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Squadriglie in missione

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Lettere dal mare - La guerra all’invisibile Lettere dal mare - Nelle acque del nemico

[p. 254 modifica]SQUADRIGLIA IN MISSIONE.

Maggio.


Il giorno è vicino alla fine quando il primo cacciatorpediniere della squadriglia, mollati gli ormeggi, scivola via dolcemente nelle acque calme del porto, verdi, oleose ed opache. Dalla plancia di un incrociatore ancorato, al quale passa sotto bordo, gli segnalano a bandiera: «Buona fortuna!». Un quarto d’ora dopo tutta la squadriglia, varcati gli ultimi sbarramenti, naviga a velocità calcolata verso la sponda nemica. La costa appena lasciata appare già lontana.

Il sole discende dietro a basse nuvolaglie affocate come il fumo di un incendio, fra le quali filtrano raggi obliqui che sfiorano in certi profili di monti remoti sommersi in nebulosità violacee e accese. La riva dilegua a poco a poco ai limiti dell’orizzonte entro brume di porpora. Nella sua direzione il mare, imbevuto dei riflessi del tramonto, è percorso da irrequieti bagliori come se la stessa terra italiana fosse fatta di luce e si specchiasse nei flutti.

Doppie vedette sono salite alle coffe e, dai [p. 255 modifica] posti di manovra, gli equipaggi sono passati silenziosamente ai posti di combattimento. Si attraversa la zona degli agguati.

Una volta, nella buona vecchia guerra, almeno si salpava sicuri. Ora le acque territoriali sono fra le più minacciose. In esse spesso il pericolo aspetta al varco. È in prossimità delle coste avversarie che i sommergibili si mettono alla posta. Vanno fra due acque sulle rotte obbligate del nemico. Infestano gli approcci dei porti.

Di tanto in tanto si segnala l’apparizione fuggitiva di un periscopio nelle vicinanze di un ancoraggio. Le torpediniere escono come segugi alla caccia, ma lo squalo di acciaio sparisce facilmente nelle nostre acque torbide. Sono pochi giorni che un sottomarino nemico è andato a urtare in un apparecchio draga-mine. Poco dopo, una nave in partenza, passando in quella zona, vide il solco bianco di un siluro sfiorarle il fianco. Quasi tutti i siluramenti avvengono così, in vista della terra. Anche della terra nemica, perchè la partita è resa con generosità. Se si segnassero sulle carte i punti dove le navi sono affondate, si vedrebbe come essi si addensino in determinati raggi di disastro che hanno per centro un porto. Si sta assai più tranquilli navigando al gran largo, sul mare profondo.


Doppie vedette, dunque, e tutte ai posti di [p. 256 modifica]combattimento. L’armamento di bordo è come una molla tesa al punto di scatto. I puntatori sono alla mira, i serventi dietro ai pezzi scrutano il mare, e i cannoni carichi, girando con lento moto sulle imperniature lucenti, allungano di traverso ai bordi le loro gole snelle come pennoni. I primi cofani di proiettili sono già sul ponte, aperti, legati alle attrezzature per non rovesciarsi al rollio, e dal piccolo boccaporto rotondo delle munizioni spuntano a raso il suolo le teste dei portatori che aspettano e guardano anche loro il mare, attenti, tenendosi afferrati al bordo di ferro della loro buca che ha tutta una orlatura di grosse dita. I tubi lancia-siluri hanno girato sulla corona in posizione di lancio. Sul castello di prua un marinaio è disteso, bocconi, il mento proprio sul taglio, e guarda lontano con occhi fermi, chiari, impassibili come due lenti di binocolo. È uno specialista in avvistamento di periscopi.

La squadriglia fila verso le ombre del levante, verso i grigiori plumbei che annunziano la notte. Da quella parte il mare è già illividito e spento, e nella incerta luce il cavo delle onde disegna oblunghe figure nerastre e mobili, precise talvolta come uno scafo sottile che emerga e che navighi. Ma non inganna lo sguardo dei marinai. Improvvisamente però tutti hanno quel piccolo sussulto che indica il tendersi subitaneo e acuto della vigilanza. È un istante. Vicino, a sessanta metri, [p. 257 modifica] un dorso lucido, oscuro e veloce, è apparso a fior d’acqua.

I marinai lo riconoscono subito, e ridono: un delfino. Nei primi tempi della guerra avrebbe provocato forse un colpo di cannone. L’anno scorso una famiglia di narvali superbi, indifferente alle lotte umane, si era imprudentemente stabilita nelle vicinanze di una nostra rotta. Ha avuto un’esistenza molto agitata. Allora il mare appariva ancora pieno di cose ignote. La vigilanza lo rivelò. I marinai lo guardarono con occhi nuovi. Lo avevano tanto visto che non l’avevano mai osservato. Sapevano affrontarlo, attraversarlo, combatterlo, ma non ne conoscevano la vita profonda, gli aspetti mutevoli, le forme fuggenti, tutto quello che vi appare, che vi affiora, che vi nuota. A furia di interrogarlo si è svelato; l’acqua narra i suoi misteri, dice se una cosa lontana oscilla inerte od ha una volontà, se è parte di un gran corpo immenso o se galleggia tutta; e ogni moto, ogni oscillazione, ogni colore, ogni spumeggiamento, racconta le sue ragioni alla vedetta silenziosa.

E poi, anche il sommergibile nemico è diventato familiare, è stato visto in tutti i modi, in tutti i tempi, se ne conoscono le abitudini e il carattere, si sa che è presuntuoso, timido, traditore e curioso. Curioso come una femmina. Ha bisogno sempre di metter fuori quel suo occhio fantastico, che va sull’acqua come [p. 258 modifica] la punta dell’albero di una nave affondata ed in moto come una nave fantasma che viaggi dopo il naufragio. Quante cacce gli hanno dato i nostri, e non tutte inutili. Più volte hanno visto venir su dal fondo a fiotti il sangue della bestia, la nafta nera.

Di notte, emerso, il sommergibile si scambia per uno strano veliero. Un veliero nero, insolito, misterioso, lontano, veloce, che tanti naufraghi di navi silurate hanno creduto di veder apparire come uno di quei battelli della leggenda annunziatori dell’ora suprema. L’albero è il periscopio, e la vela di randa è la torretta trapezoidale, larga alla base. Vi sono epoche in cui con maggiore frequenza le nostre crociere notturne intravvedono il fatale veliero. Allora è l’hallali della caccia. Le siluranti si slanciano, la forma nera affonda veloce, i piccoli calibri abbaiano, le bombe subacquee gettate dove il sommergibile è scomparso sollevano enormi gonfiori d’onda, segnali luminosi balenano, un tumulto immenso è sul mare, e delle veementi scie candide che passano sull’acqua buia indicano che la belva si difende fuggendo. Strana guerra.

Il combattimento si sveglia così da un istante all’altro, imprevedibile, fulmineo, in qualunque punto, ed ogni colpo che si sferra è così terribile che la nave che fosse toccata sarebbe annientata. Un’esplosione, una colonna d’acqua, un gorgo. Certo sono ben rari i colpi che [p. 259 modifica]toccano. La lotta è concitata e cieca. Ma in questa guerriglia feroce la sorte non concede che una alternativa: o l’incolumità o la scomparsa.

Combattono in simili incontri immense potenze distruttive su piccoli scafi; tutto è all’offesa e niente alla difesa. La salvezza è nella rapidità dell’attacco o della fuga. Ci si cerca o ci si attende con le armi pronte: chi è il primo a vedere o a sentire, sull’acqua o sotto l'acqua, domina la situazione. L’occhio per le siluranti e l’orecchio per i sommergibili possono decidere dell’imminente destino. Vi è il fascino truce di un giuoco mortale. Certe azioni di guerra prendono l’aspetto favoloso di un gigantesco duello all’americana che abbia il mare per campo.

La vigilanza sui mari arriva così all’intensità della vigilanza in trincea, dove il nemico è a pochi metri e rampa. Ogni uomo è una vedetta sui cacciatorpediniere che navigano nella sera verso l’«altra sponda».


Ma la squadriglia è fuori ormai dalla zona degli agguati, fuori delle rotte battute. Una metà degli equipaggi smonta di guardia e lavora alacre in silenzio alla luce del crepuscolo. Gli uomini vanno e vengono col loro passo molle e senza urti, si aggirano fra cose informi nell’ombra, spariscono rapidi nei boccaporti angusti, preparando tutto quello che può [p. 260 modifica]servireal combattimento notturno. Serpeggiano ora sulla coperta i cordoni elettrici che portano luce alle mire dei cannoni, una luce lieve come una fosforescenza di lucciola.

Dritto a poppa persiste nel cielo e nel mare un estremo chiarore del giorno, e viste dalla nave in testa della squadriglia le altre si profilanosottili, precise e nere, come sospese su quell’ultimo pallore del tramonto. Gli uomini di guardia sono rimasti immobili appoggiati alle volate dei pezzi. Il telefonista di ogni cannone conserva sul capo la sua cuffia feltrata simile ad un casco. Ogni affaccendamento si quieta sul ponte vibrante e sonoro. Nessuno più si muove. Accoccolati a gruppi qua e là, al riparo dal vento, i marinai liberi dalla guardia aprono scatole di conserve e divorano con lieto appetito le loro razioni. Qualche risata si leva; delle voci conversano sommesse. Nessuno parla della missione che si va a compire laggiù, all’altra parte del mare.

Gli equipaggi non sanno dove le loro navi vadano. Capiscono che «si va là». Basta. Il resto non li interessa. Il viaggio non ha per loro niente di straordinario. Non hanno fatto altro da quando è cominciata la guerra. Sono stati per tutto: avanti a Trieste, avanti a Pola, avanti a Cattaro. Hanno percorso e ripercorso tutti i meandri dell’arcipelago Dalmato. Hanno abbattuto semafori, distrutto stazioni radio telegrafiche, troncato cavi [p. 261 modifica]sottomarini. Hanno esplorato le acque ostili fin sui campi di mine. Sono andati a cercare i sommergibili in tutti i probabili rifugi, fra le isole, in certe insenature tortuose dalle quali bisognava districarsi a marcia indietro come un’automobile in un tourniquet. Inseguendo il nemico sono arrivati una volta sotto ai cannoni dei forti.

Le squadriglie di siluranti nostre hanno fatto di tutto: scortato, vigilato, perlustrato, cannoneggiato, sempre in moto, lanciate spesso in servizii arditissimi che la tattica moderna affida di preferenza all’aeroplano. Se sui banchi di torpedini qualche unità rimane; se degli uomini sono spazzati via dalle tempeste: è la guerra. Ma gli equipaggi si sentono oscuramente i dominatori e i guardiani di questo mare che percorrono tutto senza tregua, mentre dietro alle loro incessanti crociere s’intrecciano sicuri e soli i grandi traffici della Patria in lotta.

Sentono il possesso. Anche nel combattimento l’istinto di una padronanza li anima; loro sono i cacciatori e gli altri la selvaggina una selvaggina che può azzannare ma che fugge. Le navi nemiche, il tipo «Huszar», il tipo «Tatra», il tipo «Novara».... le hanno incontrate tante volte, ma non c’è verso di raccorciare le distanze con loro, se il caso non le mette in dieci contro uno. Fanno bene del resto. Fuggire se non si è in dieci contro uno [p. 262 modifica]e accorrere quando non c’è nessuno a bombardare in fretta una città indifesa si chiama ora fare la guerra logica. Adesso sul mare è buona strategia la prudenza. È sorta la scienza dello star rinchiusi e del non esser visti. Le nostre squadriglie la ignorano.

Abbiamo bisogno di questo mare, e lo teniamo. Lo teniamo nelle condizioni più sfavorevoli, senza porti, senza approdi, di fronte ad un nemico che ha tutte le difese, tutti i rifugi. Ma lo teniamo; ed eserciti serbi e montenegrini, forze nazionali e forze alleate, carichi di armamenti e di rifornimenti, convogli e convogli, folle di navi con la nostra bandiera hanno avuto il passo libero, a poche ore da formidabili basi nemiche, in virtù di questi marinai che portano incessantemente le loro navi da caccia a tracciare con le loro scie una rete d’interdizione lontano verso le coste nemiche, e che non domandano mai dove si va.

Pensano questa sera che forse vi saranno delle cannonate da sparare e poco importa la latitudine e la longitudine. Hanno una fiducia devota nel comando e una confidenza appassionata nella nave. Parlano dell’uno e dell’altra come di esseri prodigiosi. Sul cacciatorpediniere capo squadriglia, e forse anche sugli altri, l’equipaggio è da sei anni immutato. Battello e uomini hanno finito per formare una cosa sola, con un’anima sola, fiera, tranquilla, sicura. Artiglieri e cannoni, macchinisti e [p. 263 modifica] motori, elettricisti e dinamo, nocchieri e timone, non sono più che degli organismi pensanti, docili, esatti, poderosi.


Ma se non sanno dove vanno, gli equipaggi sanno bene che cosa vanno a fare. Quello sì. Per due giorni hanno lavorato ai preparativi di una missione poco ordinaria. Delle grosse chiatte hanno portato sotto bordo strani oggetti che le gru hanno issato con infinite cautele sul ponte. Erano enormi cilindri di acciaio, oscuri e tozzi, cavi, complicati, che pesavano quasi una tonnellata ognuno. Sembravano delle botti bizzarre, traforate in parte, formate da varii pezzi incastrati. Rotolandole adagio adagio le hanno disposte lungo i bordi, una vicina all’altra. Assestate su rotaie con prolungamenti a cerniera, che abbassati sporgono sull’acqua, sono state fissate con cavi di acciaio, tesi da martinetti e messi in modo da poter essere sciolti immediatamente alla trazione di un gancio a leva. «Bene — hanno detto i marinai nel loro gergo. — Questa volta andiamo a portare i regali!»

Non si sa come, da sponda a sponda, attraverso il mare delle notizie arrivino. È forse un periscopio in agguato che vede, è forse la cifra di un radiotelegramma che parla nel segreto del gabinetto criptografico: non si sa. Ma delle notizie arrivano, dei movimenti nemici trapelano. Sono informazioni vaghe, incerte, [p. 264 modifica] voci monche e misteriose che lasciano supporre più che sapere quello che avviene lontano. In seguito ad una di queste, la spedizione si è mossa.

Bisogna tentare di chiudere un certo ancoraggio nemico e bloccarvi delle forze navali discesevi ultimamente dal nord. Si tratta di andare a distendere nella notte formidabili sbarramenti di mine a portata di batterie. Il carico greve issato così delicatamente a bordo della squadriglia è un carico di torpedini.

Esse nereggiano affiancate lungo i bordi. Le loro lugubri masse si allineano nell’oscurità, indefinite. Sono grandi, gonfie, ingombranti; chiudono quasi il varco fra la prua e la poppa; passando, ad ogni colpo di rollio si è gettati sulle mine e si è costretti ad appoggiarsi al loro dorso ricurvo e freddo. Sono disarmate, ma la mano, toccandole, si tiene leggera e pavida, con un senso quasi di ribrezzo. Incutono un orrore vago e istintivo. Si ha l’impressione che dormano e che si possano svegliare. E presso alle moli inquietanti si scivola guardinghi, con una cautela che somiglia al rispetto. Esse hanno una indefinibile e terribile personalità; dominano la nave con una non so qualesinistra potenza, sopita e viva. Ogni unità della squadriglia porta di che distruggere una flotta.

Le nubi che velavano il tramonto sono salite diradandosi in una moltitudine di cirri [p. 265 modifica] diafani che pomellano il cielo, e la falce sottile della luna al primo quarto fugge perdutamente dietro a loro e li sbianca. La notte è fresca. Tutto è bagnato sopra coperta come se piovesse. Le attrezzature, i cannoni, le zattere di salvezza, le torpedini, ogni cosa suda grosse gocce di rugiada. Nella guazza i marinai che non sono di guardia dormono profondamente.

Hanno gonfiato i loro collari pneumatici di salvataggio trasformandoli praticamente in cuscini, e avvolti nelle coperte da campo o nelle tuniche incerate sono andati a rannicchiarsi un po’ per tutto, fin sotto ai tubi lancia-siluri. Si intravvedono appena. Non si può muovere passo senza toccare col piede corpi sdraiati insensibili agli urti. Gli uomini di guardia non si sono mossi. Vien fatto di scambiarli spesso con parti inanimate della nave. Con un bisbiglio calmo, di tanto in tanto, scambiano fra loro osservazioni brevi: «Guarda sotto la stella....» — «Dove?» — «A dieci gradi del traverso di prua....» — «Niente.» — «Doveva essere l’ombra d’una nuvola».... Il fuoco di una sigaretta palpita in un angolo buio.

Si è estinto ogni rumore umano. Lo scroscio impetuoso delle acque solcate, che bianche di spuma fuggono vertiginosamente lungo i bordi, il soffio sonoro dei ventilatori che empie le larghe gole delle maniche a vento, il rombo dei motori al quale la nave trema tutta, il [p. 266 modifica] battito delle eliche, lo strepito del timone, formano un tumulto profondo ed eguale, compongano una voce di furore. Si direbbe che nella notte quieta il battello porti con sè, dentro di sè, la bufera, che vada impetuoso, tutto buio nel buio, pieno di tempesta. Gli altri cacciatorpediniere che seguono non sono più che delle ombre sopra un biancore di scie.

È l’ora del cambio. Non suona più la campana dei quarti. Il secondo nostromo, imbacuccato nel pastrano da pioggia, va presso ai dormienti, da gruppo a gruppo, si china e avverte: — «Impari di guardia!» — Gli uomini si scuotono. «Mettersi le cinture di salvataggio! — aggiunge il nostromo. Più lontano la sua voce ripete: «Impari di guardia.... Cinture di salvataggio....»

L’oscurità si fa più profonda. Dall’orizzonte tenebrato si vedono arrivare in continua e solenne successione cupe ondate senza spuma, lunghe, lente, pesanti.