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nelle acque del nemico 277


del telegrafo senza fili lancia una lettera dell'alfabeto. È il segnale di esecuzione. Un fischio di comando: Giù!

Il breve gesto di una mano: la prima torpedine è sganciata. È libera. La massiccia e torva mole cilindrica oscilla per un attimo, si stacca lenta, rotola pesantemente sulle brevi rotaie con una risonanza metallica e cupa, arriva sul vuoto e per un istante imponderabile sembra indecisa. Subitamente salta e precipita di traverso nell’acqua: un tuffo, uno spiascìo di spruzzi, un allargarsi di spume che si allontanano. La massa è sparita, ma subito dopo qualche cosa affiora lontano: la sfera esplosiva.

Perchè la sfera carica, la vera mina, era dentro al pesante cilindro di acciaio — che costituisce l’àncora — come un arancio incastrato in un bicchiere. Nell’acqua le due parti si separano: l’àncora discende e la mina galleggia. Fra le due un cavo si svolge e, quando l’àncora è a pochi metri dal fondo, per un congegno speciale il cavo cessa di scorrere e la mina è trascinata sotto alle onde, a livello di agguato.

Ogni cacciatorpediniere ha lasciato al medesimo momento la sua prima mina. L’ufficiale che dirige l’operazione conta a bassa voce i secondi di intervallo: «Uno, due, tre....» Sembrano lenti, lenti.... Un fischio. La seconda mina rotola e piomba.

Fischi e tuffi si succedono così regolari. Le squadre di uomini alla manovra si alternano