Storie fiorentine dal 1378 al 1509/XII
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XII.
El re Carlo partito da Pisa, come di sopra è detto, e presa la volta di Firenze con animo pessimo, e, come fu opinione, con disegno di saccheggiare la cittá, avendo inteso la mutazione dello stato e come tutto el popolo in sulla cacciata di Piero aveva prese le arme ed ancora non le posava, e presentendo essere uno popolo grandissimo, non solo cominciò a credere di non potere sforzare e saccheggiare la cittá, ma ancora a dubitare che, entrando in Firenze, el popolo che era in sull’arme non gli facessi villania; e per questo, fermo per la via, mandò a fare intendere che el desiderio suo era entrare pacificamente nella cittá, ma che avendo nello esercito suo gente assai e di varie lingue e nazione, ed avendo inteso el popolo nostro essere in sulle arme, dubitava non nascessi qualche disordine, e però soprasederebbe tanto el popolo si disarmassi, per potere amichevolmente e sanza tumulto venire in Firenze. La quale cosa sendogli detto si farebbe, se ne venne a Signa, e quivi alloggiato in casa Batista Pandolfini, stette molti di aspettando la terra si posassi bene, e cosí ordinando drappi e veste per cavalli ed uomini sua, per fare una ricca e magnifica entrata nella cittá; e nondimeno avendo quasi levato el disegno del saccheggiare la cittá, e vòlto l’animo a trarne piú somma di danari potessi, mandò per Piero de’ Medici, stimando che lui per rientrare nella cittá avessi a fargli partiti grandissimi, o almeno essere un bastone da fare alzare e’ cittadini per schifarlo. Era Piero, quando uscí di Firenze, fuggito a Bologna, e di quivi andato a Vinegia; dove avendo avuto questa richiesta del re, desideroso da un canto di andare, da altro dubitando che el re per danari non lo rivendessi a’ fiorentini, ne prese consiglio con viniziani, e’ quali gli augumentorono questo sospetto e lo persuasono non andassi, mossi non per credere che cosí fussi lo utile di Piero, ma perché dubitorno che questo non avessi a essere instrumento al re Carlo di disporre di Firenze a suo modo e di farsene signore; la qual cosa, nonostante lo odio ci portano, sarebbe loro dispiaciuta, perché el re non pigliassi tante forze in Italia, che loro e gli altri avessino a stare seco. Sendo soprastato el re a Signa molti dí, dove continuamente e per tutta la via prima aveva la cittá mandato molti imbasciadori a onorarlo, entrò in Firenze in domenica a dí... di [nov]embre.
La quale entrata fu sí magnifica ed onorevole e bella cosa, come alcuna altra sia stata in Firenze è giá gran tempo. Non mancorono dal canto della cittá tutti quegli onori si potevano fare a un tanto principe: andorono a incontrarlo a cavallo moltissimi giovani vestiti riccamente con livree; andòvi tutti gli uomini di qualitá: la signoria, secondo la consuetudine, a piè insino alla porta a San Friano; in Santa Liperata, dove prima aveva a smontare, tutti gli apparati si potevano farvi: ma la magnificenzia e suntuositá grande fu dal canto del re. Entrò in Firenze con tutto lo esercito armato: prima le fanterie a fila coll’arme in asta, balestre e scoppietti, de’ quali gran parte e quasi tutti erano svizzeri; di poi e’ cavalli e gli uomini di arme tutti armati, cosa bellissima a vedere pel numero, per la presenzia degli uomini e per la bellezza delle arme e de’ cavalli, con ricchissime sopraveste di drappi e di broccati d’oro; in ultimo el re tutto armato sotto el baldachino, come vincitore e triunfatore della cittá, cosa in sé bellissima ma poco gustata, per essere gli uomini pieni di spavento e di terrore. Usò un segno di umanitá, ché volendo la signoria, secondo si costuma quando entra nella cittá papa, imperadori o re, pigliargli la briglia del cavallo, non volle in modo alcuno acconsentire. Venne con questa pompa dalla porta a San Friano nel Fondaccio e Borgo San Iacopo, e quivi passato el ponte Vecchio, per porta Santa Maria ne andò in piazza, e di poi a Santa Liperata ed a casa Piero de’ Medici, dove gli era parato lo alloggiamento. Cosí tutti e’ soldati sua a cavallo ed a piè furono alloggiati per la cittá e compartiti per le case de’ cittadini, cosa insolita a loro che gli solevano mandare e distribuire a casa altri, non tenergli nelle loro.
Stette el re in Firenze..... giorni, e ristrignendosi la pratica dello accordo, dimandava el dominio della cittá, dicendo fra l’altre ragione, apartenersegli secondo gli ordini di Francia, per essere entrato armato nella cittá; dimandava la ritornata di Piero. Nelle quali cose sendo ostinatissimi e’ cittadini, mandorono in sulle poste a Milano Bernando Rucellai, perché el duca intendessi queste cose, pensando, come era vero, gli avessi a dispiacere che el re pigliassi piede in Firenze: e però el duca commisse a el conte di Gaiazzo ed a messer Galeazzo da Sanseverino, che erano per conto suo drieto al re, che si ingegnassino levarlo da queste dimando, e favorissino con ogni sforzo la causa della cittá.
Stettono le cose piu di in questi dibattiti, e la cittá si trovava in gran timore per non essere e’ cittadini assueti alle arme e vedersi in corpo uno esercito potentissimo; da altra parte e’ franzesi vedendo el popolo essere grande, ed intendendo come nella cacciata di Piero tutto el popolo al suono della campana grossa aveva preso le arme, e che el contado farebbe quel medesimo, temevano assai faccende guardie ed usando diligenzia grande non si usassi campane, in modo la paura era divisa; e benché due o tre volte si levassi romori per la terra, ed e’ franzesi corressino alle arme, nondimeno, perché erano nati per paura, non si procedé mai piú oltre.
Erano Francesco Valori, Piero Capponi, Braccio Martelli e parecchi altri cittadini deputati a praticare col re, e sendo in sul formare le composizioni, portorono al re una bozza de’ capitoli, ne’ quali la cittá sarebbe convenuta; e non gli piacendo, lui dette loro un’altra bozza, secondo la quale voleva farsi lo accordo; dove sendo cose molto disoneste, Piero Capponi presala, animosissimamente la stracciò in presenzia del re. soggiugncndo che poi che e’ non voleva accordarsi, le cose si terminerebbono altrimenti, e che lui sonerebbe le trombe, e noi le campane; parole certo d’uomo grande ed animoso, sendo in casa d’un re di Francia barbaro ed altiero, e dove era pericolo che e’ fatti bestiali non seguitassino le parole stizzose. Di che el re e gli uomini sua impauriti, vedendo tanto animo e dubitando giá innanzi del numero del popolo e della campana grossa, al suono della quale avevono inteso fra la cittá ed e’ luoghi vicini armarsi piú che trentamila uomini, si commossone forte, in modo che è opinione, per quelle minaccie lasciate le dimande disoneste, venissi alle condizioni dell’accordo piú ragionevoli. Finalmente doppo molti dibattiti, si fece conclusione con lui a dì ... di dicembre 1494; la quale si stipulò in Santa Liperata, presente el re e la signoria e tutto el popolo, giurando lui personalmente in sulla pietra sacrata dello altare maggiore la osservanzia di detti capitoli. Contrassesi amicizia, pace, confederazione e lega fra ’l re di Francia e noi, secondo la forma generale delle altre leghe, amici per amici ed inimici per inimici; con condizione che la cittá pagassi per e’ danni ed interessi al re Carlo ducati centoventimila d’oro, de’ quali avessi a avere di presente cinquantamila innanzi partissi della cittá, gli altri settantamila in due paghe, in termini diversi benché corti; el re avessi a tenere per sua sicurtá, durante la guerra e la impresa del reame di Napoli, le fortezze di Pisa, di Livorno, di Pietrasanta e di Serezzana, lasciando nondimeno el dominio ed el governo de’ corpi delle terre, come era innanzi alla passata sua, a’ fiorentini; finita la impresa di Napoli, fussi obligato restituirle liberamente e sanza eccezione alcuna.
Fatto l’accordo e numerati ducati cinquantamila, el re fra due dì partì di Firenze, ed andonne alla volta di Roma per seguitare la impresa sua; e come fu partito, sendo la cittá disordinata, si volsono gli animi a riformare lo stato, e sendosi fatta una bozza da’ primi del governo, de’ quali massime erano capi Tanai de’ Merli, Piero Capponi, Francesco Valori, Lorenzo di Pierfrancesco, Bernardo Ruceliai, fattasene conclusione, si sonò a parlamento, nel quale furono con concorso grande approvati e’ modi ordinati, che furono in effetto: che e’ si cassassino gli otto della pratica ed e’ settanta; facessisi uno squittino della signoria, di tutti e’ magistrati ed offici drento e di fuori, el quale finito, ogni cosa si traessi a sorte; e per fare tale effetto e’ presenti signori e collegi avessino subito a eleggere venti accopiatori, che avessino a fare detto squittino in termine di uno anno, e tanto durassi lo uficio loro, ed in detto tempo loro avessino a eleggere la signoria a mano; dovessino detti accopiatori essere di etá di anni quaranta, da uno in fuora, el quale potessi essere eletto eziandio di minore etá, che fu fatto perché Lorenzo di Pierfrancesco ne potessi essere, e cosí si levassi el divieto a Francesco dello Scarfa gonfaloniere di giustizia, di potere essere accopiatore; non si pagassino piu le gabelle di monete bianche; creassinsi e’ dieci di balia per potere attendere alla guerra di Pisa, con la consueta autoritá secondo gli ordini della cittá, l’uficio de’ quali durassi mesi sei. Fatto el parlamento sanza tumulto, furono l’altro di eletti e’ venti uomini che furono questi: messer Domenico Bonsi, Ridolfo di Pagnozzo Ridolfi, Tanai de’ Merli, Piero Capponi ed Antonio di Sasso, Bardo Corsi, Bartolomeo Giugni, Niccolò di Andreuolo Sacchetti, Giuliano Salviati ed Iacopo del Zaccheria, Francesco dello Scarfa, messer Guidantonio Vespucci, Piero Popoleschi, Bernardo Rucellai e.... Francesco Valori, Guglielmo de’ Pazzi, Braccio Martelli, Lorenzo di Pierfrancesco e... Maravigliossi la brigata che in questa elezione fussi rimasto adrieto Paolantonio Soderini, sendo uomo di grande autoritá e stato urtato da Piero de’ Medici, e fu attribuito fussi stato Piero Capponi, el quale poteva assai ed era inimico suo; in modo che si disse poi publicamente che per questo sdegno Paolantonio, per mutare lo stato, persuase a fra Girolamo, e lo adoperò per instrumento a predicare, si facessi el governo del popolo. Furono di poi creati e’ dieci, Piero Vettori, Piero Corsini, Paolantonio Soderini, Piero Guicciardini e Piero Pieri, Lorenzo Morelli, Lorenzo Lenzi, Francesco degli Albizzi, Iacopo Pandolfini e Lorenzo Benintendi.
Creoronsi ancora gli otto di balia nuovi, Guido Mannelli, Andrea Strozzi ed altri; e’ quali dell’entrate delluficio spesono tanto in conviti che per questo furono di poi pubicamente chiamati gli otto godenti.
Creati questi magistrati, fu impiccato, per satisfare al popolo, alle finestre del Bargello, Antonio di Bernardo, el quale era savio uomo, e delle cose del Monte ed altre entrate della cittá intendeva tanto quanto si poteva intendere, ed ancora rispetto al potere ed autoritá che aveva, era stato netto uomo; ma l’avere lungo tempo maneggiato uno uficio in sé odioso, aggiunto allo essere non di casa nobile, che gli dava tanto piú invidia, ed alla sua natura rozza, che era, da chi aveva a fare seco, imputato a superbia e crudeltá de’ poveri, lo avevano tanto messo in odio della moltitudine, che non si poteva sfamare del sangue suo. Cosí si disegnava fare di ser Giovanni delle riformagione, el quale era in odio grandissimo, ed anche non molto d’assai uomo: ma fra Girolamo lo scampò, gridando in pergamo che non era piú tempo da giustizia ma da misericordia: e fugli perdonato la vita e confinato nelle carcere di Volterra in perpetuo, donde parecchi anni poi fu cavato ed assoluto interamente.
Erano nella cittá molti che arebbono voluto percuotere Bernardo del Nero, Niccolò Ridolfi, Pierfilippo, messer Agnolo, Lorenzo Tornabuoni, Iacopo Salviati e gli altri cittadini dello stato vecchio; alla quale cosa si opponevano molti uomini da bene, massime Piero Capponi e Francesco Valori, parte mossi dal bene publico perché in veritá si sarebbe guasta la cittá, parte dal privato loro. Perché sendo loro naturalmente ed e’ maggiori loro amici della casa de’ Medici, e che nel 34 avevano´ rimesso Cosimo, dubitavano che spacciati gli altri dello stato vecchio, e’ quali vulgarmenie si chiamavano bigi, loro non restassino a discrezione degli offesi nel 34, che naturalmente erano anche inimici loro; e per questa cagione nella elezione de’ dieci e de’ venti vi avevano mescolato ancora di quegli che non erano stati mai urtati da Piero, come Giuliano Salviati, Lorenzo Morelli, Piero Guicciardini e simili, che erano in meno carico col popolo che gli altri. E nondimeno, benché e’ favorissino una cosa giusta e ragionevole, e la autoritá loro lussi allotta grandissima, sarebbe stato quasi impossibile avessiuo tenuta questa piena, sendo cosa procurata da tanti inimici chilo stato vecchio e grata al popolo, a chi piacciono tutte le novitá e travagli, quando venne uno aiuto non pensato, da fra Girolamo; del quale, perché fu uomo valentissimo ed instrumento di cose e moti grandi nella cittá nostra, ne racconterò quelle cose che paino dovere fare lume a quello in che necessariamente s’ha a ricordare.
Fu fra Girolamo da Ferrara, di famiglia Savonarola, famiglia popolana e mediocre, el quale studiando in arte, si fece de’ frati di San Domenico Osservanti; e doppo qualche tempo avendo fatto profitto grandissimo in filosofia, ma maggiore nella Scrittura sacra, ne venne a Firenze, dove insino a tempo di Lorenzo cominciò a predicare publicamente, accennando, con destrezza però, avere a venire grandissimi flagelli e tabulazione. Non piaceva questo predicare molto a Lorenzo; nondimeno parte perché non lo toccava nel vivo, parte perché d’avere altra volta cacciato da Firenze fra Bernardino da Feltre, uomo riputato santissimo, aveva ricevuto carico nel popolo; e forse avendo qualche riverenzia a fra Ieronimo, quale intendeva essere di buona vita, non gli proibiva el predicare, benché qualche volta lo facessi confortare da messer Agnolo Niccolini e da Pierfilippo ed altri, come da loro, che parlassi poco de futuris. Ed avendo giá fra Ieronimo acquistalo nel popolo credito di dottrina e santitá, morí Lorenzo, e lui seguitò a tempo di Piero, tuttavia allargandosi piú nel predicare, e predicendo la rinnovazione della Chiesa, un flagello presto a Italia, nella quale verrebbono nazione barbare, che piglierebbono le fortezze colle meluzze ed espugnerebbono ogni cosa. Ottenne ancora da Alessandro papa uno breve, benché con grandissima diffícultá, che la congregazione de’ frati predicatori di Firenze e di altri conventi di Toscana si separassi da quella di Lombardia e si reggessi da sé; la quale cosa lo fermò a Firenze e gli tolse l’aversi a mutare, come el piú delle volte di anno in anno fanno e’ frati. E riscaldando tuttavia nel predire, con grandissimo concorso e nome di santitá e di essere profeta, ed andando a udirlo d’ogni sorte d’uomini tra’ quali Giovanni Pico conte della Mirandola (cosí dotto uomo come avessi la etá nostra, e che, se non che morí di corto, fu di opinione si sarebbe fatto frate), entrò in tanto credito, che quando Piero andò a Serezzana, fu mandato, come di sopra è detto, imbasciadore al re Carlo, sperandosi che la santitá sua avessi a fare qualche gran frutto, e fu udito dal re sempre gratamente e con dimostrazione di averlo in riverenzia, in modo che allora giovò alla cittá, e poi quando el re fu in Firenze, sempre affaticandosi in beneficio della cittá.
In sulla cacciata di Piero, parlando apertamente e dicendo avere da Dio quelle cose future che e’ prediceva, ed avendo una audienzia ed una fede grandissima, voltosi alla conservazione de’ cittadini ed a fare usare la clemenzia, e fatto perdonare a ser Giovanni che anche era amico suo, cominciò a predicare per parte di Dio, che Dio, non gli uomini, era quello che aveva liberato la cittá dalla tirannide e che Dio voleva si mantenessi libera e si riducessi a uno governo populare alla viniziana, el quale era piú naturale a questa terra che alcuno altro. E con tanta efficacia, o per virtú divina o per sua arte, ci si riscaldò su, che benché dispiacessi assai a Bernardo Rucellai, a Francesco Valori, a Piero Capponi, a Lorenzo di Pierfrancesco, a’ Nerli ed agli altri primi del governo, pure non opponendosi scopertamente, e sendo questa opera favorita dalla signoria, si cominciò a tenerne pratica; e finalmente apiccandosi, fu commesso a’ gonfalonieri, a’ dodici, a’ venti, a’ dieci, agli otto, che ognuno ordinassi un modo di vivere popolare. La quale cosa sendo fatta, e piacendo piú quello de’ dieci, fu mandato per fra Girolamo, al quale, presente la signoria, fu letto questo modo; e lui avendolo approvato con parole savie e con mostrare che allora era assai fermare un modo che fussi buono in universale, perché e’ disordini che lussino ne’ casi particulari col tempo si conoscerebbono meglio, e piú maturamente si limerebbono e correggerebbono, ed in effetto, chiamati el consiglio del popolo e del comune, si vinse ed approvò. Lo effetto fu che si facessi uno consiglio nel quale intervenissino tutti e’ cittadini netti di specchio e che fussino di etá d’anni ventinove finiti, e che loro o padri, avoli o bisavoli, fussino stati de’ tre maggiori; eleggessinsi in quello consiglio tutti gli ufici e magistrati della cittá e di fuori, eccetto la signoria, la quale s’avessi a eleggere da’ venti per quello anno, e finito l’uficio loro, pel consiglio grande. El modo dello eleggere fussi che, a ogni uficio, si traessi di una borsa generale certo numero di elezionari, e’ quali nominassino uno per uno, non potendo però nominare alcuno di casa sua; e quegli cosí nominati andessino a partito, e quello che aveva piú fave nere che gli altri e vinceva el partito per la metá delle fave ed una piú, si intendessi eletto a tale uficio; eccetto certi ufici di t’uora, da un certo salario in giú, ne’ quali non andassi a partito chi era nominato, ma chi era tratto dalla borsa generale, vincendo però el partito, e rimanendo quello aveva piú fave; e perché gli elezionari avessino causa di fare buone nominazioni, fu ordinato che ognuno che nominava uno el quale fussi eletto, guadagnassi uno tanto, secondo la qualitá dello uficio. Facessi detto consiglio grande uno consiglio di ottanta uomini, di etá di anni quaranta, scambiandosi di sei mesi in sei mesi, potendo però essere raffermi, Luficio de’ quali fussi consigliare la signoria, eleggere ambasciadori e commessari; tutte le provisioni di qualunque sorte, quando fussino vinte fra’ signori e collegi, avessino a passare per le mani loro, avendo però avere la finale perfezione nel consiglio grande, el quale non aveva autoritá nessuna se non vi si trovava almeno uno numero di mille uomini; e perché in palagio non era luogo capace di tanto popolo, si ordinò si facessi a detto effetto una sala grande sopra la dogana, la quale insino a tanto fussi fatta, tutti gli abili al consiglio non erano del consiglio, ma solo mille uomini per volta, che si traevano a sorte della borsa generale per tempo di quattro ovvero sei mesi.
Vinta la provisione ed ordinato el consiglio, seguitando nel predicare, e mostrando che Dio aveva fatto misericordia alla cittá e cavatola delle mani di uno re potentissimo, e che cosi si voleva fare in verso a’ cittadini dello stato vecchio, per usare clemenzia e per mantenere la cittá in quiete confortò si facessi una provisione, che si perdonassino tutte le cose apartenente allo stato, fatte innanzi alla cacciata di Piero, e si facessi pace ed unione de’ cittadini; ed inoltre perché ognuno piú sicuramente si potessi godere el suo ed allora ed in futunon, e non fussi in potestá di sei signori perturbare a sua posta la cittá e cacciare ed amazzare e’ cittadini a arbitrio loro, come si era fatto in molti tempi passati, e con questo mezzo fare Grandi, si levassi tanta autoritá alle sei fave, e si disponessi che ogni volta che uno cittadino fussi per conto di stato condennato in qualunque pena o dalla signoria o da altri magistrati, potessi appellare al consiglio grande; e che quello magistrato che non ammetteva tale appellazione, fussi incorso in quella medesima pena che era colui che appellava. Ebbono queste provisione da molti uomini di autoritá repugnanzia grande, e finalmente, doppo contradizione di piú di, si messono a partito in consiglio e largamente si ottennono, parendo che ogni cosa introdotta da lui avessi maggiore forza che umana.
Assettate cosí per allora le cose della cittá, e’ dieci, fatte condotte e cosí posto uno balzello, avviorono le gente nostre in quello de’ pisani, e’ quali ostinatamente stavano rebelli; sendo condottieri nostri di piú autoritá messer Francesco Secco, el conte Rinuccio da Marciano e messer Ercole Bentivogli, e commessario Piero Capponi; e’ quali presono Palaia, Peccioli, Marti, Buti e alcune castella di poco momento, non sforzando Vico, Cascina, Librafatta e la Verrueola; l’altre cose erano in preda, e quando si pigliavano e quando di nuovo si ribellavano. Mandossi ancora a Milano due imbasciadori a congratularsi col nuovo duca, messer Luca Corsini e Giovanni Cavalcanti; principio debolissimo, e che apresso a quello signore tolse riputazione assai alla cittá, parendogli fussi governata dalla moltitudine, la quale non avessi elezione da uomo a uomo. E cosí passandosi le cose, sopravenne uno accidente nuovo, perché e’ montepulcianesi si ribellorono e dettonsi a’ sanesi; per la quale cosa sendosi rotta guerra fra noi e’ sanesi, s’ebbe a volgere parte delle gente verso Montepulciano, e per fare pruova, benché invano, di recuperarlo, e per guardare el Ponte a Valiano e le altre cose nostre. Perdessi ancora Fivizzano e gli altri luoghi nostri di Lunigiana, che ne andorono in mano di quegli marchesi Malespini; lasciossi la raccomandigia di Faenza, non sendo noi atti a difendere noi medesimi.