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Nelle acque del nemico

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[p. 267 modifica]NELLE ACQUE DEL NEMICO.

Maggio.


Sulla rotta tracciata dal primo cacciatorpediniere, gli altri, appena visibili, filano guidati dal biancore delle scie, e pare che la squadriglia navighi sopra una strada di fosforescenza gettata attraverso alla notte profonda. La luna sottile, discesa al tramonto, si è nascosta dietro a neri ammassi di nuvole che ergono sulle onde fantastici aspetti di isole lontane.

Fra quelle parvenze di isole una strana luce improvvisa si accende e chiama per un momento ogni sguardo. La luna ha trovato un piccolo vano fra le nubi e mette un rossore di bragia all’orizzonte. Poi si immerge e si spegne, inguainando nel mare la lama incandescente del suo arco a scimitarra. Nel cielo fattosi più cupo le stelle si ravvivano, come se un soffio fosse subitamente passato sul loro fuoco azzurro.

Somiglia un po’ al loro chiarore, la luce celestina e pallida che le lampade colorate spandono nelle profondità della nave. Lo scafo sembra invaso da una irradiazione siderea, della quale nessun barlume filtra all’esterno. Per [p. 268 modifica] tutto, avvolti da un’afa grassa, uomini e macchine si muovono in questa specie di crepuscolo livido, che rivela appena le cose e le scolora. Soltanto un angolo del battello è ostinatamente deserto, tutto inondato dallo scialbo riflesso che non serve a nessuno. È il locale degli alloggi, a poppa, dove la nave guerriera confina modeste eleganze da abitazione. Sembra lontano, dimenticato, pieno di un freddo di solitudine, invaso dalla melanconia dei luoghi abbandonati. Chi vi si inoltra incespica nelle pieghe dei tappeti sollevati, perchè sotto ai tappeti si apre la botola rotonda di una santa barbara, e urta contro teste cariche di siluri e cofani di munizioni ammassati presso la scaletta degli ufficiali. E nulla più di questa assenza di vita dove la vita di navigazione si rifugiava più lietamente, dà l’impressione profonda del riposo bandito, della perpetua veglia delle armi.

Gli ufficiali vivono con l’equipaggio e come l’equipaggio. Mangiano quando possono, in fretta, sul ponte di comando o nel casotto di navigazione, al bordo del massiccio tavolo delle carte nautiche, fra sestanti ed altri strumenti di misurazione, la gola cinta dal collare di salvezza, il binocolo appeso al petto, vestiti di cuoio. E dormono in ogni angolo, dietro ad una manica a vento od una ciminiera, o sulla plancia, sdraiati in una sedia pieghevole che scricchiola al rollìo. [p. 269 modifica]

La notte è calma, ma il mare è inquieto per qualche vecchia burrasca, e delle grandi ondate silenziose, pigre, lisce e profonde, che nessun vento sospinge, afferrano la prora, senza urti, salgono lungo il taglio, si affacciano oscillando al bordo e passano, gonfie, dense. Il cacciatorpediniere beccheggia. Il terribile carico che la squadriglia porta rende le navi più sensibili al mare. Le pesanti torpedini destinate allo sbarramento del porto nemico, disposte in fila lungo le murate, gravano alte sui fianchi e diminuiscono la stabilità del battello.

Il beccheggio non è così rude da scuotere le torpedini, ma esse sono tenute d’occhio. Può avvenire che delle oscillazioni troppo profonde sforzino il cavo che assicura la mina, ed essa, sciolta, minacciosa e inafferrabile, rotoli via per scoppiare ed annientare tutto al primo urto violento sulle soprastrutture. È uno dei pericoli preveduti. La vita di una nave può dipendere dalla resistenza di una corda metallica. Non sono viaggiatrici comode le torpedini.

Bisogna essere sempre pronti a disfarsene se il mare ingrossa o se il nemico attacca. Il battello che le porta non è mai completamente sicuro di loro. Neanche dopo averle gettate. Perchè tendono allora a venire addosso. Si avvicinano traditrici e subdole, portate dal gorgo, e cercano di legare l’elica col loro cavo di ancoraggio. Se vi riescono, la nave è perduta. [p. 270 modifica] La mina avvinta si precipita sotto la poppa e scoppia. Così qualche posa-mine può essere distrutto. Occorre una manovra speciale per sventare il colpo. Le torpedini sono belve spaventose e maligne delle quali bisogna saper prevedere la rivolta.

Dei marinai specialisti, i bestiarii, vanno da una all’altra, palpano gli appoggi, tastano i cavi per sentire se agguantano sempre solidamente. Intanto il mare si va calmando, ed una brezza leggera e fresca lo rompe. È segno che la terra si avvicina. Infatti, l’ordine è dato di armare le mine. I bestiarii, cautamente, compiono delicate manipolazioni sui mostri. Ne preparano il risveglio, li rendono sensibili.

Senza che nessun comando si sia udito, come per una intesa tacita, tutto l’equipaggio è tornato ai posti di battaglia. Nel buio, gli apparecchi di mira dei cannoni, illuminati da lampade invisibili, rilucono lievemente e pare che veglino. Si intravvedono dietro ai pezzi affollamenti oscuri. Ingrossati dalle larghe cinture di salvataggio, coperti delle ampie tuniche incerate da burrasca, i marinai hanno nell’ombra sagome bizzarre, inumane, tozze ed informi. Stivalati di gomma muovono passi senza rumore sull’acciaio quadrigliato della coperta. Non si sentono venire e passano vicino come fantasmi.

Il ponte di comando, tutto chiuso, avviluppato dalle grosse reti para-schegge fatte di canapi intrecciati, ha una non so quale aria di [p. 271 modifica] trincea, di una trincea pensile appoggiata all’albero di prua e sorvegliante il mare da feritoie vetrate. Vi penetra appena un riflesso di stelle. Soltanto nella chiesuola della bussola un chiarore scende sul quadrante, e fa pensare alla luce agonizzante di una lampada votiva nel tabernacolo di un tempio. Su quella luce il timoniere, fermo alla ruota, tiene fisso lo sguardo. Vicino a lui, ufficiali e nocchieri, immobili al parapetto, scrutano il mare. Da alcuni minuti si naviga nelle acque del nemico.

Dovrebbe essere vicina la terra austriaca. Ma nulla appare nella profondità tenebrosa dell’orizzonte, sulla quale si indovina l’agitazione sterminata delle onde come una moltitudine oscura e vivente. Nulla vi appare, ma le pupille attente e stanche tutto vi scorgono. Sono profili vaghi di monti che si trasfigurano, parvenze evanescenti di isole, ombre che ondulano, masse che navigano, fluide allucinazioni che sorgono nella notte troppo guardata, finché, gli occhi affaticati si chiudono per un istante. Al riaprirli la distesa delle acque si rivela deserta. Nessuna terra ancora.

Da un momento all’altro sarà in vista. Si aspetta per un tempo enorme, per delle epoche che l’orologio, faticosamente decifrato, misura soltanto come minuti. I minuti tuttavia passano: cinque, dieci, dodici, quindici.... Nessuna terra. E si ha improvvisamente l’impressione assurda che la costa si ritragga, che fugga [p. 272 modifica] come nei sogni. Tutto è incerto, tutto è ombra, tutto prende aspetti di irrealità, e ci si adatta all’inverosimile, all’impossibile, al fantastico. Inutile guardare: la terra fugge. Fugge come il sinistro scoglio di Koroshima che nella leggenda giapponese salpa una volta all’anno, nella notte consacrata ai morti del mare, e naviga seguito da una flotta disalberata e funerea di giunche naufragate, i cadaveri delle navi che morirono su di lui.


È necessario avvistare le coste nemiche da più lontano che sia possibile, per riconoscerle in tempo. Non vi sono più fari, non vi sono più luci di guida sui mari in guerra, nulla conforta la rotta, tutte le rive sono spente, e non v’è certezza che nella loro visione. Una inesattezza della bussola, una deviazione incalcolabile dalla linea di percorso, possono condurre fuori dell’atterraggio stabilito, e bisogna potere individuare di colpo i luoghi avvicinandoli, saper dare subito un nome ad ogni altura, ad ogni punta che emergeranno confusamente nel buio. Finché non ha visto, la nave si sente un po’ sperduta, diffidente, incerta. Più la terra tarda a mostrarsi e più sorgerà improvvisa e vicina, contornata di scogli, piena di insidie sulle quali si può giungere prima di riconoscere gli errori.

La voce calma del comandante, il cui profilo marinaro, sereno e impenetrabile, si [p. 273 modifica] intaglia sul cielo stellato, dà ordini flemmatici e brevi: «Che stiano attente le vedette alla coffa!». — «Avvertite in macchina che non facciano scintille!» — e di tanto in tanto chiede al timoniere il grado di rotta. L’uomo dice una cifra. Il raggio di una minuscola lanterna cieca si accende in fondo alla plancia e passa lentamente sopra un candore di carte: l’ufficiale di rotta, curvo sopra una tavola, la lanterna alla mano, verifica i tracciati. Il raggio si spegne. Un silenzio profondo e grave. Lassù non arrivano il rombo dei motori e il frastuono delle eliche. Sale solo il rumore delle onde come uno scroscio di torrente. L’attesa ha nella plancia una solennità di meditazione.

Ad un tratto uno dei cannonieri aggruppati intorno al pezzo di prua lascia il posto di corsa. Sale velocemente la scaletta del ponte di comando, sporge la testa all’interno dagli ultimi gradini e avverte: «Un isolotto a prora, cinque gradi a destra, distante mezzo miglio». Detto questo sparisce. Il timoniere riceve un ordine e muta la rotta. Si sente l’inclinarsi lento della nave che accosta a sinistra. L’isolotto annunziato passa lontano, invisibile. La scia traccia un grande arco sul quale le unità della squadriglia si snodano come i grani di un collare. Dalla coffa una vedetta chiama al portavoce: «Terra a sinistra, a quaranta gradi dalla prora!». Per qualche attimo balena ancora la lanterna cieca sulla carta e illumina delle dita [p. 274 modifica]che scorrono. Tutto va bene. La terra è riconosciuta. La nave vira ancora. Si è orizzontata, ha capito, è sicura. Ha riconosciuto la strada.

Dopo qualche minuto la terra nemica appare a tutti gli sguardi. È una striscia lunga, incerta, nuvolosa. Sembra uno di quei folti strati di fumo che i piroscafi lasciano all’orizzonte quando la calma è assoluta. A poco a poco un’altra massa fosca appare sulla destra. Trascorre qualche tempo, ed ecco che da ogni parte, lontana e vicina la terra emerge, bruna, fatta d’ombra. Isole di oscurità, imprecise barriere di tenebre si formano successivamente a chiudere il passo. Alcune si spostano più veloci, si precisano, pare che vengano in avanscoperta, passano sul fianco. Altre tenui, brumose, vaghe, si schierano nella lontananza. La squadriglia naviga ora nelle acque interne di un arcipelago, penetra nei rifugi più nascosti del nemico. Il mare si è fatto quieto come un lago.

Vien fatto di guardare alle terre con l'attenzione di chi scruta una mossa, quasi che fossero loro ad aggirarsi intorno alla nave ferma, e si sentisse una volontà impenetrabile in quelle forme giganti. Un baleno azzurro brilla per un attimo in qualche punto alto dell’attrezzatura del cacciatorpediniere. È un segnale agli altri. La squadriglia rallenta. Fende l’acqua quasi senza rumore. Deve passare a qualche miglio soltanto da una punta fortificata. Eccola. Si [p. 275 modifica] direbbe di udire lo sciabottìo delle piccole onde lente là sugli scogli. Tutto è buio a terra. Mentre la nave sta contornando il capo, una eruzione di faville sfugge dalle ciminiere. Pare un fuoco d’artificio.

È terribile ma non c’è rimedio. Le macchine hanno di questi capricci. Più i fuochisti, avvertiti, tentano di impedire il formarsi delle scintille modificando la ventilazione, e più esse irrompono turbinose nell’aria tracciandovi magnifici fasci di fili luminosi e serpeggianti. Impossibile che laggiù le sentinelle non vedano.

Debbono vedere tutta questa polvere di luce che guizza sul mare. L’allarme nemico è imminente. Da un istante all’altro un proiettore austriaco accecherà la nave.... No, non vedono. Non hanno visto. Tutto è sempre buio a terra. La squadriglia passa. Passa e gira. La punta si allontana a sinistra.

Un’altra fosca massa di alture si avanza. È quasi un’ora che le navi italiane rasentano le coste austriache in passaggi tortuosi che si sarebbero detti inviolabili. Ma navi e terre pare che si intendano nella notte. La squadriglia ha l’aria di affidarsi alla protezione silenziosa di queste sponde velate piene di mistero. Si direbbe che esse guardino sul mare, che riconoscano, che sappiano, e che scivolino lentamente sulle acque a fare scorta come una flotta favolosa di montagne vigilante ed amica. [p. 276 modifica]

Una profondità diafana si apre: una specie di rada. Qualche luce punteggia confusamente l’orizzonte ad una lontananza imprecisabile. Laggiù è il porto che la squadriglia è venuta a sbarrare. Laggiù sono le navi che bisogna rinchiudere. È l’istante di gettare le mine.

Il cacciatorpediniere di testa fa un altro segnale di luce: Pronti! Il secondo ufficiale scende in fretta dal ponte di comando per dirigere la manovra. I prolungamenti a cerniera delle rotaie, alle quali stanno fissate le torpedini sono abbassati e sporgono sull’acqua. Non v’è più che da tirare successivamente delle piccole leve per liberare ad una ad una le formidabili macchine. Si sta per compiere una delle più singolari e pericolose operazioni di guerra. Navigando in linea di fila, ogni unità della squadriglia deve lasciar cadere a distanze eguali le sue mine in modo da finire dove la nave che procede ha cominciato. Una distanza mal calcolata, un errore di manovra, un ritardo nell’inizio, e fatalmente il battello andrà sulle mine già disposte avanti a lui. Si rasenta la catastrofe. Nella pupilla del comandante si decide della vita e della morte.

Una tromba suona un colpo sommesso che non potrebbe essere udito a cento metri: Attenzione! Tutte le facoltà si tendono. Delle squadre aspettano dietro alle prime mine. Niente si muove. Passano pochi secondi: uno stridìo [p. 277 modifica] del telegrafo senza fili lancia una lettera dell'alfabeto. È il segnale di esecuzione. Un fischio di comando: Giù!

Il breve gesto di una mano: la prima torpedine è sganciata. È libera. La massiccia e torva mole cilindrica oscilla per un attimo, si stacca lenta, rotola pesantemente sulle brevi rotaie con una risonanza metallica e cupa, arriva sul vuoto e per un istante imponderabile sembra indecisa. Subitamente salta e precipita di traverso nell’acqua: un tuffo, uno spiascìo di spruzzi, un allargarsi di spume che si allontanano. La massa è sparita, ma subito dopo qualche cosa affiora lontano: la sfera esplosiva.

Perchè la sfera carica, la vera mina, era dentro al pesante cilindro di acciaio — che costituisce l’àncora — come un arancio incastrato in un bicchiere. Nell’acqua le due parti si separano: l’àncora discende e la mina galleggia. Fra le due un cavo si svolge e, quando l’àncora è a pochi metri dal fondo, per un congegno speciale il cavo cessa di scorrere e la mina è trascinata sotto alle onde, a livello di agguato.

Ogni cacciatorpediniere ha lasciato al medesimo momento la sua prima mina. L’ufficiale che dirige l’operazione conta a bassa voce i secondi di intervallo: «Uno, due, tre....» Sembrano lenti, lenti.... Un fischio. La seconda mina rotola e piomba.

Fischi e tuffi si succedono così regolari. Le squadre di uomini alla manovra si alternano [p. 278 modifica] rapide e silenti da torpedine a torpedine. Un trillo più lungo annunzia la fine. Non sono trascorsi due minuti in tutto. Due minuti sono bastati per sbarrare il passo, per tendere nel mare una catena di morte lunga varii chilometri.

S’intravvedono le prore delle altre navi convergere, affiancarsi, avanzare di fronte sfuggendo alla zona minata. E tutto ad un tratto riprende il rombo più violento dei motori che scuote lo scafo; le macchine salgono alla potenza massima; la scia si gonfia bianca e tumultuosa come una cateratta, e lungo i fianchi del battello il mare solcato con impeto solleva due muraglie liquide, nere, fuggenti, striate dalla veemenza.


La missione è compiuta. Bisogna non lasciarsi cogliere da sorprese fra le insenature e i canali interni. La folla addormentata e prodigiosa delle isole, dei promontorii, degli scogli, scorre, ripassa, ma diversa, irriconoscibile sotto aspetti nuovi. Sembra un’altra. Delle luci brillano improvvisamente basse sopra una riva. Il cannocchiale le rivela per finestre. Un paesello forse che si sveglia. Ecco il mare aperto. Le ultime terre si ingolfano nelle tenebre, sfumano all’orizzonte, e insensibilmente la nave comincia ad esser presa da ondate più profonde, le ondate del largo.

Un’ora dopo le vedette segnalano la [p. 279 modifica] presenza di navi sulla rotta. Una vivida luce di meteora immediatamente balena all’orizzonte, ha brevi intermittenze, si spegne. Anche la squadriglia è scorta. La luce, un raggio di proiettore, ha lanciato una interrogazione sul mare.

Ha lanciato una parola d’ordine. Le flotte alla notte si riconoscono così. Bisogna, interrogati, sapere la controparola o fare a cannonate. Il cacciatorpediniere sa la controparola. Le navi sulla rotta si sono rivelate per le unità di appoggio distaccate per portare aiuto alla squadriglia in caso di combattimento. Un getto di luce candida palpita a prora e risponde.

Dopo un po’ i due proiettori ricominciano a parlare: «Avete eseguito?» — chiede la meteora lontana. — «Sì». — «Congratulazioni». L’oscurità squarciata un momento dalle parole lampeggianti si richiude. All’oriente le stelle impallidiscono.

«Pari di guardia!.... Pari di guardia!» — il secondo nostromo passa ed avverte. Una metà dell’equipaggio torna a sdraiarsi sul ponte. I pari di guardia asciugano la rugiada sui cannoni.