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XI.

Piero de’ Medici si dimostra sempre piú favorevole a Napoli, contro Francia. — Tentativo del re Alfonso contro Genova. — Discesa di Carlo VIII. — Nuova politica degli stati italiani e nuovi metodi di guerra introdotti da’ francesi. — Carlo VIII a Milano.— Piero gli va incontro e gli consegna le fortezze della repubblica. — Tornato in Firenze, la cittá gli si ribella e lo costringe a fuggire. — Pisa rivendica, la sua libertá. — Considerazioni sulla casa de’ Medici e sulle condizioni attuali di Firenze.


1494. Erano in Firenze Lorenzo e Giovanni figliuoli di Fierfrancesco de’ Medici, giovani ricchissimi e di gran benivolenzia col popolo per non avere maneggiato cose che dispiacessino; e’ quali non sendo bene contenti di Piero, massime Giovanni che era di natura inquietissimo e sollevava Lorenzo uomo bonario, cominciorono a tenere qualche pratica col signore Lodovico per mezzo di Cosimo figliuolo di Bernardo Rucellai, el quale, inimico di Piero, si era partito di Firenze. E sendo in su’ principi, e non avendo ancora trattato cosa di importanza, venuta la cosa a luce, di aprile nel 94 furono tutt’a dua sostenuti; e poi che ebbono aperto quello che avevano, benché Piero fussi malissimo disposto con loro, nondimeno non concorrendo a insanguinarsi e’ cittadini dello stato, furono liberati e confinati fuori di Firenze alle loro possessioni a Castello, e Cosimo Rucellai assente ebbe bando di rubello.

Ed in quegli medesimi di entrorono in Firenze quattro imbasciadori franzesi, e’ quali andavano a Roma, ed espo[p. 91 modifica]sono per transito la deliberazione del re e gli apparati faceva per passare in Italia, richiedendo la cittá lo favorissi o almeno gli concedessi per le sue gente passo e vettovaglia. Fu per voluntá di Piero, che per intercessione degli Orsini si era tutto dato al re di Napoli, contro ai parere di tutti e’ savi cittadini, negato l’uno e l’altro, pretendendo non poterlo fare per la lega vegghiava ancora col re Alfonso; e ribollendo ogni di le cose, furono mandati dalla cittá imbasciadori a Vinegia Giovan Batista Ridolfi e Paolantonio Soderini, per intendere la intenzione loro circa a questi movimenti e persuadere loro non volessino lasciare andare innanzi la ruina di Italia. E cosí ogni di pivi la cittá si scopriva per Napoli contro a Francia, con dispiacere universale del popolo, inimico naturalmente della casa di Ragona ed amico di Francia, contro alla voglia ancora de’ cittadini deilo stato, e’ quali vedendo Piero tanto ostinato a questa via non si ardivano contradirgli, e massime che messer Agnolo Niccolini e quegli piú suoi intrinsechi, parlavano sempre nella pratica sanza rispetto per questa parte.

Aveva Piero fatto una pratica stretta di cittadini, co’ quali si consultavano queste cose dello stato: messer Piero Alamanni, messer Tommaso Minerbetti, messer Agnolo Niccolini, messer Antonio Malegonnelle, messer Puccio Pucci, Bernardo del Nero, Giovanni Serristori, Pierfilippo Pandolfini, Francesco Valori, Niccolò Ridolfi, Piero Guicciardini, Piero de’ Medici ed Antonio di Bernardo; a’ quali tutti, da pochi in fuora, dispiaceva questa risoluzione, nondimeno sendo favorita da’ piú intrinsechi, non si opponevano, eccetto qualche volta e non molto Francesco Valori e Piero Guicciardini. Ma perché Piero in spirito intendeva quanto la sodisfacessi, non conferiva loro tutte le lettere e gli avisi, ma solo quelle cose che diminuivano ed erano in disfavore del re di Francia; el quale tutto di si metteva in ordine, ed a Genova per conto suo si armavano legni, e se ne faceva scala della guerra.

Per la qual cosa el re Alfonso, considerando di quanto momento sarebbe el levargli la oportunitá di Genova, avendo [p. 92 modifica]spalle da alcuni fuorusciti genovesi, fece impresa mutare lo stato di Genova e mandò a Pisa don Federigo suo fratello con una grossa armata; el quale di poi andato a porto Spezie e messo gente in terra, furono quegli che scesono ributtati e rotti; di che don Federigo, non riuscendo la impresa, si ritornò a Pisa. E parendo al re ed a Piero che el tenere bene guardata Serezzana, rispetto allo essere el passo fortissimo, impedissi al re Carlo potere passare da quelle parte, per tòrgli ancora el passo di Romagna, mandorono Ferrando duca di Calavria, primogenito del re, in Romagna con uno esercito grosso, acciò che colle spalle di Cesena, terra della Chiesa, e di Faenza, che era nella nostra raccomandigia, si opponessi a’ franzesi. Nel qual tempo el re Carlo, desideroso passare pe’ terreni nostri pacificamente, mandò di nuovo uno oratore a Firenze a richiedere del passo, promettendo largamente amicizia e tutti e’ favori e commoditá potessi fare alla cittá; la quale cosa sendo pure rifiutata, cacciò del regno suo tutti e’ mercatanti nostri. Né per questo si raffreddava la ostinazione di Piero; anzi parte mosso dalla amicizia teneva col re Alfonso e cogli Orsini, parte insospettito dal signore Lodovico, con favore di chi el re Carlo passava, e perché Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco erano partitisi da’ confini e rifuggitisi a lui, ogni di perseverava nella ruina sua; ed attendendo a fortificarsi e fare capo grosso a Pisa per rispetto di Serezzana e di quella banda, vi furono mandati commessari generali per conto di tutta la guerra, Pierfilippo Pandolfini e Piero Guicciardini.

Era una parte dello esercito del re Carlo poco innanzi passate l’Alpe, e da poi lui personalmente col resto dello esercito venutone in Italia; nel quale era grandissimo numero di uomini d’arme, fanterie cd artiglierie, ma quanto non so el particulare. Ed era entrata in Italia una fiamma ed una peste che non solo mutò gli stati, ma e’ modi ancora del governargli ed e’ modi delle guerre; perché dove prima, sendo divisa Italia principalmente in cinque stati, papa, Napoli, Vinegia, Milano e Firenze, erano gli studi di ciascuno [p. 93 modifica]per conservazione delle cose proprie, vólti a riguardare che nessuno occupasse di quello d’altri ed accrescessi tanto che tutti avessino a temerne, e per questo tenendo conto di ogni piccolo movimento che si faceva e faccendo ro more eziandio della alterazione di ogni minimo castelluzzo: e quando pure si veniva a guerra erano tanto bilanciati gli aiuti e lenti e’ modi della milizia e tarde le artiglierie, che nella espugnazione di uno castello si consumava quasi tutta una state, tanto che le guerre erano lunghissime ed e’ fatti d’arme si terminavano con piccolissima e quasi nessuna uccisione. Ora per questa passata de’ franciosi, come per una subita tempesta rivoltatasi sottosopra ogni cosa, si roppe e squarciò la unione di Italia ed el pensiero e cura che ciascuno aveva alle cose communi; in modo che vedendo assaltare e tumultuare le cittá, e’ ducati ed e’ regni, ciascuno stando sospeso cominciò attendere le sue cose proprie, né si muovere per dubitare che uno incendio vicino, una ruina di uno luogo prossimo avessi a ardere e ruinare lo stato suo. Nacquono le guerre subite e violentissime, spacciando ed acquistando in meno tempo uno regno che prima non si faceva una villa; le espugnazione delle cittá velocissime e condotte a fine non in mesi ma in di ed ore; e’ fatti d’arme fierissimi e sanguinosissimi. Ed in effetto gli stati si cominciorono a conservare, a rovinare, a dare ed a tórre non co’ disegni e nello scrittoio come pel passato, ma alla campagna e colle arme in mano.

Sceso el re in Italia e venendone a Milano, el signore Lodovico, benché fussi passato per introdotto suo e fussi in amicizia seco, nondimeno considerando la infidelitá de’ principi e massime de’ franzesi, e’ quali per gli utili e commodi loro tengono poco conto della fede e dell’onore, cominciò a dubitare che el re sotto ombra di volere che lo stato fussi liberamente in mano del duca Giovan Galeazzo suo nipote, non lo levassi di quello governo a qualche suo proposito; per tòrgli ogni occasione di nuocere, gli dette el veleno. Del quale sendo morto lo innocentissimo giovane, fatti subito ragunare e’ cittadini di Milano, sendovi alcuni che per suo [p. 94 modifica]ordine lo proposono, fu eletto duca, benché del signore morto rimanessi uno piccolo e bellissimo fanciullo. Entrato di poi cl re Carlo in Milano e quivi ricevuto onoratissimamente, se ne venne per la via di Pontriemoli con una parte dello esercito alla volta di Lunigiana, avendone mandata una altra in Romagna a rincontro del duca di Calavria; e perché el castello di Serezzana era fortissimo e bene fornito di artiglierie e di tutte le cose necessarie da difesa, per non vi perdere tempo voltosi verso Fivizzano lo prese e saccheggiò con uno grandissimo terrore di tutta quella provincia.

A Firenze erano le cose condizionate e disposte male, e lo stato di Piero molto indebolito; ed el popolo vedendosi tirata adosso una guerra potentissima e da non potere reggere, sanza bisogno e necessitá alcuna, anzi per favorire e’ ragonesi che erano universalmente in odio, contro a’ franzesi amati assai nella cittá, sparlava publicamente di Piero, massime sapendo essere stata deliberazione sua contro la volontá de’ primi cittadini dello stato. Aggiugnevasi in genere tutte quelle cagione che fanno e’ popoli inimici de’ grandi, el desiderio naturale di mutare le cose, la invidia ed el carico di chi aveva maneggiato: inoltre tutti coloro che erano inimici e tenuti sotto dallo stato, risentitisi e venuti in speranza che la cittá tornassi alla libertá antica, e loro avessino a essere nel grado giudicavano meritare, facevano piú pericolosa questa mala disposizione. Concorrevaci che e’ governi di Piero in sé, e la natura sua era di qualitá, che non solo era in odio agli inimici, ma ancora dispiaceva agli amici, e quasi non la potevano sopportare; lui uomo altiero e bestiale e di natura da volere piú tosto essere temuto che amato; fiero e crudele, che a’ suoi di aveva di notte dato delle ferite e trovatosi alla morte di qualche uomo; sanza quella gravitá che si richiedeva a chi fussi in tale governo, conciosiaché in tanti pericoli della cittá e suoi propri stava tutto di nelle vie publicamente a giucare alla palla grossa; di natura caparbio, e che non si intendendo delle cose, o voleva governarle secondo el cervello suo, credendo solo a sé medesimo, o se prestava [p. 95 modifica]fede e si consigliava intrinsecamente con persona, non erano quegli cittadini che avevano esperienzia delle cose della cittá, e governatola lungo tempo, ed erano tenuti savi, ed avevano interesse nel bene e nel male publico, e naturalmente erano amici di lui, del padre e della casa sua; ma con ser Piero da Bibbiena, con messer Agnolo N’iccolini e simili uomini ambiziosi e cattivi, e che lo consigliavano in tutte le cose secondo che ciecamente erano traportati dalla ambizione e le altre cupiditá, e per compiacerlo ed essergli piú cari, lo indirizzavano el piú delle volte per quella via per la quale lo vedevano inclinato e vólto.

E però, trovandosi Piero in gran pericolo per el disordine di fuori e la mala disposizione di drento, si risolvè essergli necessario accordarsi con Francia, giudicando quello che era vero, che posata bene questa parte, ognuno nella cittá per timore o altro si rassetterebbe; e seguitando adunche, benché in diversi termini e poco a proposito, l’esemplo del padre Lorenzo quando andò a Napoli, una sera furiosamente, accompagnato da Iacopo Gianfigliazzi, Giannozzo Pucci ed altri amici suoi, se ne andò a Serezzana a trovare el re, dove era venuto da Milano el duca Lodovico. Quivi doppo molte pratiche e ragionamenti si conchiuse di dare in mano del re per sua sicurtá le fortezze di Pisa, di Serezzana, di Pietrasanta e di Livorno; e di subito gli furono sanza altra licenzia della cittá e sanza e’ contrasegni, consegnate quelle di Serezzana e Pietrasanta da Piero di Lionardo Tornabuoni e Piero di Giuliano Ridolfi.

A Firenze in sulla partita di Piero avendo ognuno preso animo e licenzia, non solo si continuava ed accrescevasi nello sparlare publicamente, ma ancora si coininciorono in palagio a risentire e’ cittadini; fra’ quali messer Luca Corsini (che era de’ signori e stato fatto da Piero, come confidato e sfegatato dello stato, per rispetto di Piero Corsini suo fratello) ed Iacopo di Tanai de’ Nerli e Gualterotto Gualterotti che erano gonfalonieri di compagnia, messi su, come si crede, da Piero Capponi che era inimicissimo del governo, cominciorono [p. 96 modifica]nelle pratiche a dire male di Piero, e che la cittá sotto la cura sua rovinava, e che sarebbe bene levarla di mano sua e della tirannide, e restituirla a uno vivere libero e popolare. E di poi sentendosi le convenzione di dare quelle terre in mano del re, e di giá essere data Serezzana, si cominciò a gridare per la cittá che le si dessino in nome del publico e non del tiranno; e però si elesse imbasciadori, che subito cavalcorono al re, fra Ieronimo Savonarola da Ferrara, che predicava in Firenze e di chi di sotto si dirá. Tanai de’ Nerli, Pandolfo Rucellai, Pier Capponi e Giovanni Cavalcanti.

Era gonfaloniere di giustizia Francesco dello Scarfa, ed e’ signori, uomini tutti stati scelti per amici grandi ed affezionati del reggimento; e nondimeno messer Luca si era apertamente scoperto inimico, e con lui concorreva Chimenti Cerpellone, ed el gonfaloniere pareva uomo da lasciare correre. Da altra parte Antonio Lorini, Francesco d’Antonio di Taddeo e Francesco Niccolini favorivano vivamente la causa di Piero; in modo che, sendo una sera venuti a parole, messer Luca corse furiosamente a sonare la campana grossa a martello, e sendo ritenuto da chi gli corse drieto, non potè sonare piú che due o tre tocchi; e’ quali sendo uditi per la terra, che era circa a tre ore di notte, el popolo tutto corse in piazza, e di poi non sentendo piú sonare né suscitare in palagio o fuori movimento alcuno, ognuno non bene sapendo quello fussi stato, si ritornò a casa. E cosí stando la cittá sospesa ed alterata, Piero avendo aviso dagli amici sua come le cose in Firenze transcorrevano troppo, e che ognuno per la assenzia sua aveva preso animo e baldanza, presa licenzia dal re, se ne tornò a Firenze a di 8 di novembre. Tornata molto dissimile da quella di Lorenzo suo padre quando tornò da Napoli, che gli andò incontro tutto il popolo della cittá e fu ricevuto con somma letizia, recandone seco la pace e la conservazione dello stato della cittá; a Piero non andò incontro se non pochi amici sua, e fu ricevuto con poca allegrezza, tornando massime sanza conclusione ferma, se non di avere diminuito e smembrato Pisa e Livorno, occhi principali [p. 97 modifica]dello stato nostro, e Pietrasanta e Serezzana acquistate da suo padre con grandissima spesa e gloria.

Tornato, andò subito a visitare la signoria; e riferito generalmente quello aveva fatto, gli inimici sua e quegli si erano scopertigli contro, entrati in grandissimo timore, si risolverono che bisognava giucare del disperato. In modo che el giorno sequente, a di 9 di novembre 1494, che era el di di san Salvadore, sendosi inteso che el signore Paolo Orsino, nostro soldato, con cinquecento cavalli era venuto alle porte per essere a’ favori di Piero, ed essendo la maggiore parte della signoria volta contro a Piero, Iacopo de’ Merli con alcuni altri collegi che lo seguitavano, armato era ito in palagio, e fattolo serrare, si stava a guardia della porta; quando Piero per riscaldare gli amici aveva in palagio, e credendo nessuno avessi animo di vietargli lo entrare, cogli staffieri sua e gran numero di armati, armato ancora egli, benché sotto el mantello, ne venne al palagio; e quivi sendogli risposto che se voleva entrare entrassi lui solo e per lo sportello, sbigottito, vedendosi perduto lo stato, si ritornò a casa. Dove come fu giunto, intendendo che e’ signori inimici sua chiamavano el popolo, e come el popolo si cominciava a levare gridando: «viva popolo e libertá»; e di poi sendogli per uno mazziere de’ signori notificato come e’ signori l’avevano fatto rubello, al quale partito concorsono gli amici sua per paura e quasi sforzati per conforto di chi gli era apresso, montato a cavallo prese la via di Bologna. Uditosi Piero essere stato ributtato dal palagio, si mosse solo in suo favore el cardinale e Pierantonio Carnesecchi, e’ quali con armati ne vennero verso piazza; ma di poi intendendo che el popolo multiplicava contro a Piero e che lui era stato fatto rubello e si partiva, ognuno si ritirò a casa, ed el cardinale in abito di frate si usci sconosciuto di Firenze; cosí si fuggi Giuliano loro fratello, ser Piero da Bibbiena e Bernardo suo fratello, e’ quali erano in odio grandissimo del popolo.

Giunse in questo tumulto in Firenze Francesco Valori el quale tornava dal re, dove di nuovo era stato mandato con [p. 98 modifica]piú altri cittadini imbasciadore; e perché gli era in somma benivolenzia del popolo, sendo sempre stato uomo netto ed amatore del bene, ed avendo fama di essersi opposto a Piero, fu ricevuto con grandissimo gaudio di tutto el popolo, e portatone in palagio quasi ili peso in sulle spalle de’ cittadini. Corse di poi el popolo furiosamente a casa Piero e la mandò a sacco, e di poi voltosi a casa Antonio di Bernardo e ser Giovanni da Pratovecchio notaio delle riformagioni, le saccheggiò ed arse; e loro, benché si fussino nascosti per le chiese e pe’ conventi, pure ritrovati alla fine, ne furono menati presi al bargello. Corsono di poi a casa messer Agnolo Niccolini, e giá avendo messo fuoco alla porta, l’arebbono arsa; se non che messer Francesco Gualterotti ed alcuni uomini da bene dubitando che questa licenzia non trascorressi troppo, córsivi, raffrenorono la moltitudine e la ridussono in piazza che con grandissime voce gridava: «viva el popolo e la libertá»; e quivi per cominessione elei la signoria, messer Francesco Gualterotti, solito in sulla ringhiera, notificò essere state levate via le monete bianche.

Veduto spacciato lo stato di Piero, vennono in piazza a cavallo con compagnia di armati, Bernardo del Nero e Niccolò Ridolfi, gridando: «popolo e libertá»; ma ributtati e cacciati come sospetti e con pericolo di essere morti se ne ritornorono a casa, e la sera per piú loro sicurtá accompagnati bene per commessione della signoria ne vennono in palagio; e cosí Pierfilippo Pandolfini, el quale la sera era tornato da Pisa partitosi sanza licenzia, o perché dubitassi delle cose di Pisa, o perché, avendo inteso a Firenze sparlarsi assai di lui, volessi provedere el meglio poteva a’ fatti suoi. Messer Agnolo Niccolini, uno ancora egli degli imbasciadori al re, parendogli Piero fussi spacciato, e dubitando di Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco, de’ quali era stato inimicissimo, e concitatore di Piero contro a loro, partitosi da Pisa e presa la volta per la montagna di Pistoia, ne andò in Lombardia. E cosí cacciato Piero e quietato un poco el tumulto, benché el dí e la notte el popolo stessi armato a guardia della cittá, si [p. 99 modifica]deliberò dalla signoria, che si sospendessi l’uficio degli otto della pratica e de’ settanta, e non si potessino ragunare insino a tanto si deliberassi altro.

El medesimo dì di san Salvadore, a dì 9 di novembre, el re Carlo avendo ricevute le fortezze di Livorno, Pietrasanta e Serezzana, entrò in Pisa e gli furono consegnate le cittadelle; le quali, secondo le convenzione, avessino a stare in mano del re per sua sicurtá, e nondimeno e’ corpi di Pisa e delle altre terre s’avessino come prima a tenere e governare da’ fiorentini. Ma la sera medesima ristrettisi insieme e’ pisani, andorono a chiedere al re rendessi loro la libertá; la quale sendo conceduta, gridando «libertá» andorono per fare villania agli uficiali fiorentini (e’ quali, udito el tumulto, si erano raccolti insieme e rifuggiti nel banco de’ Capponi) Tanai de’ Nerli, Piero Capponi, Piero Corsini e Piero Guicciardini ed alcuni altri; e quivi avendo avuta una guardia del re, si salvorono dalla malignitá e perfidia de’ pisani. E vedendo la cittá al tutto ribellata e, partendosi el re, non vi potere stare sicuri, el dì seguente con lui si partirono, e lasciatolo per la via, ne vennono a Firenze. Cosí el medesimo giorno di san Salvadore ebbe dua grandissimi accidenti: la mutazione dello stato nostro e la ribellione di Pisa; le piú principali cose si potessino alterare nello essere nostro.

Fu certo cosa mirabile che lo stato de’ Medici che con tanta autoritá aveva governato sessanta anni e che si reputava appoggiato dal favore di quasi tutti e’ primi cittadini, sì subitamente si alterassi per le mani di messer Luca Corsini ed Iacopo de’ Nerli, uomini giovani, sanza credito, sanza autoritá, sanza consiglio e leggierissimi. La quale cosa non nacque peraltro se non che e’ modi ed e’ portamenti di Piero e la insolenzia di chi gli era apresso, avevano tanto male disposto gli animi di tutti; e sopra tutto l’aversi recato adosso pazzamente una guerra potentissima e che non si poteva sostenere, e l’avere messo a scotto ed in preda sanza bisogno e cagione alcuna tutto lo stato nostro, che chi si gli scoperse da prima contro trovò la materia disposta in forma che, come gli fu [p. 100 modifica]dato principio di muoverla, fece da se medesima. Questo fine ebbe e cosí perdé lo stato la casa de’ Medici, casa nobilissima ricchissima e riputatissima per tutta Italia, e per l’adrieto assai amata nella cittá, e’ capi della quale, massime Cosímo e Lorenzo, avevano con grandissime difficoltá, con grandissime virtú, con tempo ed occasione, fatto conservato ed augumentato lo stato, accrescendo non solo lo stato loro privato, ma eziandio lo imperio publico della cittá, come fu el Borgo a San Sepolcro, Pietrasanta e Serezzana, Fivizzano e quella parte di Lunigiana, el Casentino, lo stato di Pietramala e Val di Bagno; tutte cose pervenute nella cittá sotto el governo di quella casa. La quale a ultimo rovinò in brevissimo tempo sotto el governo di un giovane temerario, el quale si trovò in tanti fondamenti di potenzia ed autoritá, e si bene favorito ed appoggiato, che se non si fussi sforzato ed avessi fatto a gara di perdergli, era impossibile non si conservassi; dove la sua pazzia non solo rovinò sé, ma eziandio la cittá, spogliandola in otto giorni di Pisa, Livorno, Serezzana e Pietrasanta, luoghi donde come poi hanno meglio mostro gli effetti, si traeva la potenzia, la sicurtá, la autoritá e gli ornamenti nostri. In modo che si può dire che uno di solo cancellassi, anzi lungamente contrapesassi ed avanzassi a tutti e’ benefici che la cittá nostra aveva mai in tempo alcuno ricevuti da quella casa; perché la perdita massime di Pisa fu si grande e di si inestimabile danno alla cittá, che molti hanno dubitato quale fussi maggiore nei ili di san Salvadore, o l’acquisto della recuperata libertá o la perdita di Pisa; in che, pretermettendo molti discorsi si potrebbono fare, voglio conchiudere aversi tanto piu da stimare Luna cosa che l’altra, quanto egli è piú naturale agli uomini cercare prima avere libertá in se proprio, che imperio in altri; massime che, parlando veramente, non si può dire avere imperio in altri chi non ha libertá in sé.

Cacciato Piero, furono per partito della signoria rimessi tutti e’ cittadini stati confinati e cacciati per conto di stato dal 34 insino a di 9 di novembre 1494; le quale cose benché [p. 101 modifica]rallegrassino ognuno, erano nondimeno si pericolosi gli accidenti che andavano atorno, che gli animi non potevono gustare questi piaceri. E certo io credo che giá un grandissimo tempo la cittá non fussi stata in maggiori travagli: drento, cacciata una casa potentissima e che sessant anni aveva avuto el governo, e rimesso tutti gli inimici di quella; per la quale mutazione rimanevano alterati tutti e’ modi del governo, stavano in sommo timore tutti quegli che avevano avuto autoritá a tempo di Lorenzo o di Piero, tutti quegli e’ quali, o e’ maggiori loro, avevano in tempo alcuno offesi gli usciti o e’ sua antecessori, tutti quegli che o per compere o per vie di pagamento o di rapine possedevano de’ beni di chi era stato rubello; di fuori, smembrato tanto stato e quasi la piú parte del nostro dominio, donde si vedeva la cittá avere a restare indebolita, con meno entrate e forze e con una guerra difficiliima e pericolosissima non solo co’ pisani, ma con molti ci impedirebbono la recuperazione. Aggiugnevasi in su e’ nostri terreni un re di Francia con tanto esercito, inimico ed ingiuriato da noi, pieno di cupiditá e crudeltá, el quale dava timore non solo di guastarci el paese nostro, di farci ribellare el resto delle terre suddite, ma edam di saccheggiare la cittá, di rimettere Piero de’ Medici e forse insignorirsi di Firenze; el quale se si partissi, el meno male si potessi temere era avergli a dare una somma grandissima di danari ed a votare la cittá delle sustanzie e sangue suo.