che coprivano la immensa pianura, cominciarono a contorcersi furiosamente con mille lugubri scricchiolii.
Il tornado che si era formato sulle montagne scendeva sulle sconfinate pianure, soffiando con forza inaudita.
— Ehi, John, — disse Harry, nel momento in cui cominciavano a cadere larghi goccioloni ed i lupi si spingevano più innanzi, come se temessero di perdere di vista i cavalieri — siamo ancora lontani da questa famosa Missione?
Le bestie si avanzano.
— Lasciale venire: fino a notte oscura non faranno nulla. Non sparare per ora. —
Harry stava per riappendere il rifle alla sella e cacciarlo dentro la guaina di pelle di montone, quando si videro i lupi, diventati ormai dieci o dodici, arrestarsi bruscamente.
— Che abbiano intenzione di cacciare qualche selvaggina più facile? — chiese lo scorridore all’indian-agent. — I bisonti ed anche le alci non devono mancare fra queste macchie.
— Non amano i rifugi, — disse John — se prima non li hanno esplorati.
— Allora siamo vicini alla Missione.
— Dovremmo esserlo: aizziamo i cavalli prima che il tornado non ci investa completamente. —
Le povere bestie continuavano a fare degli sforzi prodigiosi per mantenere un galoppo abbastanza vivace.
Si capiva però che non ne potevano più. Anche quello del gambusino, che doveva essersi riposato più degli altri, ansava affannosamente e rigettava sprazzi di schiuma in grande abbondanza.
Intanto la foresta diventava sempre più fitta e l’uragano aumentava di violenza.
I lampi, fortunatamente, si succedevano ai lampi, mostrando qua e là i passaggi, attraverso i quali i mustani si cacciavano con grande impeto, spronati dalle urla dei lupi non ancora cessate.
Già i rami cominciavano a contorcersi sotto le formidabili strette del tornado, quando alla luce d’un lampo apparvero dinanzi agli sguardi dei cavalieri delle muraglie foracchiate in mille luoghi, che s’appoggiavano ad un avanzo di campanile.
— La Missione del Massacro!... — esclamò John, allegramente. — Era proprio tempo che vi giungessimo!
— Che brutto nome! — disse Harry, facendo una smorfia. — Qui gl’Indiani devono aver commessa qualche grossa birbonata.
— No, i leperos messicani. Prendete i cavalli per le briglie e vediamo se possiamo trovare un asilo.
Giorgio, accendi una torcia di ocote. Uno scorridore ne possiede sempre nel suo sacco.
— Sì, John, — rispose il giovane. — Aspetta che siamo al coperto. —
Girarono intorno ad un avanzo di cappella diroccata, passarono attraverso due ampie porte che portavano tracce d’incendio e si trovarono nell’interno della Missione.
Il tetto era quasi tutto crollato e giaceva a terra in un ammasso di rottami impossibile a descriversi, però una parte aveva ancora resistito al fuoco ed alle intemperie e poteva bastare pei cavalli e per gli uomini.
Le pareti però, come abbiamo detto, erano in parte crollate e larghi vani s’aprivano, attraverso i quali s’ingolfavano gli sprazzi d’acqua, i soffi poderosi del tornado e potevano anche passare i lupi neri.
Giorgio aveva accesa la torcia la quale, essendo molto resinosa, aveva subito sprigionata una luce brillantissima.
— Il rifugio è malandato, — disse Harry — tuttavia è preferibile alla pianura. Almeno saremo al coperto.
— Si potrebbe scendere nel sotterraneo, — disse John. — È là dentro che noi sterminammo, dieci anni or sono, quelle canaglie di leperos messicani.
Scommetto che i loro scheletri si trovano ancora stesi sul pavimento.
— C’eri tu?
— Certo: ho guadagnato anzi, in quell’occasione, cento bei dollari.
Lasciamo andare per ora, e giacchè gl’Indiani non hanno pensato a rifugiarsi anch’essi qui, ed i signori lupi si sono arrestati al difuori, accendiamo un bel fuoco e prepariamoci la cena. —
Il legname non mancava poichè travi e travicelli e tavole si trovavano accumulate in gran numero insieme alle macerie.
I quattro uomini, dopo d’aver condotti i cavalli al riparo dall’acqua, accesero senza troppe difficoltà un allegro falò e misero ad arrostire uno dei due zamponi d’orso, essendo più che sufficiente per nutrirli abbondantemente, poi fecero un giro dietro le muraglie crollanti della Missione, temendo un improvviso assalto da parte dei lupi, le cui urla lugubri echeggiavano sempre nella vicina foresta, mescolandosi agli ululati del tornado ed agli scrosci della pioggia.
— Speriamo che ci lascino in pace, — disse John. — Forse non sono in buon numero e non si sentiranno l’animo di cacciarsi qui dentro.
Andiamo a sorvegliare il nostro arrosto e cerchiamo di passare la notte alla meglio.
Nemmeno i nostri camerati che accampano sulle montagne, si troveranno in migliori condizioni. —
Un profumo squisito si spandeva per la Missione, facendo urlare più forte che mai i lupi.
Lo zampone d’orso, infilzato nella bacchetta di ferro d’un rifle e sospeso su due branchi di legno, arrosolava magnificamente sopra le fiamme alimentate continuamente dal grasso che colava abbondantemente dalla cotenna e che disgraziatamente andava perduto.
— Dunque tu, John, sei stato altre volte qui, — disse Harry, mentre un colpo di tuono faceva cadere dall’alto qualche rottame. — Sono molti anni che questa Missione, la quale doveva essere abbastanza vasta, è stata distrutta?
— Come ti ho detto, dieci anni. Alcuni monaci messicani si erano prefisso di civilizzare le pelli-rosse del Colorado, e con grandi spese avevano eretto questa specie di convento.
Disgraziatamente in quel tempo vi erano, almeno da queste parti, più banditi messicani che indiani da catechizzare.
Si erano formate delle bande di leperos e di salteadores sanguinari, che davano dei grandi fastidi al Governo americano, poichè se la prendevano perfino colle corriere, portando via la posta e massacrando, senza misericordia, tutti coloro che tentavano di opporsi alla loro violenze.
— Io e Giorgio ne abbiamo infatti udito parlare, — disse Harry.
— Ed incolpavano poi, delle atrocità che commettevano, gl’Indiani, — aggiunse il gambusino, il quale si era seduto presso Minnehaha, stringendosele quasi addosso, come per proteggerla dai soffi impetuosissimi del tornado, i quali entravano da tutte le parti.
— È vero, — disse l’indian-agent — e molte povere pelli-rosse pagarono per quei banditi.
Il Governo americano avendo saputo finalmente che si trattava di una grossa banda messicana che operava sempre sulle frontiere e che appariva e scompariva con velocità fulminea, mercè la velocità dei suoi ottimi cavalli, arruolò una colonna di volontari per finirla e, come potete immaginare, amici, nella mia qualità d’indian-agent, mi arruolai volentieri.
Dopo un numero infinito di corse attraverso tutto il Colorado e l’Utah, ecco che un bel giorno veniamo informati che la terribile banda, che da tre mesi ci teneva in scacco, si era diretta verso questa Missione, coll’intenzione certo di saccheggiarla, perchè quei monaci godevano fama di essere largamente sovvenzionati da ricche e pie messicane.
Arriviamo a spron battuto e circondiamo l’edificio. I banditi erano già dentro e, senza perdersi d’animo, ci ricevono con un terribile fuoco di carabine che mette fuori di combattimento un buon numero dei nostri, i quali erano costretti a combattere all’aperto.
— Eravate almeno in molti? — chiese Giorgio.
— Un centinaio, agli ordini d’un certo capitano Mac Lelland, che credo non avesse paura nemmeno del diavolo zoppo, — rispose John. — Ma ecco che, dopo una buona ora, la fucilata cessa e più nessun rumore si ode nell’interno della Missione.
Gettiamo giù, a colpi di scure, una porta, decisi a sterminare quei banditi, e con nostro gran stupore troviamo in questo chiostro, se non erro, ventidue monaci stesi al suolo, colla bocca imbavagliata e le mani ed i piedi legati.
— Erano stati risparmiati? — chiese Giorgio. — Erano dunque qualche volta generosi quei terribili banditi?
— Aspetta un po’, curioso! — rispose John, facendo girare l’arrosto già quasi cotto. — Ci slanciammo su per le scale e dentro le celle in cerca di quelle canaglie e non trovammo che quattro o cinque morti, stramazzati dietro alle finestre.
Interrogati i monaci ci dissero che i banditi dovevano aver scoperto qualche passaggio segreto, noto solo al superiore della Missione il quale in quel momento, per nostra disgrazia, si trovava a catechizzare non so quale frazione di Chayenne.
Mentre cercavamo perfino nei sotterranei della chiesa, i monaci se n’erano andati dicendo di voler raggiungere al più presto il loro capo.
Nessuno aveva pensato a trattenerli, avendo trovate giustissime le loro ragioni.
Corpo di una pipa rotta!... Sapete chi erano?
— I banditi? — chiese Harry.
— Sì, amico. Quelle canaglie avevano massacrati tutti i monaci, li avevano accumulati in una cella che non fu scoperta che più tardi, avevano indossate le vesti dei religiosi, si erano legati l’un l’altro....
— E ve l’avevano fatta, — conchiuse Harry.
— Precisamente, — rispose l’indian-agent.
— Un tiro magnifico!... — esclamò Giorgio.
— Bellissimo davvero, — aggiunse il gambusino, che pareva s’interessasse molto di quel racconto.
— Che pagarono però, più tardi, caro, — disse John — poichè il capitano Mac Lelland aveva giurato di vendicarsi.
Per un paio di mesi quei banditi audacissimi non dettero segno di vita, poi gli assalti alle corriere furono ripresi, accompagnati da orrende stragi.
Nessuno sapeva dove si nascondessero, quando al capitano venne un giorno l’idea di fare una visita notturna a questa Missione, che era rimasta abbandonata alle coyotes ed agli avvoltoi neri, dopo il massacro dei monaci.
— Erano qui, ci scommetterei, — disse Harry.
— Hai indovinato, amico. Era una sera da lupi e nevicava sulla pianura, ma i cento uomini che formavano la colonna dei volontari, incoraggiati da un grosso premio se fossero riusciti a mandare al diavolo quei ladroni, non sentivano il freddo.
A mezzanotte eccoci qui. Dalle finestre non si vedeva luce, però facendo il giro dell’edificio scoprimmo i briganti rifugiati nel sotterraneo.
Non sospettando la sorpresa, mangiavano e bevevano allegramente intorno ad una gigantesca tavola, sicurissimi di non essere disturbati.
Fu intimata loro la resa e risposero a fucilate sparate attraverso a feritoie aperte appositamente a fior di terra.
Prendemmo d’assalto la scala e rotolammo dentro quanti fasci di legna vi potevano stare e poi vi attaccammo il fuoco.
Che spettacolo, miei cari!... Il sotterraneo fu ben presto tramutato in una fornace ed attraverso le feritoie noi vedemmo quelle canaglie spirare, una ad una, fra le ondate di fumo.
— Così minaccia di spirare anche il nostro arrosto se non lo divoriamo in fretta, — disse Giorgio, levandolo dal fuoco. — Un po’ che la storia si prolungasse e noi mangiavamo un tizzone.
A tavola, signori. —
Degli ululati spaventevoli risposero.
Dalle porte spalancate e dagli squarci delle muraglie, i lupi entravano cogli occhi fiammeggianti e le gole aperte, pronti ad assalire.
— Ecco degli invitati che non erano affatto desiderati, — disse John. — Se credono però di prendere parte alla cena s’ingannano.
Taglia l’arrosto, Harry, e fra un boccone e l’altro esercitiamoci al bersaglio. —