alla latitudine delle isole Canarie, e parlato con lui due o tre volte, la sera. Era sui trentacinque, ma d’aspetto più giovane: un viso di primo lavorante sarto, con due baffetti biondi arricciati all’insù, e due occhi che dicevano continuamente: — Sono io! — : pronuncia di maniera, passo da conte d’Almaviva, vestito dei fratelli Bocconi. Egli guardava l’orizzonte con aria trionfante come se l’oceano atlantico fosse un’immensa platea che lo chiamasse alla ribalta. E trinciava di geografia, di letteratura, d’arte, di politica, con una certa disinvoltura volpina, andando sempre lì lì per dire uno strafalcione, ma ritenendosi sempre in tempo, dopo aver dato un’occhiata diffidente al conlocutore. In letteratura e in politica usava d’un artifizio curioso. Tutt’a un tratto, senza alcun appiglio con la conversazione, esclamava solennemente, con l’occhio fisso all’orizzonte: — Guglielmo Shakspeare!, — e si passava una mano sulla fronte, come se seguisse il corso d’una meditazione muta; ma niente: non era altro che un nome che gli veniva su, come una bolla d’aria. Oppure, cadendo il discorso sopra un personaggio storico, su Napoleone I, per esempio: — Ah! — sclamava, torcendo il viso; — non mi parli di Napoleone I, per l’amor del cielo! — come