Sulle frontiere del Far-West/CAPITOLO IV - Le stragi del 1863
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CAPITOLO IV.
Le stragi del 1863.
Le incessanti invasioni dei forti pionieri americani che si spingevano senza posa verso l’est da un lato e verso l’ovest dall’altro, invadendo le terre ed appropriandosele, senza nemmeno chiedere il permesso ai legittimi proprietari del suolo, avevano ormai acceso nel cuore delle pelli-rosse un odio implacabile contro l’uomo bianco, che minacciava la distruzione della razza primitiva.
Le varie tribù, disseminate su quegli immensi territorî, già a varie riprese avevano cercato di opporsi colla forza alla marea bianca, provocando spaventosi massacri che i coloni americani pagavano carissimi.
Disgraziatamente, le varie tribù, se odiavano a morte l’uomo pallido, si odiavano pure fra di loro, ed invece di unirsi contro il nemico comune, si distruggevano allegramente per vendicarsi di torti veri od inventati, tanto per avere un pretesto per dissotterrare l’ascia di guerra ed abbandonarsi a feroci scorrerie.
Ma ecco che nel 1863, per la prima volta, le pelli-rosse comprendono finalmente che è giunta l’ora di darsi la mano, di obliare i rancori vecchi o recenti e di contrarre fra di loro delle alleanze.
«La prateria agl’Indiani!... — avevano detto. — L’uomo bianco finirà per spegnere la nostra razza e far morire di fame le nostre famiglie».
Era vero, poichè le continue invasioni dei coloni bianchi restringevano sempre più i territorî di caccia, i soli sui quali l’indiano poteva contare per vivere, non avendo mai saputo abituarsi a dissodare un pezzo di terra per piantarvi magari delle umili fave.
La selvaggina a poco a poco spariva: le immense mandrie di bisonti, che costituivano da sole, si può dire, il cibo delle tribù, diventavano di giorno in giorno più rade; i cervi, i daini rossi, i tacchini deliziosi che sfilavano un tempo a migliaia e migliaia, accennavano a sparire, e con loro anche le bande di cavalli selvaggi sulle quali l’uomo bianco non poteva avere alcun diritto.
I lamenti portati fino ai piedi del Presidente della grande Repubblica americana, ormai poderosamente affermatasi dopo le sue strepitose vittorie riportate sul Messico, erano rimasti senza risposta.
L’uomo bianco ormai considerava l’uomo rosso, legittimo proprietario del suolo, come un intruso destinato presto o tardi a scomparire.
In fondo non avevano torto i yankees, poichè non vi era alcun motivo di riserbare a poche centinaia di migliaia d’indiani dei territorî così vasti, che avrebbero potuto nutrire comodamente milioni e milioni di coloni.
Già sulle frontiere si era sempre combattuto, poichè l’uomo bianco non aveva usato nessun riguardo pel fratello rosso, che trattava peggio d’un popolo conquistato.
Di quando in quando delle colonne indiane, furiose di vedere avanzarsi da ogni parte il viso pallido, erigere delle fattorie e dissodare dei campi, erano piombate colla furia d’un uragano spaventoso su quegli audaci, massacrandoli sui loro posti e per di più scotennandoli, poichè ci tenevano a fare larga messe di capigliature per ornarsi i calzoneros, gli scudi, le lance, le tende.
I bianchi, di tratto in tratto, non avevano mancato di prendersi delle rivincite, gareggiando in ferocia coi loro avversarî, poichè non risparmiavano a loro volta nè le donne, nè i bambini.
Nel 1863 ecco una spaventosa levata di scudi sorprendere i pionieri. Tre nazioni, fino allora nemiche, gli Sioux, i più potenti di tutte le tribù del continente, i Chayennes e gli Arrapahoes, pure numerosi, avevano stretto un’alleanza che aveva un solo scopo: la distruzione dell’uomo bianco che aveva invaso i territorî di caccia posti al di qua dell’Arkansas.
La guerra era scoppiata come un colpo di fulmine, poichè nessuno ne era stato avvertito e le stragi erano subito cominciate con rabbia folle da parte delle colonne indiane che agivano al nord del Colorado, all’est del Kansas e sulle frontiere dell’Wyoming, dell’Utah e perfino della Nevada.
Convogli interi di emigranti, sorpresi nelle sconfinate praterie, erano stati massacrati; le corriere erano state assalite e bruciate insieme ai viaggiatori che le montavano; le fattorie arse, i campi devastati, tutto insomma era stato messo a ferro ed a fuoco da quei terribili cavalieri rossi che avevano una mobilità fantastica.
Il Governo americano, sorpreso da quello scoppio di furore che minacciava di arrestare l’emigrazione ormai non più possibile a trattenersi, aveva creduto dapprima di poterne avere facilmente ragione mandando alcune colonne di volontari, i quali invece non avevano tardato a scomparire dopo orribili combattimenti.
Solamente il colonnello Devandel, un veterano delle guerre indiane, era riuscito a sfuggire alle bande vittoriose, rifugiandosi coi suoi cinquanta uomini, che il Governo si era affrettato ad affidargli, sulle montagne del Laramie ove contava di chiudere il passo alle orde degli Sioux, in attesa che i volontari dell’Arkansas e di altri territori si organizzassero per tener testa all’uragano, che minacciava di far scomparire perfino l’ultimo colono stabilito al di là del Mississipì ed al di qua della frontiera Californiana.
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John Maxim ed i due scorridori della prateria, sapendo di potersi trovare, da un momento all’altro, di fronte a qualche colonna volante se non di Sioux, trattenuti forse ancora nella gola del Funerale dai rifles dei volontari, per lo meno di Chayennes, avevano tenuto un breve consiglio prima di decidersi sulla via da prendere.
Al nord si stendeva la grande pianura, che rasentava le montagne, ricca di erbe rigogliose che avrebbero fatto la fortuna di migliaia di allevatori di bestiame, ma cosparsa per lo più da folte macchie di boschetti cedui, di aceri, di noci, di quercie, di ontani, di piante del cotone che bagnavano le loro radici in numerosi torrenti; al sud invece si stendeva l’infinita prateria coperta d’immense graminacee, di girasoli, di artemisie, di gruppi di salvia, di menta, di asfodeli, di semprevivi campestri e di buffalo-grass, l’erba preferita dai bisonti.
Se la prima presentava dei pericoli per le imboscate, la seconda era egualmente pericolosa, poichè difficilmente tre cavalieri avrebbero potuto sfuggire agli sguardi acutissimi degl’Indiani.
— Preferisco la pianura, per ora, — aveva conchiuso l’indian-agent. — Avanzeremo fino all’altezza di Kampa, poi taglieremo la prateria per raggiungere le ultime corriere che devono ancora partire pel gran Lago Salato.
— Se gl’Indiani non le avranno già distrutte, — disse Harry. — I Chayennes devono essere, da qualche settimana, sul sentiero di guerra e non saranno rimasti inoperosi.
— Se non troveremo nulla continueremo coi nostri mustani, — aveva risposto l’indian-agent. — Forse sono da preferirsi alle corriere.
— Siamo d’accordo?
— Sì.
— Hallo per la pianura, dunque, — aveva detto Giorgio, il quale era impaziente di slanciarsi in mezzo alle macchie.— Almeno troveremo qualche orso o qualche truppa di tacchini selvatici che ci rimetterà delle eterne pagnotte di maiz ammuffito che abbiamo mangiato al campo. La montagna sarà bella, a chi piace, ma io preferisco le vaste pianure dove posso lanciare il mio mustano.
— Lancialo, fratello. —
Il giovane, all’invito di Harry stava per obbedire, quando il suo bellissimo e robusto cavallo, dalla magnifica coda, quantunque toccato vivamente dai giganteschi speroni messicani, di purissimo argento, fece uno scarto mandando un sonoro nitrito.
— To’! — esclamò Giorgio raccogliendo le briglie, mentre Harry e John staccavano rapidamente i rifles — ci deve essere qualcuno dinanzi a noi.
Il mio mustano è abituato a sentire il nemico.
Anche il mio non è tranquillo, — disse l’indian-agent. — Che le pelli-rosse siano così prossime? —
In quel momento un nitrito sonoro si fece udire dietro ad una macchia di noci nere costeggiante un torrentello, sulle cui rive passeggiavano gravemente, senza mostrarsi spaventate, delle sgarze dalle penne bianchissime e le zampe lunghissime.
L’indian-agent ed i due scorridori erano rimasti immobili, colle dita sui grilletti delle carabine, pronti a far fuoco, aspettandosi qualche spiacevole sorpresa.
Il nitrito si fece nuovamente udire, ma nessuno comparve.
— Se fosse un mustano selvatico, a quest’ora avrebbe già preso il largo, — disse John. — Giriamo la macchia ed andiamo a vedere. —
Stettero un momento in ascolto, poi si spinsero innanzi l’uno dietro all’altro, frenando i mustani che cercavano di deviare a destra od a sinistra, come se avessero fiutato qualche pericolo.
Le macchie diventavano, di passo in passo, sempre più folte, e mettevano a dura prova l’abilita dei cavalieri i quali erano costretti a far spiccare ai loro mustani dei grandi salti per evitare dei tronchi imputriditi, caduti qua e là in gran numero.
Ad un tratto il cavallone dell’indian-agent s’impennò improvvisamente, poi fece un brusco scarto.
Quasi nel medesimo istante un mustano, bardato alla messicana, con sella altissima e durissima e staffe corte e larghe, si slanciava fuori dalle piante con velocità fulminea, scomparendo quasi subito in mezzo ad una piccola foresta di ontani, i quali pareva che circondassero un gran numero di quei piccoli stagni chiamati occhi.
— Fermi!... — aveva gridato John, dopo d’aver tranquillizzato il suo cavallone, il quale continuava a dare segni di viva inquietudine. — Qui vi è qualcuno. —
Vedendo passare il mustano, uno strano lampo era balenato negli occhi neri e maligni della piccola indiana, ma dalle sue labbra non era uscita alcuna parola.
— Ehi, John, — disse Harry — ci capisci qualche cosa tu?
— Io veramente no: solo m’inquieta molto l’irritazione del mio cavallo.
— Anche i nostri non sono affatto tranquilli e parrebbero più disposti a scappare che ad avanzare, — disse Giorgio.
— Eppure noi non ce ne andremo se non scopriremo il possessore di quel mustano bardato alla messicana.
La prudenza non è mai troppa nella prate.... —
Un grido terribile gl’interruppe la frase, un grido che proveniva dal centro della macchia delle noci nere.
— Aiuto!... Aiuto!... —
Poi rimbombarono due spari, due colpi di pistola a giudicarne dal poco fragore.
— Avanti, camerati!... — urlò John. — Si assassina qualcuno!... Ah, cani d’Indiani!... —
I tre cavalli, spronati vivamente, partirono al galoppo girando intorno alla macchia e si arrestarono sulle rive d’un torrentaccio, mandando dei nitriti di spavento.
In mezzo all’acqua, immerso fino alla cintola, un uomo alto, magro, lottava disperatamente contro un baribal, ossia un orso nero, il quale doveva averlo assalito mentre stava dissetandosi.
I baribal, o muskwa, come vengono chiamati dagl’Indiani, non sono così terribili come i grizzly, ossia orsi grigi, i quali per ferocia tengono il primato fra tutti i plantigradi, nondimeno sono egualmente pericolosi specialmente quando sono affamati, poichè se vivono di bacche, di miele ed anche d’insetti, non sdegnano la carne umana.
Sono bestioni, d’altronde, che nessuno desidererebbe incontrare sul suo cammino: lunghi due metri, e qualche volta anche di più, alti un metro dalla spalla, col pelame tutto nero, lucente come raso.
Dotati d’una forza muscolare straordinaria, afferrano il cacciatore e gli spezzano le costole e la spina dorsale senza alcuna fatica. Hanno poi, all’occorrenza, dei denti formidabili e delle unghie, che sebbene sovente smussate, cagionano delle ferite spaventose e quasi sempre inguaribili.
L’uomo che era stato assalito, aveva gettato via le pistole, diventate ormai inutili, e si difendeva disperatamente con un lungo ed affilatissimo machete, avventando colpi disperati in tutte le direzioni.
Indietreggiava dinanzi all’incessante incalzare del gigantesco avversario il quale, ritto sulle zampe deretane, cercava di afferrarlo; e si trovava in una condizione estremamente pericolosa, anche perchè il fondo del torrentaccio doveva essere sparso di pietre.
Una caduta, ed era irremissibilmente perduto.
L’indian-agent ed i due scorridori della prateria avevano mandato tre grida altissime, con l’intendimento di richiamare su di loro l’attenzione del bestione.
Il baribal era tanto inferocito contro il disgraziato che gli aveva sparato addosso e che probabilmente lo aveva ferito più o meno gravemente, che non si era nemmeno accorto dell’arrivo dei tre cavalieri.
Udendo però quel triplice urlo volse la testa e spalancò la bocca, digrignando poscia i denti.
Con un’agilità che non si sarebbe mai supposta in quel corpaccio imbottito di grasso, balzò sulla riva del torrentaccio e galoppò, con un’audacia incredibile, contro i nuovi avversari, mandando urla feroci.
Pareva che avesse preso di mira il cavallone dell’indian-agent, poichè fu il primo ad essere assalito.
John non era però un uomo da lasciarsi sorprendere, nè da perdere la sua cavalcatura, troppo preziosa nella prateria.
Abbassò il rifle che impugnava colla mano destra e lo scaricò nelle fauci aperte del bestione, facendogli inghiottire ad un tempo il piombo, lo stoppaccio, la fiamma ed anche il fumo.
Il baribal, colle mascelle fracassate, la bocca piena di sangue, rimase un momento come istupidito e fu la sua perdita, poichè anche i due scorridori della prateria, quantunque avessero un gran da fare a tener fermi i loro mustani, avevano fatto fuoco.
Le due detonazioni furono seguite da un urlo spaventoso che coprì per qualche istante lo scrosciare delle acque del torrentaccio, poi il baribal, tenendosi sempre ritto sulle zampe deretane, indietreggiò di alcuni passi, scuotendo la testa che non si sapeva più ormai che cosa fosse, quindi ruzzolò al suolo, allungandosi tutto.
Le mascelle, quasi completamente staccate, si alzarono un momento con uno strano ed impressionante scricchiolio, poi, dopo un sussulto, la massa s’irrigidì vomitando sangue a catinelle.
— È morto!... — gridò Harry, il quale si trovava più vicino. — Aveva il diavolo in corpo questo animalaccio? Ho ucciso altri orsi, ma mai ne ho affrontati di così feroci.
— A terra!...— aveva comandato John.
Legarono i cavalli e si diressero verso il torrentaccio, giungendovi nell’istesso momento in cui approdava lo sconosciuto che per poco non aveva servito di colazione all’orso.
Come abbiamo detto, era un uomo alto, magro, nè vecchio nè giovane, quantunque la sua fronte avesse già delle profonde rughe, ancora saldo in gambe e certamente dotato d’una forza poco comune.
Quantunque indossasse il pittoresco costume dei gambusini messicani, ossia dei cercatori d’oro, che consumano la loro esistenza nel cercare senza posa delle miniere che poi difficilmente lavorano, si sarebbe stati assai imbarazzati a dire a quale razza appartenesse.
Aveva bensì in testa il berretto tondo di pelle di castoro, col lungo pelame ricadente sugli òmeri: indossava la vistosa casacca di cotone azzurro stretta ai fianchi da una cintura di pelle di daino ed abbellita da cordoni di vario colore; di sotto portava un paio di mitasseass, ossia di calzoni di pelle non conciati che si affondavano in due mocksens indiane, specie di uose ricamate e dipinte per difendere le gambe dalle spine; tuttavia lasciava molti dubbi sul suo vero essere.
Si sarebbe detto che apparteneva alla razza indiana pura piuttosto che alla meticcia, poichè la sua pelle era oscura con delle sfumature rossastre assai rilevate, i suoi capelli erano lunghi, nerissimi e grossolani, il suo naso aquilino, gli zigomi assai sporgenti e gli occhi piuttosto obliqui come quelli della razza mongola ed un po’ cisposi.
Aveva pero conservata un po’ di barba radissima e non si era strappate le sopracciglia come usano i pelli-rosse.
— Buon giorno, signori, — disse, salendo rapidamente la riva col machete ancora in pugno e grondando acqua da tutte le parti. — Vi devo la vita.
— Bah!... — rispose John, alzando le spalle. — Nella prateria si usa aiutarsi gli uni gli altri e difendersi contro i nemici a due o a quattro gambe.
Siete un cercatore d’oro? Almeno il vostro costume lo indicherebbe se non il vostro viso.
— L’avete indovinato, signore, — rispose lo sconosciuto, con voce gutturale. — Sono uno di quegli uomini che dedicano la loro esistenza alla scoperta delle miniere d’oro.
— Senza quasi mai farle lavorare, — disse l’indian-agent, con accento un po’ ironico. — È vero che la prateria accoglie nel suo seno avventurieri di tutte le specie. —
Il gambusino alzò le spalle e fissò per un istante i suoi occhi sulla piccola indiana, la quale stava sempre dietro John, comodamente seduta sul largo dorso del cavallone.
Un lampo si sprigionò dai loro sguardi, ma si spense prima che i tre scorridori della prateria avessero potuto sorprenderlo.
Minnehaha però, che stava nascosta dietro l’indian-agent, aveva risposto con un sorriso.
— Di dove venite? — chiese John.
— Dalla montagna, — rispose il gambusino.
— Dai Laramie?
— Sì, señor.
— E non vi hanno scotennato gli Sioux?
— Se vi dicessi che non mi hanno dato una lunga caccia vi direi una bugia, però non è cosa sempre facile raggiungere un gambusino che conosce tutti i più piccoli passaggi della montagna e della prateria.
Scommetterei la mia capigliatura contro il vostro mustano, che voi facevate parte del gruppo di volontari delle frontiere che il colonnello Devandel aveva ammassati all’uscita della gola del Funerale, per impedire agl’Indiani di scendere nella prateria.
Mi sono ingannato?
— No, — rispose l’indian-agent. — Mi stupisce come sapendo che noi, Americani, ci trovavamo lassù, abbiate girato al largo invece di offrire al colonnello il vostro rifle.
— Dato il mio colore avrebbero potuto, i volontari, scambiarmi per un indiano e mandarmi, come tale, a trovare il Grande Spirito e le sue meravigliose praterie che non desidero affatto di vedere, almeno per ora.
— Avete ragione: quando una palla parte non si sa dove va a finire.
Dove vi recate ora?
— Fuggivo dinanzi all’insurrezione dei pelli-rosse.
— Senza una mèta?
— Un cercatore d’oro non ne ha mai. E poi ora non si tratta che di serbare la mia pelle, e quello che più m’importa, la mia capigliatura.
E voi, dove andate, se si può saperlo?
— A Kampa, — rispose John. — Cercheremo di unirci alle ultime od all’ultima corriera in partenza pel Lago Salato.
Anche noi fuggiamo. —
Il gambusino lo guardò, sorridendo un po’ ironicamente.
— Dei soldati fuggire! — disse poi. — Dite piuttosto che siete incaricati di qualche importante missione.
— Può darsi, — rispose, asciuttamente, l’indian-agent. — Volete venire con noi?
— Certamente, se non vi rincresce.
Avete veduto delle colonne indiane ronzare da queste parti?
— Nessuna finora: io credo che i Chayennes e gli Arrapahoes non si moveranno se prima non scenderanno dai Laramie gli Sioux.
Può darsi però che qualche colonna volante batta la prateria.
— Vi siete rimesso dal vostro spavento?
— Le commozioni non fanno presa su di me, — rispose il gambusino, il quale, di quando in quando, lanciava sempre di sfuggita degli sguardi rapidissimi su Minnehaha, tosto ricambiati.
— Tornerà il vostro cavallo?
— È troppo affezionato al suo padrone per abbandonarlo.
— Andate a cercarlo, mentre noi staccheremo un paio di zamponi d’orso che serberemo pel pranzo.
— Partiamo subito?
— Abbiamo molta fretta. Non ci fermeremo che alla Missione del Massacro, per passare la notte.
Spero che rimarrà ancora ritta qualche muraglia o che troveremo qualche tettoia.
— Sta bene, — rispose il gambusino, colla sua solita voce gutturale. — Fra cinque minuti sarò di ritorno col mio mustano e col rifle che ho lasciato stupidamente appeso alla sella. —
Scambiò colla piccola indiana un ultimo sguardo, impugnò il machete e si gettò in mezzo alla macchia mandando dei sibili acutissimi.